DECLINO DEL MATRIMONIO

FATTORI E TENDENZE NEL DECLINO DEL MATRIMONIO

 

Prospettiva storica

Oggi, e da diversi secoli, in Occidente, abbiamo una determinata idea del matrimonio: un rapporto tra due persone che principia con un atto formale –le nozze-, e che continua sino a che non sopravvenga la morte di uno dei due coniugi, il divorzio o l’annullamento. Questo rapporto genera reciproci diritti e doveri, e in passato, generava anche un potere legale ed esplicito del marito sulla moglie: jus corrigendi, jus redibitorium, jus ad acta per se apta ad prolis procreationem; diniego di autorizzazione a che la moglie si mettesse in affari; diritto di fissare la residenza; diritto sulla dote. Per contrappasso, il marito assumeva il dovere di mantenere la moglie.

Il modello su accennato non è però l’unico modello di matrimonio storicamente realizzatosi in Occidente. L’istituto del matrimonio percorre una lunga e profonda evoluzione dalla Roma monarchica ad oggi, e in origine era un istituto molto diverso da come è oggi. Anche perché diversa era la cornice sociale e ordinamentale –la politeia- in cui si collocava. La Roma arcaica, ossia il populus romanus dei primi secoli, era costituita come una confederazione di gentes, ciascuna delle quali composta da familiae. La familia aveva a capo il paterfamilias, che era il capostipite maschio ed aveva patria potestas con jus vitae ac necis su tutti i membri, nonché potere sui beni mobili e immobili; tuttavia il suo comportamento era controllato ed eventualmente punito, se arbitrario, crudele, indegno, dallo stato attraverso i censores, magistrati che costitituivano una specie di tribunale etico. Quando un figlio maschio si sposava (uxorem ducebat), si celebrava una cerimonia religiosa (la cui forma più antica è detta confarreatio, ossia conferimento dei pani di farro), la quale non era le nozze e non costituiva il matrimonio, in virtù della quale la sposa usciva dalla potestas del proprio paterfamilias e dall’ambito sacrale della familia di origine (detestatio sacrorum) per entrare nella potestas, e più specificamente nella manus (così era chiamata la potestas del paterfamilias sulle spose – onde l’espressione ‘chiedere la mano’) del paterfamilias dello sposo (ossia, del suocero o del padre del suocero, o dello sposo stesso se i suoi ascendenti maschi erano morti). Si poteva anche fare un contratto patrimoniale accessorio (consignare tabulas). Ma non si celebrava alcun atto formale per costituire il rapporto coniugale stesso. Non c’era un sì, non c’erano firme su registri pubblici. Il coniugio veniva costituito dal fatto stesso di convivere pubblicamente come marito e moglie, con maritalis affectio. Era una res facti con effetti giuridici (legittimità della prole, innanzitutto). Del pari, il divortium (di-vertor) (analoga è l’etimologia del greco equivalente: apallagè, da apallattein) e il repudium (re-pudet) non venivano fatti mediante un atto pubblico o privato, una sentenza, un proclama; bensì mediante la separazione di fatto: il marito o la moglie abbandona il domicilio coniugale; oppure il marito scaccia la moglie (‘I foras!’). Non c’era bisogno di alcuna sanzione amministrativa o giudiziale. Il coniugio, nel suo nascere, vivere e morire era una res facti, sia pure con conseguenze sul piano giuridico. Antiquitus libera matrimonia esse placuit.

Si noti che il coniugio era cosa diversa dalla manus. Poteva cessare il primo (per morte o riduzione in schiavitù del marito, vivente il di lui paterfamilias, o divorzio) e perdurare la seconda.

Sia pur fuggevolmente, devo anche menzionare un’altra ‘inversità’ del matrimonio romano rispetto al nostro, costituita dal concetto di jus conubii. Oggi vale il principio che due persone di sesso diverso si possono sempre sposare, amenochè non osti qualche impedimento (ad es., il fatto di essere fratello e sorella). Nel diritto romano vigeva il principio opposto: due persone non potevano diventare legittimamente marito e moglie (con tutti gli effetti connessi), amenochè tra i loro gruppi di appartenenza ci fosse lo jus conubii, ossia il diritto di sposarsi. Che non c’era, ad. es., tra cives romani e molti popoli stranieri; o tra civis e schiavo; o tra persone del ceto senatorio e certe categorie sociali inferiori. Il diritto di sposarsi tra appartenenti a due popoli diversi veniva introdotto mediante un trattato, o foedus.

Questi principi si mantengono fino agli imperatori cristiani, con la sola, graduale scomparsa delle forme rituali solenni (la confarreatio) e del potere assoluto del paterfamilias.

Gli imperatori cristiani gradualmente trasformano il coniugio fino a farlo diventare come è oggi, ossia uno status in cui si entra soltanto per mezzo di un atto formale e puntuale, che lo costituisce (se manca tale atto, nessuna convivenza, per quanto intensa, può costituire il coniugio, restandosi nella semplice convivenza); e da cui si esce non liberamente, ma soltanto per atti  o fatti tipici: divorzio, annullamento, morte dell’altro coniuge. Alla fine di questo percorso evolutivo, il matrimonio diviene indissolubile, interamente legato al sacramento religioso cristiano.

Negli ultimi decenni osserviamo l’aumento percentuale delle unioni di fatto, libere, e il declino del matrimonio stabile. Ma non si tratta affatto di un ritorno alle origini romane dell’istituto familiare. Siamo andati molto avanti, anzi, nella direzione opposta. Le condizioni giuridiche, oltre che socio-economiche e psicologiche, sono antitetiche.

La familia romana era qualcosa di molto forte e vincolante, giuridicamente, con una strutturazione gerarchica e la dominanza del pater (originariamente di carattere politico) su tutti gli altri membri, e in ogni caso del marito sulla moglie, che non acquistava (fino alla classicità) mai la condizione di sui juris e restava sempre sotto la tutela del marito, o del figlio maschio se maggiorenne, o del padre, o del suocero, siccome considerata mentalmente inadeguata a gestirsi (adversus mulierem aeterna auctoritas esto propter imbecillitatem animi). Del resto la donna si sposava mediamente intorno ai 12 anni con uno sposo mediamente di 25. La familia, insomma, era un’unità economico-sociale molto ben definita e protetta, perimetrata, con totale (almeno all’inizio) dipendenza economica dei membri dal pater, sottoposta a una sua autorità interna rispettata e solo limitatamente e indirettamente condizionabile dallo stato (anche se tale condizionabilità aumenta nel corso dei secoli). In fasi arcaiche aveva anche una specie di tribunale interno.

 

Prospettiva odierna

La famiglia occidentale odierna è per molti versi l’opposto di tutto ciò che fu la familia romana.

In quanto alla forma, il matrimonio inizia con un atto formale e puntuale, sufficiente e necessario per costituire il rapporto coniugale; e parimenti cessa solo nel momento in cui interviene un altro fatto puntuale, giudiziale (sentenza di divorzio o annullamento del matrimonio) o naturale (morte del coniuge).

In quanto alla sostanza, innanzitutto, il sistema giuridico e socio-economico ha svuotato la famiglia, l’ha svalutata e disconosciuta come istituzione. Infatti, giuridicamente, la famiglia odierna è anarchizzata. E’ l’opposto di una unità istituzionale, una cellula socio-giuridica coesa, rispettata dallo stato, affidata a una figura istituzionale forte come il paterfamilias, o anche a una coppia genitoriale eticamente forte, come avveniva e in parte ancora avviene nella famiglia tradizionale moderna. Essa è un qualcosa di aperto, senza filtri e controlli di un paterfamilias o di figure genitoriali forti, rispetto ai messaggi in entrata, diretti al suo interno, ai figli. E’ un quid senza precisi confini o contenuti, senza una guida autorevole  e stabile, ma anche responsabile, con funzione di ‘rappresentante’ verso l’esterno, che parla per tutti, e per cui si deve passare per raggiungere i figli e la moglie. Tutti sono pari e livellati rispetto ai messaggi del sistema, dell’economia, del marketing che dettano le nuove immagini di sé, i nuovi contenuti identitari.

Oggi l’autorità del marito sulla moglie, come quella dei genitori sui figli, è relativizzata o ridicolizzata o invertita. Ma non in ossequio alla libertà o alla parità o ad esigenze pedagogiche, bensì in ossequio ad esigenze economiche. Non ci si rapporta più agli altri in base a un principio del dovere, bensì a un principio del piacere.

L’uomo, per la donna, vale sempre più come mezzo per realizzare o avvicinare valori edonistici, consumistici o di immagine – a spese dell’umanità della relazione, oltrechè del patrimonio. E i genitori, per i figli, sono sempre più persone il cui compito è gratificare e comperare le cose che essi desiderano e di sentirsi in colpa se non lo fanno. I doveri (dover essere, dover fare, dover apparire, dover dare), l’etica, i ruoli, sono stati complessivamente ricodificati in funzione di sostenere la domanda di beni e servizi. In questo modo il genitore perde la capacità di insegnare alla prole il contenimento e la gestione dei propri desideri e impulsi, la propria autodifesa da essi. La pubblicità, i modelli culturali, che veicolano con scientifica seduttività –insegnata nei corsi e nei libri di marketing e tecniche di vendita- il nuovo codice, penetrano nella famiglia aggirando le impotenti e spesso inconsapevoli figure parentali, e raggiungono i bambini direttamente attraverso televisione e altri mass media, ma pure per contatto sociale; e lo fanno senza alcun filtro, massicciamente, con più tempo a disposizione di quanto i genitori spesso possano dedicare alla comunicazione con la prole. I modelli, i valori, vengono dallo schermo e dall’esempio dei coetanei –ultimamente però dai mass media- più che dal rapporto umano coi genitori e gli altri familiari, i quali assumono sempre più il ruolo di garanti della possibilità di conformasi a quei valori e modelli.

In questa nuova cultura e natura della famiglia, in cui i rapporti sono orientati alla strumentalizzazione dell’altro come soddisfattore di bisogni artificiali (sicchè l’altro è vissuto come traditore se non espleta questa funzione – l’attenzione relazionale viene spostata dall’altro-come-persona all’altro-come-funzione) e alla sua connessa svalutazione e deresponsabilizzazione come autorità morale, non è sorprendente trovare un aumento sia dell’instabilità delle coppie che della violenza e dei reati di sangue, e particolarmente di matricidi e figlicidi. Il famoso caso di Erica e Omar mi pare potrebbe essere un ottimo esempio di figlia che ammazza la madre perché la madre le nega l’accesso ai piaceri, ai godimenti materiali cui Erica ‘sa’ di aver diritto, sicchè il rifiuto della madre (religiosamente motivato, a quanto mi consta) le pare assurdo e ostile, intollerabile, meritevole della morte.

Giuridicamente, il vincolo coniugale è stato pressochè svuotato: non c’è più potere direttivo del marito sulla moglie, bensì parità di diritti. Se non ci si accorda su una scelta (la scuola del figlio, un trasloco, etc.), nessuno può imporre all’altro la propria decisione e il funzionamento si blocca, come una barca con due timoni. Lo stesso dovere di fedeltà è assai sfumato: l’adulterio non solo non è più reato, ma, nella giurisprudenza, non sempre determina colpa (con addebitabilità della separazione) e dovere di risarcimento. E ovviamente nulla impedisce a una persona sposata di andarsene di casa di punto in bianco e di formare un’altra coppia. Sostanzialmente, percepisci gli effetti giuridici del matrimonio solo in negativo: quando il tuo coniuge muore e tu erediti, oppure quando il rapporto si sfascia e c’è da fare una causa di separazione, e in questa occasione uno dei due coniugi cerca di sfruttare il matrimonio per spremere soldi dall’altro coniuge.

Economicamente, nelle condizioni di lavoro presenti, il vincolo coniugale e i doveri verso la prole tendono a diventare disfunzionali, ostacolanti. La famiglia è molto di rado un’unità economica produttiva rurale simile a quella della Roma antica. Di rado i coniugi lavorano insieme. La donna tende a lavorare esternamente e a rendersi patrimonialmente, culturalmente, socialmente indipendente dal marito. La famiglia non è più una risorsa per la produzione, bensì un ostacolo all’efficienza e alla carriera dei coniugi, cui possono aprirsi strade tra loro incompatibili.

Socialmente, la struttura gerarchica e le dipendenze interne, il ‘perimetro’, sono scomparsi o quasi. I membri della famiglia, e la moglie in particolare, godono di libertà di movimento e relazione, in grado variabile a seconda dei contesti sociali. Non ci si sposa più per dovere, per utilità, per imposizione; bensì per la personale e individuale realizzazione, oggi identificata correntemente col piacere e il divertimento. Perciò quando piacere e divertimento si smorzano, per effetto quantomeno dell’abitudine, non restano molti fattori a tenere insieme la coppia (forse la donna è trattenuta dal timore di sentirsi ed esser sentita come zitella)..

Sinceramente, tirando le somme, credo che l’istituto del matrimonio (non quello della famiglia) sia ormai privo di senso e che sarebbe logico abrogarlo, sostituendolo con qualche forma di contratto di natura pratica e senza pretese irrealistiche. Anzi, credo che sia nocivo alla famiglia stessa. Non solo non stabilizza più la coppia, ma semmai è un fattore di sua instabilità. Infatti, proprio la possibilità di sfruttare il matrimonio per spremere soldi al marito (possibilità che manca nelle unioni di fatto) è un potente vettore motivazionale in favore della separazione, come si vede in molte separazioni e divorzi, che si traducono in lunge guerre giudiziarie sui soldi e sui beni.

Non sono un laudator temporis acti e né un nostalgico del patriarcato. Anzi, soggettivamente sono per la parità tra i coniugi e per l’indipendenza della donna. Peraltro constato –constatazione ovvia- che questa parità e questa indipendenza non consentono la stabilità della famiglia e anzi ne scoraggiano la costituzione, soprattutto in un ambiente economico e culturale come quello in cui viviamo.

La famiglia tradizionale, maschilistica, era sì stabile (e lo è tuttora, dove sussiste: ampiamente nella cultura del Sud Italia, ancor più nel mondo islamico…), ma lo era perché era imposta, in un sistema economico e tecnologico ben diverso, da leggi civili, leggi morali, leggi sociali, leggi religiose, ampiamente interiorizzate, che ora sono sostanzialmente dissolte o rovesciate soprattutto perchè incompatibili con le esigenze dell’economia. Era stabile anche perché il suo carattere gerarchico e autoritario consentiva al paterfamilias, o al marito, di scaricare i proprie conflitti  e meccanismi difensivi sui sottoposti –moglie e prole-, i quali erano tenuti a subire e prestarsi per adeguarsi agli imperativi della coscienza e della società, mentre lo stato non si ingeriva, rispettando l’autorità del pater. Non credo che, se la famiglia, come qualsiasi altro gruppo organizzato, debba svolgere un ruolo ulteriore, diverso e –soprattutto- sopraordinato rispetto alla gratificazione dei suoi componenti (come garantire produzione, protezione, educazione, formazione, assistenza), possa in ciò riuscire senza una struttura gerarchica, senza uno che comandi e a cui ilo sistema sociogiuridico conferisca autorità e potere di ordinare, proibire, punire.

 Oggigiorno certamente ciò non può più avvenire: tutti i componenti della famiglia tendono a scaricare le proprie tensioni paritariamente sugli altri, senza le inibizioni dei vecchi codici morali interiorizzati, con capacità critiche ben maggiori e ben minori capacità di autodominio, e con frequenti episodi estremi di violenza sanguinaria intrafamiliare. Inevitabile, quindi, che la famiglia sia estremamente instabile, volatile, e massicciamente litigiosa in senso giudiziario, e richieda un sempre crescente intervento della pubblica amministrazione per essere ‘aiutata’. Inevitabile, parimenti, che la sua agonia e il senso di vuoto che essa, dissolvendosi, diffonde, ispirino programmi e proclami politici a sua difesa e glorificazione, piuttosto che progettazioni legislative e amministrative per un ordinamento che non la presupponga più come base della società.

 

 

 

 

 

 

 

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1 risposta a DECLINO DEL MATRIMONIO

  1. Ermanno scrive:

    Credo che le esigenze in passato soddisfatte(?) cumulativamente dal matrimonio debbano essere razionalizzate, e articolate in accordi dettagliati di assistenza tra adulti e di sostegno alla crescita dei bambini.
    La coabitazione può essere necessaria, e per alcune esigenze evidentemente lo è. Ma deve essere percepita come un fatto funzionale, tendenzialmente a termine, e il meno possibile invasivo delle libertà fondamentali delle singole persone.
    La razionalizzazione delle attività del prendersi cura, degli interventi pedagogici… costringe ad una verifica delle proprie effettive competenze, ad un loro arricchimento, così come ad una ripartizione equa di tempo e risorse materiali.
    Purtroppo, però, dietro alla dichiarazione di “volersi bene”, manca ancora una cultura della modellazione progettuale delle relazioni personali: siamo appena diventati neomaggiorenni di fronte al modello, paternalisticamente calato dall’alto, della famiglia tradizionale cattolica.

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