TARTAGLIA FA RIMA CON BASAGLIA

“Tartaglia fa rima con Basaglia” è uno slogan provocatorio ispirato al gesto di Massimo Tartaglia, il malato di mente in cura da oltre dieci anni presso strutture pubbliche, che ha ferito alla testa il premier. L’attacco a Berlusconi, che poteva aver conseguenze anche molto gravi, forse imporrà all’attenzione e all’agenda della politica la questione dei malati di mente pericolosi per sé o per gli altri, e degli strumenti adeguati per trattarli efficacemente, in fase di attuazione della Riforma Bindi, che chiude gli OPG (Ospedali Psichiatrici Giudiziari), nonché a quasi trent’anni dalla riforma Basaglia, che chiuse gli ospedali psichiatrici.

Premesso che i malati mentali pericolosi sovente non sono consapevoli di essere malati e non accettano di essere curati, si pone il problema, giuridico e pratico di come curarli contro la loro volontà, problema che in Italia è attualmente risolto in due modi: col TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio, in degenza coatta o in libertà) e con la misura di sicurezza disponente l’internamento in OPG degli autori di reato che non siano imputabili.

Il Trattamento Sanitario Obbligatorio, e particolarmente quello eseguito in condizioni di degenza coatta, è un trattamento imposto dalla legge (in Italia, dalla Legge 180/1978, artt. 1 e 2) anche contro la volontà dell’interessato in casi da essa predeterminati (perciò dovrebbe esser denominato non “obbligatorio” ma “coatto”), sulla base di prestabilite condizioni, a tutela di alcuni beni giuridici prioritari, come la salute pubblica, l’incolumità pubblica, la sicurezza e la vita della persona interessata.

 

I requisiti generali per trattamento psichiatrico contro la volontà del paziente che,  singolarmente o in associazione, costituiscono la base delle legislazioni presenti nei vari paesi sono, in sintesi, i seguenti: 1) malattia mentale; 2) pericolosità; 3) criterio del rifiuto di ricovero e/o accettazione della terapia; 4) criterio della probabilità di beneficio dal trattamento; 4) criterio della mancanza di alternative meno restrittive. Ma questi requisiti sono problematici.

1)     Malattia mentale. Secondo questo criterio è ne­cessario (in genere non sufficiente) che sia presente una malattia mentale. In certi casi vengono incluse situazioni lontane dal modello medico (es. sociopatie), in altri casi (ad es. nella legislazione di alcuni stati degli U.S.A.) vengono esclusi particolari quadri morbosi (tossicodipendenza, epilessia, alcolismo). La legge italiana, di ispirazione basagliana, non ricorre affatto al termine malattia, riferendosi a “condizioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici “. Usa quindi un termine generico, ma la specificazione “ne­cessità di interventi terapeutici” sembra rimandare a condizioni passibili di intervento medico, e quindi, in ultima analisi, a malattie. Occorre notare che si fa riferimento a condizioni urgenti.

2)     Pericolosità. Era alla base dei ricoveri coatti nella normativa italiana precedente all’attuale. Critiche di questo criterio si appuntano sul fatto che la pericolosità sociale non è una variabile medica, quantunque risulti correlabile con variabili mediche (alcune patologie) in modo tale che il medico possa (e debba) esprimere valutazioni predittive di pericolosità. Su questo punto la dottrina è discorde. Gli psichiatri stessi hanno rico­nosciuto che  “lo stato della disciplina riguardo a predizioni di violen­za è estremamente insoddisfacente” e che  “la capacità degli psichia­tri o di altri professionisti di predire affidabilmente un futuro com­portamento violento non è provato” (American Psychiatric Association, 1975). In sostanza vi è incertezza se questo sia un criterio di competenza medica o legale. Inoltre vi sono problemi nello sta­bilire che tipo di danno previsto giustifichi il trattamento non vo­lontario, in che modo lo si provi, se vi debba essere un atto espli­cito recente o una minaccia specifica o possano essere sufficienti dati clinici su cui basarsi (es. rischio elevato di suicidio nella de­pressione grave), i limiti temporali su cui si basi la predizione. Il criterio di pericolosità, con tutte le sue limitazioni, è tuttora adottato in molti paesi (tra cui gli U.S.A.), men­tre viene esplicitamente bandito dalla nostra legislazione.

3)     Rifiuto di ricovero e/o accettazione della terapia. Il problema si pone quando il malato dichiara di accettare la terapia ma poi non è coerente con tale impegno.

4)     Mancanza di alternative meno restrittive.   Nell’attuale legislazione italiana si fa riferimento in particolare ad alternative extraospedaliere.

Nel testo vigente della Legge 180 del 1978, le condizioni per il TSO in condizioni di ricovero imposto sono disciplinate dai seguenti articoli 1 e 2, di cui il primo è richiamato dal secondo, come si vedrà:

1. Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori.

1.1 Gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono volontari.

1.2 Nei casi di cui alla presente legge e in quelli espressamente previsti da leggi dello Stato possono essere disposti dall’autorità sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura.

1.3Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori di cui ai precedenti commi devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato.

… …

1.6 Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori sono disposti con provvedimento del sindaco, nella sua qualità di autorità sanitaria locale, su proposta motivata di un medico.

2. Accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori per malattia mentale.

Le misure di cui al secondo comma del precedente articolo possono essere disposte nei confronti delle persone affette da malattie mentali.

Nei casi di cui al precedente comma la proposta di trattamento sanitario obbligatorio può prevedere che le cure vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera solo se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall’infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra ospedaliere.

Il provvedimento che dispone il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera deve essere preceduto dalla convalida della proposta di cui all’ultimo comma dell’articolo 1 da parte di un medico della struttura sanitaria pubblica e deve essere motivato in relazione a quanto previsto nel precedente comma.

La mancanza di esplicita definizione legislativa dei doveri e delle responsabilità, soprattutto in fatto di prognosi di pericolosità, lascia gli operatori in una scomoda incertezza e obbliga il potere giudiziario a supplire, elaborando criteri guida, peraltro non univoci e non sistematici, quindi inidonei a costituire un quadro organico dei doveri e delle possibili responsabilità civili, penali e amministrative degli operatori, i quali continuano ad agire in un regime di incertezza.

La possibilità di difesa contro provvedimenti di TSO ritenuti illegittimi o infondati, mediante ricorso al Tribunale, è assicurata dagli artt. 3 e 5 della Legge 180, unitamente a un previo vaglio intraprocedimentale e d’ufficio da parte del Giudice Tutelare. Rispetto a questi meccanismi di tutela rileviamo

a) non sempre la notifica degli del provvedimento disponente il TSO viene eseguita in modo che arrivi realmente nelle mani del soggetto passivo;

 b) sovente il soggetto passivo non è in grado di provvedere alla propria difesa rispetto al provvedimento di TSO vuoi perché non riceve gli atti, vuoi perché non gli è permesso di comunicare con l’esterno, vuoi perché è stato sedato, quindi cognitivamente e/o volitivamente disabilitato.

L’attuale legge andrebbe migliorata per far sì egli abbia la concreta possibilità di difendere il proprio diritto alla libertà e al rifiuto della terapia imposta. Assicurare un’effettiva difesa è importante e doveroso in considerazione della indeterminatezza dei presupposti per il TSO nella vigente normativa e alla priorità dei diritti in gioco.

 

Rendiconto della riforma Basaglia

Ancora oggi comunemente si ritiene che la Legge 180/1978, detta Legge Basaglia, sia stata una legge garantista, un rimedio necessario per liquidare un sistema manicomiale degradante, co­ercitivo, autoritario e poco garantista.

La situazione dei manicomi prima della Riforma Basaglia era notoriamente deplorevole, ma, se andiamo a esaminare tecnica­mente la normativa vigente allora e quella vigente oggi, scoprire­mo che la normativa previgente non poteva essere la causa di quel degrado e di quegli eccessi. Scopriremo che essa era una norma­tiva assai precisa e garantista, soprattutto in fatto di libertà. Per alcuni versi, ancor più della Legge Basaglia. La deplorevole situazione dei manicomi era dovuta agli scarsi mezzi, alla pessima amministrazione, al potere burocra­tico e politico usato male e per fini impropri – e alla disapplica­zione delle norme vigenti. Era un problema di uomini e di men­talità nazionale, poco ligia alle leggi. E di applicazione da parte di una burocrazia e uno Stato che, non molto dopo l’entrata in vigore della legge, cadde in mano al Fascismo, ossia a una cultura anti-liberale, poco o punto rispettosa dei diritti individuali, soprattutto in fatto di libertà.

La soluzione logica avrebbe dovuto essere, pertanto, moralizzare e riformare l’amministrazione, e far applicare le norme vigenti, migliorandole dove possibile, non l’abolire i manicomi e il mettere fuori da essi persone sovente peri­colose per sé o per gli altri, oppure incapaci di badare a se stesse. Ma, anziché intervenire corret­tivamente sull’apparato politico-burocratico-amministrativo della psichiatria, per far sì che svolgesse correttamente il proprio compi­to, si è fatto l’opposto: lo si è sgravato da ogni responsabilità giuridica (non c’è più il compito, quindi non c’è più il fallimento; non c’è più la follia, quindi tutto deve rientrare nel sociale, tutti sono colpevoli), chiudendo i manicomi e dando la colpa della situazio­ne alle leggi, che si cambiano facilmente e di cui in Italia, si è sem­pre pensato che bastasse cambiarle per cambiare la realtà.

La Legge Basaglia, con tutta la campagna culturale e politica che l’ha preparata e accompagnata, può essere quindi stata un’operazione a vantaggio dei pubblici amministratori, dei burocrati, dei tecni­ci, dei politici, della partitocrazia nella sanità – soggetti che essa ha, in buona parte, deresponsabilizzato rispetto al loro basso grado di successi. E’ un dato di fatto, che molte vittime della Legge Basaglia – ossia molti malati che sono morti o che hanno ucciso o sono rimasti feriti per mancanza di ricovero manicomiale o cure esterne – non vengono presentate all’opinione pubblica, o se ne parla solo su scala locale, come è il caso del triplice omicidio compiuto da uno psicotico a Reggio Emilia di cui dà notizia Il Tirreno del 04.09.09 a pag. 10, assieme a un altro omicidio analogo avvenuto a Livorno. E questa censura è evidentemente a tutela di una scelta politica che produce risultati impresentabili, e che va protetta mediante il makebelieve.

 

Da un punto di vista tecnico-normativo, oggettivo, si nota che la Legge Basaglia non è stata un’operazione di univoco garantismo a tutela della libertà dei malati: la legge precedente, del 1904 con regolamento attuativo del 1909, era, a certi fini, più garantista, prescrivendo requisiti più precisi e procedure più attente per il ricovero coatto del malato di mente. Essa aveva un preciso e limitativo criterio:

Art. 1. Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi.

Era prescritta l’indicazione analitica, specifica e asseverata dei comportamenti pericolosi e delle ragioni per cui si riteneva necessa­rio il ricovero, con garanzie di indipendenza del medico proponente. Era il frutto di una forma mentis tipicamente liberale.

Dal Fascismo ad oggi, la forma mentis liberale quasi scompare in Italia. Il dopoguerra, e in particolare gli anni ’70, sono dominati dagli ideologismi. Scema l’attenzione per le garanzie tecnico-giuridiche a tutela dei diritti del singolo.

E così, per contro alla legge del 1904, la 180 del 1978 si accontenta (art. 2), vagamente, di «altera­zioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici», lasciando tutto alla discrezione e all’improvvisazione del sindaco e degli psichiatri dell’Asl, e senza responsabilizzarli circa il serio accertamento dei presupposti. I riformatori si vantavano di aver tolto il concetto di pericolosità, mentre avevano ampliato enorme­mente il potere politico in questa materia, togliendo anzi la re­sponsabilità dei soggetti decisori.

Data la vaghezza dei requisiti di legge attuali, nel contesto nor­mativo attuale, chiunque potrebbe essere sottoposto a un TSO. Ciò si presta a neutralizzare e screditare, per esempio, persone scomode e non allineate, mettendo ancor più la psichiatria al ser­vizio del potere politico ed economico.

La Repubblica del 12.01.08, cronaca fiorentina, riferisce di un TSO praticato a un settantenne di Scandicci che si opponeva allo sgombero della sua palazzina con giardino, la quale doveva essere demolita per la costruzione di un’autostrada. Aveva chiesto una si­stemazione analoga che non gli era stata accordata. Riportiamo qui alcuni brani:

Lo tengono fermo: «Si calmi, signor Franco». «No, mare­sciallo, questa è una tortura». Giornata grigia, nuvole.  Una siringa, un’altra, la voce di Franco che si impasta. Le parole che rallentano e poi si fermano. Tranquilli, la terza corsia dell’autostrada avanza, si fa largo con un certifica­to medico e un ricovero coatto…

«Si prendono la casa e la vita di mio padre», protesta il fi­glio Francesco, arrivato nella villetta…

«Questa fine è il fallimento della politica scandiccese», at­tacca Luca Carti del comitato Vivere a Scandicci, «Si do­veva offrire al signor Franco la possibilità di una nuova casa con le stesse caratteristiche… così non è stato».

Non risulta che il signor Franco sia mai stato in cura per malattia mentale. Improvvisamente è diventato bisognoso di ricovero per «urgenti e inderogabili necessità»: ossia, procedere con l’autostrada. Se la legge liberale di Giolitti fosse vigente oggi, il signor Franco sarebbe libero.

 

Dal punto di vista oggettivo e normativo, la 180 non è stata nemmeno una legge a tutela della socie­tà. Con la legge Basaglia, art. 8, i degenti psichiatrici, tranne quelli che rientravano nei presupposti del TSO, sono stati dimessi, e gli artt. 714 (Omessa o Non Autoriz­zata Custodia di Malati di Mente in istituti pubblici), 715 (idem in istituti privati), 717 (Omessa denuncia di Malattie Mentali pericolose) del C.P. sono stati abrogati. Unico obbligo rimasto, quello sanzionato dall’art. 716, che punisce l’omessa denuncia alla polizia della fuga del malato di mente. Quindi oggi l’autorità sanitaria non è tenuta a custodire o segnalare il malato di mente pericoloso e può lasciarlo libero di andarsene; unico ob­bligo, per essa, denunciare la sua fuga alla PS, scaricando su di essa la responsabilità della possibile violenza del malato di mente. La categoria perdente della Riforma Basaglia è, appun­to, quella dei poliziotti a norma del 716, rimasto «stranamente» in vigore, che mantiene l’obbligo e la responsabilità solo a carico delle forze dell’ordine.

Dopo la chiusura dei manicomi, si sono avuti numerosi decessi tra gli ex ricoverati, e alcuni di essi hanno commesso gravi reati contro la persona.

Nei primi cinque anni di applicazione della 180, cioè dal 1978 al 1983, i decessi per disturbi psichici rilevati dall’Istat aumentarono del 43,5% ed in particolare i suicidi per disturbi psichici aumentarono del 20%, mentre i ricoverati negli ospedali psichiatrici giudiziari (cioè gli autori di azioni delittuose giudicati “incapaci d’intendere e di volere” e spinti al delitto dalla mancanza d’ogni cura psichiatrica) aumentavano complessivamente quasi del 60% e tra i giovani (l’età tipica d’insorgenza della schizofrenìa) quasi dell’80%. Purtroppo in seguito, probabilmente per ordine delle nostre autorità psichiatriche basagliane, la raccolta di questi dati è cessata e la mattanza di malati e familiari prodotta dalla legge 180 ha potuto essere a lungo occultata. Ma nel 2003 un’Associazione femminile ha commissionato ad una nota organizzazione di ricerche e sondaggi demoscopici, l’Eurispes, una ricerca sulle stragi familiari. Ed è stata così scoperta una prima “fossa comune” degli eccidi basagliani. L’indagine Eurispes ha dunque svelato che nel 2000, 2001 e 2002 vi sono stati in media 180 delitti familiari ufficialmente denunciati, mentre da un’analisi dei dati della ricerca è emerso che il 70% di questi delitti (circa 125) è consumato da soggetti squilibrati. Ciò significa che, da quando è stata approvata la legge 180, oltre 3.000 familiari sono stati assassinati da loro congiunti psicotici cui, grazie alla nostra avanzatissima legge, era mancata la necessaria terapia e vigilanza psichiatrica. E, se si applicano alle lesioni le stesse percentuali degli omicidi, si può concludere che i familiari feriti dai loro congiunti malati sono stati 6.000 l’anno per 25 anni, cioè la bazzecola di 150 mila. Ma con ogni probabilità si tratta sempre di dati molto errati per difetto. È noto infatti che la follìa viene considerata una vergogna in molti ambienti e che essa viene spesso occultata nelle dichiarazioni rese agli inquirenti.[1] In quel periodo vi fu  un’impennata di ricoveri negli OPG perché molti pazienti, abbandonati a se stessi con la chiusura degli OP, commettevano dei reati. Per tale sue funzione di supplente, l’OPG, il manicomio giudiziario, guarda caso risparmiato dalla legge Basaglia, è stato chiamato il guardiano della 180. Una legge che cercava il consenso di determinate categorie, e che lo ha trovato. 

 

Se un prezzo si deve pagare, bisogna chiedersi per che cosa lo si paga. In Italia domina l’abitudine di non rendicontare. Ossia, di non andare a verificare, in termini oggettivi, quanto ha reso una certa manovra, una certa spesa, un certo investimento. Orbene, per vedere se abbiamo pagato bene quel prezzo, se abbiamo portato a casa qualcosa di buono, dobbiamo confrontare questi dati con i dati delle persone ricoverate (in senso lato) prima della 180. Quali sono i costi, e quali i benefici? Abbiamo effettivamente ottenuto qualcosa, pagando quel prezzo di sangue? Andiamo a vedere i numeri.

 

       Negli anni ’50, vi erano circa 100.000 internati negli o.p[2].

 

       Nel 2004 abbiamo questi dati ministeriali

Zero  ricoverati  negli Ospedali Psichiatrici normali

188   ricoverati psichiatrici nei 7 Ospedali Psichiatrici Privati convenzionati            
    752   non psichiatrici  negli Ospedali Psichiatrici Privati Convenzionati                    
   1.282   ricoverati nei 6 Ospedali Psichiatrici Giudiziari
[3]

31.548   ricoverati nelle carceri italiane [4]

33.770:  totale  persone ricoverate.

 

Abbiamo una variazione di – 66.000 circa. Un successo della Legge Basaglia – si direbbe – non totale, ma consistente. Solo che non è così, perché quel calo avviene prima della Legge Basaglia – avviene negli anni ’60, grazie alla rivoluzione neurofarmacologica degli anni ‘60 e alla sintesi di nuovi antipsicotici. E avviene in tutto il mondo. Badiamo quindi a non attribuire, ingenuamente, alla Legge Basaglia, meriti che essa non ha, e che ha invece la ricerca farmacologica.

Quindi non vi è assolutamente una contropartita per gli oltre 3.000 morti riferibili alla Riforma Basaglia e ai molti più numerosi feriti e a tutte le violenze che non sono state denunciate. Alla verifica dei fatti obiettivi e dei dati numerici, si dissolve questa teoria ingenua per chi ci crede, manipolatoria per chi la dà da credere, diffusa dalle agenzie culturali, politiche e sanitarie, e recepita da ampia parte della popolazione interessata. La rendicontazione, il bilancio dei costi e dei ricavi, è irrimediabilmente negativo, sul piano della realtà.

Tolta di mezzo la teoria ingenua, impiantata ad arte, si apre la visuale per capire la realtà. L’effetto precipuo della riforma  del 1978, del resto, non è quello della chiusura dei manicomi, ma la deresponsabilizzazione dello psichiatra, come s’evince dalla abrogazione degli articoli 714, 715,717 del codice penale che punivano la omessa custodia  di malati di mente o l’omessa denuncia di malati di mente per cui se l’anziana madre va all’ambulatorio del CIM e riesce a portarvi il figlio schizofrenico che la picchia regolarmente, lo psichiatra rimesso sul territorio e finalmente liberatosi, egli sì,  dal giogo manicomiale, compila una ricetta col Serenase e il Valium che il paziente, inconsapevole della malattia, non prenderà. Non compie alcun reato perché affida alla madre ultraottantenne il paziente, lo soccorre prescrivendo farmaci idonei, non deve denunciare  nulla all’autorità, perché quegli articoli sono stati abrogati e neanche il 716, rimasto miracolosamente in piedi non lo deve applicare perché può ricoverare chi vuole, ed il povero schizofrenico violento è un caso scomodo che rovinerebbe il clima terapeutico del reparto. Se poi il paziente ferisce o uccide la madre, sarà scaricato nel circuito carcerario e nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario, comodo ricettacolo degli aborti della psichiatria basagliana, di cui si dovrà parlare il meno possibile. Se, sino ad ora, l’edificio della 180 non è crollato, lo si deve ai  manicomi giudiziari italiani e del sistema carcerario tutto che ospita una percentuale altissima di malati di mente. Dati questi che sono riportati solo fra parentesi nelle pubblicazioni ufficiali. Con la prossima riforma che tende al “superamento degli OO. pp. gg.” Agli osservatori più attenti non è però sfuggito che i “progetti obiettivo” varati da qualche regione per attuare la riforma della psichiatria giudiziaria, mancano di un fattore decisivo affinché sia attuato: lo stanziamento degli indispensabili mezzi finanziari. La sanità pubblica, fuor che per l’industria del farmaco, non rende molto, politicamente.A che pro elaborare progetti e riforme, se non si dispongono i mezzi finanziari per attuarli? Pseudo-riforme, o riforme belle ma impossibili, susseguendosi, mantengono viva la credenza popolare – necessaria acciocché persista la fiducia nell’ordinamento statuale – che il sistema possa esser reso equo ed efficiente. Sono tecniche di produzione e mantenimento del consenso.

 

Probabilmente assisteremo a questo crollo del già pericolante edificio della psichiatria, proprio perché verrà meno il puntello dell’OPG, provvidenzialmente dimenticato dalla 180, e a ragione denominato “il guardiano della 180”. E’ auspicabile che allora finisca l’apartheid fra psichiatria civile e psichiatria carceraria, in modo che gli psichiatri siano responsabili davanti alle famiglie, ai tribunali e alla società tutta, dei soggetti disturbati che essi continuassero a trascurare e a prendere sottogamba, sì da lasciarli arrivare ad atti lesivi per gli altri o per sé.



 


[                      1] Fonte: website del prof. Luigi de Marchi.

[               2] (Relazione del Ministro della Salute Sirchia del 21.1.2005 sulla situazione al 30.6.2004 ( da Atti Parlamentari Doc.CXXVI n.3 ) :

 

[                      3] Fonte: Amministrazione Penitenziaria

[                      4] (dr. G. Starnini, Presidente soc. SIMSPE settembre 2004)[4]

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