PROSPETTIVE DELLA DEVIANZA

PROSPETTIVE SOCIALI DELLA DEVIANZA – TESTO A

 

Gli operatori della scuola, della salute mentale, dell’assistenza sociale, dell’amministrazione della giustizia, sono complessivamente concordi nel constatare che gli ultimi decenni hanno visto, e stanno vedendo, un aggravamento sia quantitativo che qualitativo della realtà della devianza, e che le strutture e gli strumenti di cui sono dotati istituzionalmente e professionalmente si fanno sempre più inadeguati, soprattutto con riguardo a tre fattori:

 

1-la crescente violenza degli agiti, dei comportamenti ‘anomali’, di atteggiamenti spavaldi, ribellistici, di sfida e disobbedienza  –frutto di un ambiente educativo sempre più incapace di far interiorizzare il diniego-, e la mancanza di strumenti per dissuaderli, contenerli, sanzionarli; con la conseguenza che questi comportamenti vengono pavlovianamente rinforzati: il minore (ma anche l’adulto) apprende che, se agisce violenza, tutti si impauriscono, fanno un passo indietro, non possono reagire, devono cedere; quindi la violenza è il modo di ottenere le cose; urge quindi un intervento normativo che appresti forme idonee di contenimento e repressione;

2-la crescente diversificazione delle forme della devianza, anche sotto il profilo interculturale, interreligioso e multietnico comportato dalla crescente presenza di minori provenienti da altre culture, altre religioni, altri sistemi ideologici, che non sono semplicemente, ‘neutralmente’ diversi, ma conflittualmente diversi, rispetto ai valori fondamentali, comunemente condivisi e ai diritti, legalmente sanciti, nel nostro contesto di civiltà – mi riferisco ai minori provenienti da zone di violenza diffusa, di guerra o guerriglia, di lotta quotidiana per la sopravvivenza, in cui essi hanno appreso che la violenza paga, che il diritto discende dalla forza individuale, che la donna è inferiore e va sottomessa, anche se è l’insegnante o l’educatrice, e che cani e gatti sono cose da mangiare;

3-il drastico calo del valore percepito –percepito sia dal minore, che dal suo ambiente – della formazione (studio, cultura, disciplina) rispetto a valori concorrenti, edonistici, di immediata gratificazione: dal telefono cellulare, al computer, allo sport, al sesso, alla discoteca, allo ‘sballo’, alle sostanze psicotrope –alcol, droghe; con la conseguente perdita di valore, dignità, autorevolezza dei portatori tradizionali dei valori soccombenti, in primis la scuola. Una scuola, quella pubblica o di massa (almeno), che deve concentrarsi sui bisogni e sulla realtà della maggioranza dei suoi utenti. E così assistiamo a un’evoluzione sconsolante: trenta, quarant’anni fa, quando la popolazione scolastica si componeva di una grossa maggioranza, un 80% almeno, di fanciulli che imparavano più o meno a seconda dell’impegno e della capacità degli insegnanti, mentre il resto per metà non imparava in ogni caso, e per metà imparava anche senza aiuto, gli insegnati si concentravano sull’insegnare a quell’80%. Oggi che il grosso è costituito da quelli che non sono disponibili o capaci di imparare, è su di questi che si devono concentrare gli insegnanti, ma non tanto con un’attività di insegnamento, quanto con un’azione di intrattenimento-contenimento per prevenire la devianza, la vita sulla strada. Prima barriera, questa, alla devianza, gravante sugli insegnanti.

 

Assieme all’immigrazione di massa, questo mutamento, questa riallocazione dei valori e delle priorità, prodotta da una mentalità edonista e consumista, non nasce dal nulla, non è mero accidente evitabile, ma bensì conseguenza dell’esigenza di vendere, di domanda interna, che ha l’economia per funzionare, cioè per massimizzare i profitti. Se l’economia non tira, abbiamo disoccupazione, recessione, pochi soldi per le politiche sociali. L’economia tira se produce profitti e previsioni di profitti a breve termine, ossia se i consumi tirano, se le persone sono massimizzate sia come produttrici, che come consumatrici di beni e servizi. La rivoluzione culturale occidentale iniziata nel 1968 ha questa funzione profonda: liquidare la cultura del dovere, del sacrificio, della colpa, del risparmio, per instaurare, principiando con i ragazzi, quella del piacere, della gratificazione, del consumismo. Il che ha prodotto sì, da un lato, una forte espansione economica; ma anche, dall’altro, un affievolimento dei valori non-consumistici, del senso del dovere, della famiglia, della cultura, dell’autorità. Si è ottenuta una nuova categoria di consumatori, di spenditori di reddito –i fanciulli- ma al costo di renderli incapaci o demotivati a imparare abbastanza, anche in fatto di autodisciplina, da diventare efficaci lavoratori un domani. Tanto, i lavoratori si possono importare. In questo, riconosciamo il contrasto tra il tornaconto a lungo termine e il tornaconto a breve termine inerente al capitalismo, di stato o liberale che sia. Fenomeni come Tangentopoli e simili, in corso anche oggi, non hanno certo migliorato le cose, anzi hanno pressocchè distrutto la percezione di legittimità e autorevolezza del sistema. Ci troviamo, quindi, a fronteggiare una complessiva perdita della norma – una deriva verso l’anomia – paradossalmente, proprio mentre lo stato, e l’U.E., producono un’inflazione di norme, legiferando invasivamente, ossessivamente su ogni aspetto della vita, talchè diventa naturale e sano che questa si ribelli all’eccesso norma. Al contempo, le istituzioni, lo stato, la politica, non possono non trasmettere alla società le esigenze dell’economia, del mercato, del capitale, che è la vera e ultima fonte del potere. Siamo abbastanza cresciuti in consapevolezza del rapporto tra economia, stato, diritto, psichiatria, da poter accettare l’evidenza: ossia che il deviante, in pratica, viene identificato come colui che disturba condizioni sociali e lavorative imposte dalle esigenze dell’economia, cioè di massimizzazione del profitto, nel dato contesto storico-geografico.

 

Conosciamo posizioni che addirittura salutano come corretta e benvenuta la morte della norma. Infatti, in questo difficile quadro, si aggiunge un ulteriore fattore, che viene dinamizzato dall’esposizione ai confronti interculturali: la presa di coscienza del relativismo culturale – relativismo sia delle scienze, che dei valori, dell’Occidente, dell’Europa. Questa presa di coscienza matura in ambito epistemologico con pensatori come Kuhn, Lakatos e principalmente Paul Feyerabend, col costruttivismo: il sapere ‘scientifico’, i valori, sono non acquisizioni di conoscenze e realtà oggettive, ma bensì paradigmi sociocostruiti, i prodotti di congiunture storico-geografiche, più o meno convenzionali e consaputi. La conoscenza scientifica occidentale moderna non è qualitativamente superiore ai saperi tradizionali o locali indiani o arabi o africani o cinesi. E’ semplicemente stata più forte, dal punto di vista politico-militare ed economico, per un certo tempo. In realtà, tutti i paradigmi,  i ‘saperi’ e tutti i valori vanno bene, sono validi: anything goes. Questa acquisizione di coscienza, in sè dotata di un fortissimo valore libertario, è stata presa al balzo dai movimenti politici integralisti più illiberali, oscurantisti,  retrivi e totalitari del mondo islamico e induista al fine di ripristinare le strutture di potere superstiziose e clericali della loro tradizione, sotto il pretesto della decolonizzazione culturale e della crociata contro il demone illuminista.

Un fenomeno di equivocazione culturale, collegato a questo discorso, è il seguente: Molte persone che hanno problemi comportamentali, talvolta anche criminali, cercano di ‘mutare’ la classificazione che hanno ricevuto, attraverso l’assunzione di una identità culturale-religiosa che percepiscono come proteggente, non attaccabile per ragioni di ordine pubblico o di tolleranza dovuta: così si sono fatti mussulmani Mike Tyson, Michael Jackson, Cassius Clay: “io sono religiosamente diverso; ogni attacco giudiziario o non giudiziario a me, è una discriminazione religiosa, quindi illegittimo o perlomeno relativo, sicchè posso accreditarmi come perseguitato.” Questo tipo di argomento difensivo, o controffensivo, è sempre più vittoriosamente adottato nei Paesi occidentali da soggetti di altre culture per sottrarsi alle sanzioni civili, penali, amministrative. E per rivendicare privilegi rispetto alla popolazione comune. Il che aprirebbe il discorso sulle devianze miste, o composite, dove il fattore ‘variabile culturale’ si congiunge o si fonde al disturbo comportamentale individuale. Ma anche il discorso della paura: perchè altro non è, se non paura delle reazioni, della violenza individuale e del gruppo etnico-religioso, quella che induce le istituzioni di polizia e giudiziarie a chiudere gli occhi, molto spesso, su notori casi di poligamia, di mutilazioni genitali, di vari tipi di reato, anche di droga e terroristici. Una paura che rinforza quei comportamenti e che rinforza la figura del deviante, adulto e minore, come simbolo di portatore di supposti diritti – diritti falsi, perchè insostenibili, anticostituzionali, discriminatori e soprattutto perchè estorti con un metodo, che è la negazione stessa del diritto, della democrazia, della legalità.

Questo discorso vale a ricordare gli svantaggi e il controsenso dell’essere tolleranti verso gli intolleranti, anarchici verso i dispotici e passivi verso gli aggressivi: gli intolleranti aggressivi dispotici, se non contrastati, se anzi legittimati, finiscono col prevalere e imporre intolleranza, dispotismo e aggressività.

 

Proprio questo controsenso pone alle istituzioni e agli operatori responsabili la necessità di superare quella passività, quella ferita di Amfortas, uscendo dall’incantesimo del relativismo e soggettivismo culturali e giuridici. Non è che il relativismo sia erroneo – anzi, è un’importante acquisizione di consapevolezza. E’ l’acquisizione del socratico ‘so di non sapere’, ‘mi rendo conto che ciò che appare ovvio non è affatto certo nè dimostrato, e può essere diversamente.’ Il punto è che ogni praxis umana opera sul presupposto di un paradigma accettato di realtà, di valori, di natura e diritti dell’uomo. La finestra critica, o (propriamente) filosofica, che ha scoperto il relativismo, lo scetticismo –che ha scoperto che in realtà noi non sappiamo che cosa sia l’uomo e la sua natura e il suo fine, quindi non siamo razionalmente in grado di stabilire che cosa sia deviante e che cosa sia normale-, deve essere chiusa, se si vuole passare alla prassi, se si vuole agire, se non si vuole che diventi la ferita di Amfortas. Chiuderla è un atto della volontà, basato non sulla ragion pura –che è quella che mantiene aperta la finestra- ma sul sentire, su sentimenti di valore. Non esiste, in fondo, una giustificazione o dimostrazione logica sulle specifiche scelte che facciamo, nel chiudere quella finestra, nello scegliere il paradigma in base al quale operare, i suoi contenuti. Inutile tentare di deresponsabilizzarsi col cercare un simile fondamento neutro, impersonale, puramente razionale, universale, extratemporale. E’ un qualcosa che viene dalla nostra identità storicamente formatasi: una sensibilità maturata in un cristianesimo civilizzato da Grecia, Roma e Rinascimento (cosa che manca all’Islam); un liberalismo (pure ignoto all’Islam) contemperato da una coscienza sociale e solidale. Viene, a condizione che questa identità non venga distrutta, annientata, neutralizzata.

 

     In realtà, poichè tutti noi siamo impegnati nella prassi, tutti noi adottiamo qualche paradigma, anche più di uno, nel nostro agire e giudicare. L’importante è vedere se lo facciamo consapevolmente, ossia avendo presenti i contenuti e le radici di questo paradigma, oppure inconsapevolmente, facendoci guidare da paradigmi che se ne stanno nell’ombra, dietro la nostra coscienza, e ci guidano con ispirazioni, sentimenti, pregiudizi, fideismi.

     Questo è un invito a divenire consapevoli di, e riflessivi su,

-quali siano questi paradigmi, in cui agiamo e giudichiamo;

-se, e quanto chiaramente, abbiamo davanti agli occhi, i contenuti di questi paradigmi;

-se vi siano consonanze o dissonanze, armonie o discrasie tra questi paradigmi e rispetto alla prassi;

-nonchè tra essi e la realtà;

-se questi paradigmi siano strumenti di propaganda e di gestione del consenso nelle mani delle politica, quindi delle istituzioni.

Di fatto, si sta operando in base a una concezione o più concezioni, paradigmi, essenzialmente opinabili, relativi, soggettivi; i quali spesso, oltrechè opinabili, relativi, soggettivi, sono impliciti, nel senso che noi li usiamo, o che essi guidano, ispirano il nostro agire, il nostro giudicare, la nostra prassi (quindi il nostro concepire la devianza, l’antisocialità, gli interventi) senza che noi abbiamo davanti agli occhi il loro contenuto. O quale altro fattore ci sensibilizza e talora ci divide così acutamente, per esempio,  sul tema della libertà di culto in fatto di sette, o sul tema del proibizionismo/antiproibizionismo rispetto alla droga, di cui muoiono circa 3.000 persone all’anno, mentre ci desensibilizza rispetto al fatto che lo Stato ha il monopolio del tabacco, droga che dà assuefazione e causa, annualmente, 90.000 morti e un introito di 7.200 milioni di Euro?

Palesemente, questi giudizi –che si basano, in fondo, su un nostro sentire– provengono da qualche matrice. Essi sono applicazioni di un qualche modello della natura umana.

 

Ma le condizioni operative della mente umana sono state rivoluzionate. E’ stato stimato che il nostro sistema nervoso centrale sia sottoposto a circa 300.000 volte gli stimoli che colpivano quello dei nostri antenati del XIX secolo. Solo una minima parte di questi inputs può essere consciamente elaborata. Il resto incide ‘clandestinamente’ sui molti processi paralleli inconsci e subconsci che costituiscono la grande maggioranza del funzionamento della psiche. Ciò significa che questa lavora in condizioni, in un ‘ambiente’  e a un regime drammaticamente diversi, oggi, da quelli in cui lavorava solo tre generazioni fa. D’altronde, questo modo di vivere contemporaneo, non viene dal nulla, dal caso, o dalle mode. Né da un processo di liberazione ed emancipazione ‘positivo’ del genere umano. Viene dall’evoluzione dell’economia e dell’industria, dalle loro esigenze impersonali e oggettive.

E’ perciò ovvio che bisogna porsi anche in questa prospettiva per comprendere il modo in cui il problema della devianza viene attualmente trattato e per prevedere come verrà gestito in futuro; e contemporaneamente occorre focalizzarsi sulle estreme tensioni ‘operative’ in cui è posto l’individuo nell’odierna società consumistica, tensioni che spingono costantemente verso il punto di rottura ampi strati della popolazione e che quindi costituiscono verosimilmente il più importante fattore generativo della devianza, in termini quantitativi, iniziando con la fanciullezza. Un fattore che origina ultimamente non nella psiche individuale né in quella relazionale, ma bensì nelle leggi e nelle dinamiche dell’economia e dei mercati, dei valori di scambio, dalla logica del profitto e della competitività. L’orizzonte ultimo, più ‘comprendente’, per la comprensione e la gestione del problema della devianza, è quello economico. Esploriamolo sommariamente nei tratti evolutivi che ci interessano qui.

Come dicevamo prima, gli oggi rimpianti valori tradizionali (di sacrificio, lavoro, risparmio, onestà, famiglia, religione etc.), sono stati liquidati per consentire una maggior redditività del capitale investito, massimizzando l’individuo non solo come lavoratore ma anche come consumatore.  La rivoluzione degli anni ’60 ha provveduto a ciò, demolendo i valori –o vettori motivazionali- etici e sociali che ostavano al realizzarsi dell’uomo consumista: liberazione dai doveri, liberazione sessuale, colpevolizzazione delle proibizioni, svalutazione della famiglia e dei ruoli familiari, svuotamento della religione, relativizzazione dell’etica, dell’autorità, creazione di innumerevoli nuovi bisogni della persona (fancied wants. La pedagogia moderna ha trasformato gli stessi bambini in una categoria di consumatori, indotti e legittimati, soprattutto dalla televisione, a concepire e avanzare proprie pretese consumistiche verso i genitori, i quali parallelamente sono stati indottrinati a sentirsi in colpa se non appagano le richieste dei figli (pensiamo oggi al ‘dover comperare’ ai figli lo zaino Invicta e le scarpe Nike). Il diniego e il differimento del piacere come strumento educativo è stato messo in crisi, con le conseguenze che vediamo nei giovani, in termini di scarsa acquisizione di capacità e competenze presupponenti la disciplina e il sacrificio.

Agli stessi bambini viene insegnato a viversi come inadeguati e insufficienti, in quanto non sono completi se non acquistano determinate cose oggi, e determinate altre cose domani. Comperando la firma dello stilista, le persone comperano la propria identità e accettabilità sociali. Imparano a sentirsi vive e realizzate solo nell’atto di eccitarsi o di scaricare l’eccitazione. Ogni acquisto è provvisorio, ogni piacere precario, perché soggetto alla moda. L’appagamento stabile non è e non può essere concesso, perché comporterebbe la fine della lotta per guadagnare e consumare, quindi la fine della redditività della persona per il capitale. Al contrario, vengono proposti attraverso i mass media, la pubblicità etc., modelli di successo, lusso, bellezza, consumo etc., che sono pressochè irraggiungibili, se non a pochi e per breve tempo – modelli permanentemente frustranti oltre che galvanizzanti.

L’esigenza di massimizzazione del profitto, propria dell’industria, confligge coi limiti, colla fragilità, colla sofferenza delle persone. Entra in conflitto, ma non può rallentare nella sua azione di stimolo a sempre maggiori guadagni e dei consumi. Non lo può fare, pena il calo dei profitti, quindi del ritiro degli investimenti, della recessione, della disoccupazione, della crisi dei mercati. Le ricette per uscire dalla presente stagnazione globale si incentrano sugli incentivi agli acquisti, ai consumi, alla domanda interna. E’ del tutto probabile, pertanto, che gli esseri umani saranno spinti a ‘correre’ sempre più forte, come automobili col motore sempre al massimo, col turbocompressore sempre più spinto, oltre i limiti per cui sono costruite, finchè non sbiellano o escono di strada o si scontrano; e ciò nel contesto di in una società e in un modo esistenziale sempre più frustranti, esasperanti, desecurizzanti.

Se, come pare, questo tipo di società e di modo esistenziale induce nelle persone risposte devianti, in termini di delinquenza, malattia, tossicodipendenza – ebbene, è logico attendersi una costante crescita di queste risposte fino al punto di rottura della società. Così come abbiamo fatto per i costi ecologici, nel senso che l’attività produttiva produce inevitabilmente inquinamento, rendiamoci conto che la vitalità del sistema economico produce pure un inquinamento in termini di disturbo e devianza, come costo per reggere sé stessa.

 

La risposta ormai adottata, e moralmente prescritta, a questo quadro di devianza crescente, è la negazione etico-ideologica del problema, che viene scaricato sui cittadini e fatto pagare a loro: negazione dell’esistenza dello scolaro-studente ‘impossibile’ e dannoso agli altri, negazione della malattia mentale (chiusura degli ospedali psichiatrici, scarico dei malati mentali sulle famiglie e sulla società) e negazione dell’esistenza di un’emergenza criminale (si chiudono gli occhi davanti a bande criminali che si sono impossessate di ampie zone territoriali; si decolpevolizza il delitto, non lo si persegue, si liberano subito anche gli autori di gravi reati, si abitua la gente all’inesistenza della tutela contro il crimine).  O, più raffinatamente: si colpevolizza la società per i comportamenti criminali e le malattie mentali, sicchè la società è in debito verso folli e criminali (soprattutto se immigrati); e, se la società è in colpa, i suoi membri sono moralmente tenuti ad accettare di vivere in un ambiente dove la devianza li minaccia, mentre forze dell’ordine e giustizia non li proteggono e i mass media si profondono in accorate lamentazioni o persino celebrazioni di delinquenti uccisi sul fatto dalle loro vittime per legittima difesa o adempimento di dovere, e mostrano le medesime vittime sconvolte dal senso di colpa per aver sparato.

Analogamente a quanto succede con l’inquinamento ambientale, per il potere costituito, economico, in questo quadro, il problema della devianza si pone innanzitutto non come problema di tutelare i diritti, bensì di conservare il consenso e l’ordine istituzionale nonostante il malcontento provocato dall’aumento della devianza. Esso è quindi tentato a prevenire e scoraggiare la protesta e la domanda di tutela dei diritti, che il cittadino è portato a rivolgere allo stato. Bisogna che il cittadino si evolva nel senso che non senta più lo stato come un soggetto tenuto a difendere i suoi diritti, in modo che accetti uno stato che sempre meno può permettersi di difenderli. Tutta la politica giudiziaria è andata in questo senso: rendere gli interventi sempre più difficili, ritardati, pericolosi per chi vi si impegna; rendere il processo sempre più lento, costoso, inefficiente, imprevedibile, ingiusto.

Questa strategia è la più semplice, la meno costosa politicamente, ma è efficace solo nel breve periodo, perchè, rinforzando e incoraggiando i comportamenti violenti e intimidatori, continua ad aggravare il problema nel medio e lungo periodo. Di nuovo, quindi, un conflitto tra tornaconto a breve e tornaconto a lungo termine.

In conclusione, ai fini pratici di questo odierno convegno, è prevedibile che lo stato occidentale, negli anni a venire, sia sempre più tollerante verso la devianza e le trasgressioni, specialmente verso quelle che colpiscono l’ordine pubblico, il patrimonio, la sicurezza dei cittadini; mentre è parimenti verosimile che concentrerà la repressione su quei reati, anche di opinione e di informazione, che attaccano le istituzioni e l’establishment. Ciò finchè non sia raggiunto un punto di rottura o inversione, che ancora non si delinea all’orizzonte.

 

Se queste sono le prospettive, le risposte, o proposte formulabili in questa sede circa la gestione della devianza minorile possono solo essere realistiche, pragmatiche, miranti a obiettivi possibili e limitati.

Esse devono tener presenti tre vincoli:

-Lo scopo di consentire al meglio la realizzazione personale del minore

-Lo scopo di preservare la società e i diritti dei terzi

-I costi finanziari.

 

Ai predetti tre vincoli, come mi sono convinto in ormai diversi anni di osservazione, la risposta migliore è data da comunità o strutture educative e terapeutiche, che dir si voglia, del tipo de Il Cedro. In ciascuna di esse vive un numero limitato di ospiti e si crea una vera atmosfera domestica, familiare, in cui è possibile la percezione e lo scambio di valori e affetti peculiari dell’esperienza familiare, e in cui è seguito e incoraggiato lo sviluppo affettivo, cognitivo e culturale degli ospiti. Ciò consente di dare una buona chance di realizzazione personale, mentre, al contempo, realizza il contenimento e la protezione della società soprattutto attraverso il monitoraggio professionalmente competente, la prevenzione, gli eventuali interventi anche psicofarmacologici interni. In quanto al costo finanziario, esso è anticipato rispetto alla scelta che differisce l’intervento fino al momento del delitto, ma molto meno costoso sia in termini di spesa giornaliera –che va dai 70 ai 200 € a testa al giorno a seconda che si tratti di comunità solo educative o anche terapeutiche- che di evitamento del danno criminale e di spese per la repressione, le indagini, il processo, la carcerazione o l’internamento in OPG.

Questi dati di fatto e di contabilità sono oggettivi e chiarissimi; però essi hanno tornaconto nel medio-lungo termine, e soprattutto sotto forma di spese e danni evitati. Invece il sindaco, la contabilità comunale, ragiona politicamente in termini annuali, o al massimo della durata del mandato del sindaco. Ciò costituisce un fattore che spinge i sindaci a privilegiare il risparmio in bilancio oppure altre spese e altre logiche, piuttosto che fare l’investimento di lungo termine nel capitale umano, ossia mandare in comunità il minore che ne ha bisogno. Per questa ragione, nell’interesse di tutta la società e dei minori, è necessario costituire, mediante leggi regionali e nazionali, e mediante interventi giudiziari, un fattore che controbilanci e superi la logica della annualità del bilancio e del breve termine che astringe le amministrazioni comunali.

 

 

 

 

 

 

 

 

 


PROSPETTIVE SOCIALI DELLA DEVIANZA – TESTO B

 

Gli ultimi decenni vedono un aggravamento sia quantitativo che qualitativo della realtà della devianza,  mentre le strutture e gli strumenti istituzionalmente e professionalmente disponibili risultano sempre più inadeguati, soprattutto con riguardo a tre fattori:

 

1-la crescente violenza degli agiti, di atteggiamenti ribelli, di sfida e disobbedienza, soprattutto nella scuola, e la mancanza di strumenti legali per dissuaderli, contenerli, sanzionarli; con la conseguenza che questi comportamenti vengono pavlovianamente rinforzati: il minore (ma anche l’adulto) apprende che, se agisce violenza, tutti si impauriscono, fanno un passo indietro, non possono reagire, devono cedere; quindi la violenza è il modo di ottenere le cose; urge quindi un intervento normativo che appresti forme idonee di contenimento;

2-la crescente diversificazione delle forme della devianza, anche sotto il profilo interculturale, interreligioso e multietnico comportato dalla crescente presenza di minori provenienti da altre culture, altre religioni, altri sistemi ideologici, che non sono semplicemente, ‘neutralmente’ diversi, ma conflittualmente diversi, rispetto ai valori fondamentali, comunemente condivisi e ai diritti, legalmente sanciti, nel nostro contesto di civiltà – mi riferisco ai minori provenienti da zone di violenza diffusa, di guerra o guerriglia, di lotta quotidiana per la sopravvivenza, in cui essi hanno appreso che la violenza paga, che il diritto discende dalla forza individuale, che le istituzioni o non esistono o sono mera sopraffazione;

3-il drastico calo del valore percepito –percepito sia dal minore, che dal suo ambiente – della formazione (studio, cultura, disciplina) rispetto a valori concorrenti, edonistici, di immediata gratificazione, con la conseguente perdita di valore, dignità, autorevolezza dei portatori tradizionali dei valori soccombenti, in primis la scuola. Una scuola, quella pubblica o di massa (almeno), che deve concentrarsi sui bisogni e sulla realtà della maggioranza dei suoi utenti. Quarant’anni fa, quando la popolazione scolastica si componeva di una grossa maggioranza, un 80% almeno, di fanciulli che imparavano più o meno a seconda dell’impegno e della capacità degli insegnanti, mentre il resto per metà non imparava in ogni caso, e per metà imparava anche senza aiuto, gli insegnati si concentravano sull’insegnare a quell’80%. Oggi che il grosso è costituito da quelli che non sono disponibili o capaci di imparare, è su di questi che si devono concentrare gli insegnanti, ma non tanto con un’attività di insegnamento, quanto con un’azione di intrattenimento-contenimento per prevenire la devianza, la vita sulla strada. Prima barriera, questa, alla devianza, gravante sugli insegnanti.

 

Assieme all’immigrazione di massa, questo mutamento, questa riallocazione dei valori e delle priorità, prodotti di una mentalità edonista e consumista, non nasce dal nulla, non è mero accidente evitabile, ma bensì conseguenza dell’esigenza di vendere, di domanda interna, che ha l’economia per funzionare, cioè per massimizzare i profitti. Se l’economia non tira, abbiamo disoccupazione, recessione, pochi soldi per le politiche sociali. L’economia tira se produce profitti e previsioni di profitti a breve termine, ossia se i consumi tirano, se le persone sono massimizzate sia come produttrici, che come consumatrici di beni e servizi. La rivoluzione culturale occidentale iniziata nel 1968 ha questa funzione profonda: liquidare la cultura del dovere, del sacrificio, della colpa, del risparmio, per instaurare, principiando con i ragazzi, quella del piacere, della gratificazione, del consumismo. Il che ha prodotto sì, da un lato, una forte espansione economica; ma anche, dall’altro, un affievolimento dei valori non-consumistici, del senso del dovere, della famiglia, della cultura, dell’autorità. Si è ottenuta una nuova categoria di consumatori, di spenditori di reddito –i fanciulli- ma al costo di renderli incapaci o demotivati a imparare abbastanza, anche in fatto di autodisciplina, da diventare efficaci lavoratori un domani. Tanto, come si ragionava alla conferenza di Montevideo del 1996 per la revisione del GATT, i lavoratori non qualificati o semi-qualificati si possono importare dal Terzo Mondo. In questo, vediamo l’oggettiva autodistruttività del sistema basato sulla competizione nel profitto, che per sua natura persegue il profitto a breve termine con sacrificio dell’ambiente e degli investimenti in conto capitale (infrastrutture, ricerca), in capitale umano (istruzione, salute, società).

Fenomeni come Tangentopoli e simili, in corso anche oggi, hanno pressocchè distrutto la percezione di legittimità e autorevolezza del sistema. Ci troviamo, quindi, a fronteggiare una complessiva perdita della norma – una deriva verso l’anomia – paradossalmente, proprio mentre lo stato, e l’U.E., producono un’inflazione di norme, legiferando invasivamente, ossessivamente, insopportabilmente su ogni aspetto della vita, talchè diventa naturale e sano che la vita si ribelli all’eccesso di norma. Al contempo, le istituzioni, lo stato, la politica, non possono non trasmettere alla società le esigenze dell’economia, del mercato, del capitale, che è la vera e ultima fonte del potere, onde il deviante, in pratica, viene identificato come colui che disturba le condizioni sociali e lavorative richieste dalle esigenze dell’economia, cioè di massimizzazione del profitto, nel dato contesto storico-geografico. Così negli USA, le cui esportazioni chimiche verso il Sudamerica vanno per il 90% alla narcoindustria e i cui banchieri riciclano il 60% circa dei narcodollari (circa 600 miliardi l’anno), nessun banchiere e nessun esportatore chimico va in carcere per riciclaggio –appunto perchè il riciclaggio è utile, produce ricchezza-, mentre il minore deviante va in carcere per uno spinello o per un furto bagatellare e si afferma il principio moralista della tolleranza zero, così che si fissa l’opinione pubblica su false cause e false soluzioni in modo che non disturbi i grandi affari accorgendosi dei loro costi sociali, ambientali etc. Quindi la norma –anche la norma giuridica e psicologica che definisce la devianza minorile-  non è affatto morta, ma si evolve in funzione delle esigenze vincenti. A livello mondiale, la norma, il criterio oggettivo di individuazione della devianza è imposto dall’economia nei termini funzionali anzidetti: il deviante è colui che disturba le condizioni sociali di massimizzazione del profitto economico e di stabilità del sistema.

Di fatto, l’obiettivo delle politiche per la devianza è la riduzione di questo fattore di disturbo e la sua conversione, per quanto possibile, in un elemento di conferma del sistema e dell’accettazione del sistema da parte della pubblica opinione (v. il caso statunitense dianzi citato). La devianza –così intesa- viene accettata analogamente a come viene accettato l’inquinamento, ossia come prodotto collaterale sgradito ma inevitabile, del sistema socio-economico. Inevitabile, ma limitabile, razionalizzabile e, in parte, riciclabile, recuperabile, riutilizzabile dal sistema.

La norma che è morta, o che muore, è la norma, il criterio di devianza, basata sulla cultura e sui valori morali e identitari. Conosciamo posizioni che addirittura salutano come corretta e benvenuta la sua morte, sull’onda del relativismo etico-culturale e del costruttivismo. I valori e lo stesso ‘sapere scientifico’, nel pensiero di Kuhn, Lakatos, Feyerabend, sono non acquisizioni di conoscenze e realtà oggettive, ma bensì paradigmi sociocostruiti, i prodotti di congiunture storico-geografiche, più o meno convenzionali. I moderni paradigmi etici e culturali occidentali non sono qualitativamente superiori a quelli  tradizionali o locali indiani o arabi o africani o cinesi, ma semplicemente si sono imposti come più forti in termini politico-militari ed economici, per un certo tempo. In realtà, tutti i paradigmi,  i ‘saperi’ e tutti i valori vanno bene, sono validi: anything goes. Quindi dovremmo accettare tutto.

Un fenomeno di equivocazione culturale, collegato a questo discorso, è il seguente: Molte persone che hanno problemi comportamentali, talvolta anche criminali, cercano di ‘mutare’ la classificazione che hanno ricevuto, attraverso l’assunzione di una identità culturale-religiosa che percepiscono come proteggente, non attaccabile per ragioni di ordine pubblico o di tolleranza dovuta: così si sono fatti mussulmani Mike Tyson, Michael Jackson, Cassius Clay: “io sono religiosamente diverso; ogni attacco giudiziario o non giudiziario a me, è una discriminazione religiosa, quindi illegittimo o perlomeno relativo, sicchè posso accreditarmi come perseguitato.” Questo tipo di argomento difensivo, o controffensivo, è sempre più vittoriosamente adottato nei Paesi occidentali da soggetti di altre culture per sottrarsi alle sanzioni civili, penali, amministrative. E per rivendicare privilegi rispetto alla popolazione comune. Il che aprirebbe il discorso sulle devianze miste, o composite, dove il fattore ‘variabile culturale’ si congiunge o si fonde al disturbo comportamentale individuale. Ma anche il discorso della paura: perchè altro non è, se non paura delle reazioni, della violenza individuale e del gruppo etnico-religioso, quella che induce le istituzioni di polizia e giudiziarie a chiudere gli occhi, molto spesso, su notori casi e prassi di poligamia, di mutilazioni genitali, di vari tipi di reato, anche di droga e terroristici. Una paura che rinforza quei comportamenti e che rinforza la figura del deviante, adulto e minore, come simbolo di portatore di supposti diritti – diritti falsi, perchè estorti.

Questo discorso vale a ricordare gli svantaggi e il controsenso dell’essere tolleranti verso gli intolleranti, anarchici verso i dispotici e passivi verso gli aggressivi.

 

Proprio questo controsenso pone alle istituzioni e agli operatori responsabili la necessità pratica di superare quella passività, quella ferita di Amfortas, uscendo dall’incantesimo del relativismo e soggettivismo culturali e giuridici. Non è che il relativismo sia erroneo – anzi, è un’importante acquisizione di consapevolezza. E’ l’acquisizione del socratico ‘so di non sapere’, ‘mi rendo conto che ciò che appare ovvio non è affatto certo nè dimostrato, e può essere diversamente.’ Il punto è che ogni praxis umana opera sul presupposto di un paradigma accettato di realtà, di valori, di natura e diritti dell’uomo. La finestra critica, o (propriamente) filosofica, che ha scoperto il relativismo, lo scetticismo –che ha scoperto che in realtà noi non sappiamo che cosa sia l’uomo e la sua natura e il suo fine, quindi non siamo razionalmente in grado di stabilire che cosa sia deviante e che cosa sia normale-, non deve essere chiusa, ma bisogna passare alla prassi, se si vuole agire, se non si vuole che la finestra diventi la ferita di Amfortas. Questo ‘passare’ è un atto basato non sulla ragion pura –che è anzi quella che mantiene aperta la finestra- ma sul sentire, su sentimenti di valore. Inutile tentare di deresponsabilizzarsi col cercare un simile fondamento neutro, impersonale, puramente razionale, universale, extratemporale. Inutile anche rifarsi a metodi matematico-statistici. E’ un qualcosa che viene dalla nostra identità storicamente formatasi: una sensibilità maturata in un cristianesimo civilizzato da Grecia, Roma e Rinascimento (cosa che manca all’Islam); un liberalismo (pure ignoto all’Islam) contemperato da una coscienza sociale e solidale.

 

     In realtà, poichè tutti noi siamo impegnati nella prassi, tutti noi adottiamo qualche paradigma, anche più di uno, nel nostro agire e giudicare. L’importante è vedere se lo facciamo consapevolmente, ossia avendo presenti i contenuti e le radici di questo paradigma, oppure inconsapevolmente, facendoci guidare da paradigmi che se ne stanno nell’ombra, dietro la nostra coscienza, e ci guidano con ispirazioni, sentimenti, pregiudizi, fideismi. O quale altro fattore ci sensibilizza e talora ci divide così acutamente, per esempio,  sul tema del proibizionismo/antiproibizionismo rispetto alla droga, di cui muoiono circa 3.000 persone all’anno, mentre ci desensibilizza rispetto al fatto che lo Stato ha il monopolio del tabacco, droga che dà assuefazione e causa, annualmente, 90.000 morti e un introito di 7.200 milioni di Euro?

 

Le condizioni operative della mente umana sono state rivoluzionate. E’ stato stimato che il nostro sistema nervoso centrale sia sottoposto a circa 300.000 volte gli stimoli che colpivano quello dei nostri antenati del XIX secolo. Solo una minima parte di questi inputs può essere consciamente elaborata. Il resto incide ‘clandestinamente’ sui molti processi paralleli inconsci e subconsci che costituiscono la grande maggioranza del funzionamento della psiche. Ciò significa che questa lavora in condizioni, in un ‘ambiente’  e a un regime drammaticamente diversi, oggi, da quelli in cui lavorava solo tre generazioni fa. D’altronde, questo modo di vivere contemporaneo, non viene dal nulla, dal caso, o dalle mode. Né da un processo di liberazione ed emancipazione ‘positivo’ del genere umano. Viene dall’evoluzione dell’economia e dell’industria, dalle loro esigenze impersonali e oggettive.

E’ perciò ovvio che bisogna porsi anche in questa prospettiva per comprendere il modo in cui il problema della devianza viene attualmente trattato e per prevedere come verrà gestito in futuro; e contemporaneamente occorre focalizzarsi sulle estreme tensioni ‘operative’ in cui è posto l’individuo nell’odierna società consumistica, tensioni che spingono costantemente verso il punto di rottura ampi strati della popolazione e che quindi costituiscono verosimilmente il più importante fattore generativo della devianza, in termini quantitativi, iniziando con la fanciullezza. L’orizzonte ultimo, più ‘comprendente’, per la comprensione e la gestione del problema della devianza, è quello economico.

Come dicevamo prima, gli oggi rimpianti valori tradizionali (di sacrificio, lavoro, risparmio, onestà, famiglia, religione etc.), sono stati liquidati per consentire una maggior redditività del capitale investito, massimizzando l’individuo non solo come lavoratore ma anche come consumatore.  La rivoluzione degli anni ’60 ha provveduto a ciò, demolendo i valori –o vettori motivazionali- etici e sociali che ostavano al realizzarsi dell’uomo consumista: liberazione dai doveri, liberazione sessuale, colpevolizzazione delle proibizioni, svalutazione della famiglia e dei ruoli familiari, svuotamento della religione, relativizzazione dell’etica, dell’autorità, creazione di innumerevoli nuovi bisogni della persona (fancied wants). La pedagogia popolare moderna ha trasformato gli stessi bambini in una categoria di consumatori, indotti e legittimati, soprattutto dalla televisione, a concepire e avanzare proprie pretese consumistiche verso i genitori, i quali parallelamente sono stati indottrinati a sentirsi in colpa se non appagano le richieste dei figli (pensiamo oggi al ‘dover comperare’ ai figli lo zaino Invicta e le scarpe Nike). Il diniego e il differimento del piacere come strumento educativo è stato messo in crisi, con le conseguenze che vediamo nei giovani, in termini di scarsa acquisizione di capacità e competenze presupponenti la disciplina e il sacrificio.

Agli stessi bambini viene insegnato a viversi come inadeguati e insufficienti, in quanto non sono completi se non acquistano determinate cose oggi, e determinate altre cose domani.

L’esigenza di massimizzazione del profitto, propria dell’industria, confligge coi limiti, colla fragilità, colla sofferenza delle persone. Entra in conflitto, ma non può rallentare nella sua azione di stimolo a sempre maggiori guadagni e dei consumi. Non lo può fare, pena il calo dei profitti, quindi ritiro degli investimenti, recessione, disoccupazione, crisi dei mercati. Le ricette per uscire dalla presente stagnazione globale si incentrano sugli incentivi agli acquisti, ai consumi, alla domanda interna – come lo sgravio Irpef ora promesso dal governo. E’ del tutto probabile, pertanto, che gli esseri umani saranno spinti a ‘correre’ sempre più forte, come automobili col motore sempre al massimo, col turbocompressore sempre più spinto, oltre i limiti per cui sono costruite, finchè non sbiellano o escono di strada o si scontrano; e ciò nel contesto di in una società e in un modo esistenziale sempre più frustranti, esasperanti, desecurizzanti. E’ quindi da aspettarsi un costante aumento delle risposte devianti, nelle varie forme, fino al punto di rottura della società. Così come abbiamo fatto per i costi ecologici, nel senso che l’attività produttiva produce inevitabilmente inquinamento, rendiamoci conto che la vitalità del sistema economico produce pure un inquinamento in termini di disturbo e devianza, come costo per reggere sé stessa. La devianza, in quest’ottica, viene quindi criminalizzata, circoscritta, repressa, smaltita per quanto possibile, assieme alle classi sociali poco o punto produttive in cui essa è concentrata; al contempo viene definanziato il welfare. Per questa strada si è avviata con decisione la policy degli USA, sia sotto W. Clinton che sotto G.W. Bush.

 

In Italia, la risposta sinora adottata, e moralmente prescritta, a questo quadro di devianza crescente, in ossequio a condizioni ideologiche e religiose, tipiche locali, di stabilità, è invece prevalentemente la negazione etico-ideologica del problema, che viene scaricato sui cittadini e fatto pagare a loro: negazione dell’esistenza dello scolaro-studente ‘impossibile’ e dannoso agli altri, negazione della malattia mentale (chiusura degli ospedali psichiatrici, scarico dei malati mentali sulle famiglie e sulla società) e negazione dell’esistenza di un’emergenza criminale. O, più raffinatamente: si colpevolizza la società per i comportamenti criminali e le malattie mentali, sicchè la società è in debito verso folli e criminali (soprattutto se immigrati); e, se la società è in colpa, i suoi membri sono moralmente tenuti ad accettare di vivere in un ambiente dove la devianza li minaccia, mentre forze dell’ordine e giustizia non li proteggono.

Analogamente a quanto succede con l’inquinamento ambientale, per il potere costituito, economico, in questo quadro, il problema della devianza si pone innanzitutto non come problema di tutelare i diritti, bensì di conservare il consenso e l’ordine istituzionale nonostante il malcontento provocato dall’aumento della devianza. Esso è quindi tentato a prevenire e scoraggiare la protesta e la domanda di tutela dei diritti, che il cittadino è portato a rivolgere allo stato. Bisogna che il cittadino si evolva nel senso che non senta più lo stato come un soggetto tenuto a difendere i suoi diritti, in modo che accetti uno stato che sempre meno può permettersi di difenderli. Tutta la politica giudiziaria è andata in questo senso: rendere gli interventi sempre più difficili, ritardati, pericolosi per chi vi si impegna; rendere il processo sempre più lento, costoso, inefficiente, imprevedibile, ingiusto.

Questa strategia è la più semplice, la meno costosa politicamente, ma è efficace solo nel breve periodo, perchè, rinforzando e incoraggiando i comportamenti violenti e intimidatori, essa continua ad aggravare il problema nel medio e lungo periodo. Di nuovo, quindi, un conflitto tra tornaconto a breve e tornaconto a lungo termine.

In conclusione, ai fini pratici di questo odierno convegno, è prevedibile che lo stato italiano, negli anni a venire, sia sempre più tollerante verso la devianza e le trasgressioni, specialmente verso quelle che colpiscono l’ordine pubblico, il patrimonio, la sicurezza dei cittadini.

 

Se queste sono le prospettive, le risposte, o proposte formulabili in questa sede circa la gestione della devianza minorile possono solo essere realistiche, pragmatiche, miranti a obiettivi possibili e limitati. Esse devono tener presenti tre obiettivi:

-Lo scopo di consentire al meglio la realizzazione personale del minore

-Lo scopo di preservare la società e i diritti dei terzi

-I costi delle varie opzioni, complessivamente considerati, in un sistema finanziario globale che impone ai governi, indipendentemente dall’alternanza e dalla diversità politiche e dalle peculiarità locali come quelle italiane sopra menzionate, policies di pareggio dei bilanci, di riduzione dei debiti pubblici, di tagli alla spesa sociale.

Le soluzioni che vogliamo dare al nostro problema dovranno quindi, per essere accettate e implementabili, ossia finanziabili, presentarsi convincentemente e competentemente soprattutto come piani di risparmio già sul medio periodo.

 

Ai predetti tre obiettivi, la risposta migliore è data da comunità o strutture educative e terapeutiche, che dir si voglia, del tipo de Il Cedro. In ciascuna di esse vive un numero limitato di ospiti e si crea una vera atmosfera domestica, familiare, in cui è possibile la percezione e lo scambio di valori e affetti peculiari dell’esperienza familiare, e in cui è seguito e incoraggiato lo sviluppo affettivo, cognitivo e culturale degli ospiti. Ciò consente di dare una buona chance di realizzazione personale, mentre, al contempo, realizza il contenimento e la protezione della società soprattutto attraverso il monitoraggio professionalmente competente, la prevenzione, gli eventuali interventi anche psicofarmacologici interni. In quanto al costo, esso è anticipato rispetto alla scelta che differisce l’intervento fino al momento del delitto, ma molto meno costoso sia in termini di spesa giornaliera –che va dai 70 ai 200 € a testa al giorno a seconda che si tratti di comunità solo educative o anche terapeutiche- che di evitamento del danno criminale e di spese per la repressione, le indagini, il processo, la carcerazione o l’internamento in OPG.

Questi dati di fatto e di contabilità sono oggettivi e chiarissimi; però essi hanno tornaconto nel medio-lungo termine, e soprattutto sotto forma di spese e danni evitati. Invece il sindaco, entro la contabilità comunale, è indotto a ragionare in termini annuali, o al massimo della durata del suo mandato. Ciò costituisce un fattore che spinge i sindaci a privilegiare il risparmio in bilancio oppure altre spese e altre logiche, anzichè fare l’investimento di lungo termine nel capitale umano, ossia mandare in comunità il minore che ne ha bisogno. Per questa ragione, nell’interesse di tutta la società e dei minori, è necessario costituire, mediante leggi regionali e nazionali, e mediante interventi giudiziari, un fattore che controbilanci e superi la logica della annualità del bilancio e del breve termine che astringe le amministrazioni comunali.

 

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