DELITTI ATROCI: GESTIONE DELLA PERICOLOSITA’
VALUTAZIONE E RIDUZIONE DELLA PERICOLOSITA’ DEL CRIMINE VIOLENTO
STRUTTURE E METODOLOGIE,
TUTELA DEL MINORE
PADOVA, PALAZZO ZACCO – PRATO DELLA VALLE, 82
2 FEBBRAIO 2008
La mia relazione tratterà in primo luogo dell’aspetto normativo in materia di crimine folle, nell’ottica della ricerca di un sistema normativo idoneo a prevenire il crimine violento commesso dalle persone psichicamente disturbate; lo fa confrontando la normativa vigente con quella precedente dal punto di vista delle garanzie per la libertà e della rispondenza alla realtà.
Tratterà in secondo luogo dei vari parametri di pericolosità e predittività, formulando una proposta di protocollo di assessment e una ripartizione delle competenze e delle responsabilità accertative e decisionali tra esperti e magistrati.
Tratterà in terzo e ultimo luogo degli effetti dell’impatto del crimine violento nella gestione della società e dell’opinione pubblica.
I – LE NORME
NORME NEL TEMPO
Ancora oggi comunemente si ritiene che la Legge 180/1078, detta Legge Basaglia, sia stata una legge garantista, un rimedio necessario per liquidare un sistema manicomiale degradante, coercitivo, autoritario e poco garantista.
La situazione dei manicomi prima della Riforma Basaglia era notoriamente deplorevole, ma, se andiamo a esaminare tecnicamente la normativa vigente allora, e quella vigente oggi, scopriremo che la normativa previdente non poteva essere la causa di quel degrado e di quegli eccessi. Scopriremo che essa era una normativa assai precisa e garantista, soprattutto in fatto di libertà. Molto più della Legge Basaglia.
La deplorevole situazione dei manicomi era dovuta non alla legislazione, ma alla pessima amministrazione, al potere burocratico e politico usato male e per fini impropri –e la disapplicazione delle norme vigenti.
La soluzione logica avrebbe dovuto essere, pertanto, moralizzare e riformare l’amministrazione, e far applicare le norme vigenti. Non l’abolire i manicomi e il mettere fuori da essi persone sovente pericolose per sé o per gli altri, oppure incapaci di badare a sé stesse. Soprattutto non si doveva scaricarle sulla collettività, sulle famiglie, affidandole alla gestione di un apparato amministrativo che già aveva dato pessima prova di sé, e che si sapeva essere del tutto inadeguato.
Ossia: visto che la burocrazia, gli amministratori, i politici gestivano in modo pessimo, indecente, la malattia psichiatrica, e che questo problema diveniva scottante, anziché intervenire correttivamente sull’apparato politico-burocratico-amministrativo della psichiatria, per far sì che svolgesse correttamente il proprio compito, si è fatto l’opposto: lo si è sgravato da ogni responsabilità giuridica (non c’è più il compito, quindi non c’è più il fallimento; non c’è più la follia, quindi tutto deve rientrare nel sociale, tutti sono colpevoli), chiudendo i manicomi e dando la colpa della situazione alle leggi, che si cambiano facilmente, e di cui, in Italia, si è sempre pensato che bastasse cambiarle per cambiare la realtà. Non è così, come si è visto con la Legge Basaglia e con molte altre riforme, comprese quelle elettorali.
La Legge Basaglia, con tutta la campagna ‘culturale’ e politica che l’ha preparata e accompagnata, è stata un’operazione propagandistica in favore dei pubblici amministratori, dei burocrati, dei tecnici, dei politici, della partitocrazia nella sanità – soggetti che essa ha, in buona parte, deresponsabilizzato rispetto al loro fallimento.
Non è stata un’operazione di garantismo a tutela della libertà dei malati: la legge precedente, del 1904 con regolamento attuativo del 1909, era assai più garantista, prescrivendo requisiti più precisi e procedure più attente per il ricovero coatto del malato di mente. Essa aveva un preciso e limitativo criterio: Art. 1. Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomila pericolosità per sé o per gli altri, o il pubblico scandalo.
Era prescritta l’indicazione analitica, specifica e asseverata dei comportamenti pericolosi e delle ragioni per cui si riteneva necessario il ricovero, con garanzie di indipendenza del medico proponente.
Per contro, la 180 si accontenta (art. 2), vagamente, di “alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici”, lasciando tutto alla discrezione e all’improvvisazione del sindaco e degli psichiatri dell’Asl, e senza responsabilizzarli circa il serio accertamento dei presupposti. I riformatori si vantavano di aver tolto il concetto di pericolosità, mentre avevano ampliato enormemente il potere politico in questa materia, togliendo anzi la responsabilità dei soggetti decisori.
Data la vaghezza dei requisiti di legge attuali, nel contesto normativo attuale, chiunque potrebbe essere sottoposto a un TSO. Ciò si presta a neutralizzare e screditare, per esempio, persone scomode e non allineate, mettendo ancor più la psichiatria al servizio del potere politico ed economico.
La Repubblica del 12.01.08, cronaca fiorentina, riferisce di un TSO praticato ad un settantenne di Scandicci che si opponeva allo sgombero della sua palazzina con giardino, la quale doveva essere demolita per la costruzione di un’autostrada. Aveva chiesto una sistemazione analoga che non gli era stata accordata. Riporto qui alcuni brani:
Lo tengono fermo: “Si calmi, signor Franco”. “No, maresciallo, questa è una tortura”. Giornata grigia, nuvole. Una siringa, un’altra, la voce di Franco che si impasta. Le parole che rallentano e poi si fermano. Tranquilli, la terza corsia dell’autostrada avanza, si fa largo con un certificato medico e un ricovero coatto…
”Si prendono la casa e la vita di mio padre”, protesta il figlio Francesco, arrivato nella villetta…
“Questa fine è il fallimento della politica scandiccese”, attacca Luca Carti del comitato Vivere a Scandicci, “Si doveva offrire al sig. Franco la possibilità di una nuova casa con le stesse caratteristiche… così non è stato”.
Non risulta che il signor Franco sia mai stato in cura per malattia mentale. Improvvisamente è diventato bisognoso di ricovero per “urgenti e inderogabili necessità”: ossia, procedere con l’autostrada. Se la legge liberale di Giolitti fosse vigente oggi, il sig. Franco sarebbe libero. E non sarebbe stato nemmeno sottoposto a TSO, probabilmente, quel biologo responsabile del laboratorio del centro trapianti dell’ASL di un’altra città toscana, il quale aveva denunciato, per reati contro la pubblica amministrazione a sfondo economico, il presidente della sua stessa ASL e che, due giorni dopo la sua denuncia, quindi in tutta urgenza, era stato sottoposto a TSO in un ospedale di un’altra ASL, nel cui ambito non risiedeva – questo per limitare ulteriormente i problemi politici posti dalla sua denuncia.
Ecco come si adatta la 180, la legge che si spacciò come liberazione dei malati di mente dai manicomi, ma che aveva scopi non dichiarati e non dichiarabili, molto più pericolosi del suo stesso velleitarismo utopistico, del suo non tener conto della realtà. Non si tratta, a ben vedere, di una legge meramente ideologica e velleitaria, irrealistica. Il velleitarismo, il moralismo, lo spirito antisistema con cui fu presentata, erano i mezzi per farla accettare e acclamare.
Il suo vero fine era ben altro, era pro-sistema, non anti-sistema. Era lo smantellamento di un baluardo dello stato di diritto, della certezza del diritto; e l’apertura a un intervento della coercizione psichiatrica nella repressione e gestione del dissenso, della opposizione sociale.
La 180 non è stata nemmeno una legge a tutela della società. Con la legge Basaglia, gli artt. 714 (Omessa o Non Autorizzata Custodia di Malati di Mente in istituti pubblici), 715 (Idem in istituti privati), 717 (Omessa denuncia di Malattie Mentali pericolose) C.P. sono stati abrogati. Unico obbligo rimasto, quello sanzionato dall’art. 716, che punisce l’Omessa denuncia alla polizia della fuga del malato di mente. Quindi oggi l’autorità sanitaria non è tenuta a custodire o segnalare il malato di mente pericoloso e può lasciarlo libero di andarsene; unico obbligo, per essa: denunciare la sua fuga alla PS, scaricando su di essa la responsabilità della possibile violenza del malato di mente. La categoria perdente della Riforma Basaglia è, appunto, quella dei poliziotti a norma dell’716, rimasto “stranamente” in vigore.
Qualche psichiatra mio amico ha vissuto personalmente il periodo finale dei manicomi italiani con i cancelli spalancati, in cui a fine giornata, se qualcuno non rientrava (ed erano molti) bastava inviare un “fonogramma” alla polizia. Poi molti degenti si trovavano morti nei giardini pubblici, sotto il treno, nel lago e una volta negli scantinati del manicomio di Firenze, perché un infermiere si accorse di un insolito lezzo… A Pistoia alcuni malati furono rinvenuti in un bosco a primavera, quando la neve si fu sciolta.
Ma i basagliani dicevano: “E’ un prezzo che si deve pagare”. Amabile frase fatta che nascondeva la realtà. In quel periodo vi fu anche un’impennata di ricoveri nei manicomi giudiziari perché molti pazienti, abbandonati a sé stessi, commettevano dei reati. Non per nulla il Manicomio giudiziario, guarda caso risparmiato dalla legge Basaglia, è stato chiamato il guardiano della 180.
Un legge che cercava il consenso di determinate categorie, e che l’ha trovato.
II – ARCHITETTURE E PROCEDURE PROTETTIVE
ORGANIZZAZIONE DEI SOGGETTI DECISORI
In primo luogo dovremo considerare l’architettura organizzativa e giuridica dei soggetti competenti e responsabili per la valutazione di pericolosità, la programmazione e l’esecuzione della riabilitazione, le decisioni circa misure di libertà nell’OPG.
Il GOTT, Gruppo di Osservazione, Trattamento e Terapia, cui è affidata anche la costruzione del giudizio sulla pericolosità ai fini dei permessi e della liberazione, istituito dalla legge di riforma finanziaria del 1975, è caratterizzato da gravi difetti:
-da un collegialismo delle valutazioni, che deresponsabilizza i singoli membri del GOTT stesso;
-dallo scollegamento tra direzione clinica degli psichiatri dirigenti e GOTT;
-dalla decisione finale rimessa al magistrato di sorveglianza, che è incompetente professionalmente nella materia, e non ha conoscenza diretta del soggetto; e che, come tutti i magistrati, non risponde dei propri errori e delle loro conseguenze;
-dallo scollegamento col territorio, nel senso che le dimissioni e i permessi vengono concessi senza previa assunzione di una responsabilità giuridica ed effettiva da parte di strutture territoriali, spesso inesistenti o inidonee;
-dalla possibilità per l’internato di presentare domande di liberazione anticipata anche ogni giorno.
Si produce, in tale sistema, una deresponsabilizzazione reciproca tra GOTT e magistrato. I membri del GOTT sono deresponsabilizzati sia dal fatto che agiscono collegialmente, sia dal fatto che la decisione finale sarà presa dal giudice, il quale quindi coprirà il loro operato. Il giudice è coperto, da un lato, dalla irresponsabilità di magistrato, da un secondo lato dalla garanzia della carriera automatica, da un altro ancora dal rapporto del GOTT. Ulteriormente, è protetto dai mass media, che non danno mai notizia di simili errori dell’autorità giudiziaria.
L’abrogazione delle norme sulla custodia del malato di mente pericoloso, infine, deresponsabilizza le strutture territoriali.
Un sistema in cui i decisori decidono sapendo che non dovranno mai render conto delle conseguenze del loro agire in relazione ai suoi effetti nel mondo oggettivo, induce i decisori a decidere in base alle loro rispettive inclinazione soggettive, a decidere per esprimere le proprie soggettive preferenze, istanze, ideologie.
Lo scadimento professionale di tutte le figure coinvolte è automatico.
Il disastroso risultato è sotto gli occhi di tutti.
I rimedi ipoteticamente possibili sarebbero:
-ripristino della normativa liberale pre-Basaglia, con aggiornamenti;
-istituzione di un garante delle condizioni degli ospedali psichiatrici;
Negli OPG:
-terapia affidata unitariamente allo psichiatra dirigente;
-parere vincolante dello psichiatra curante nel riesame di pericolosità e per i permessi;
-introduzione di metodi scientifici e oggettivi di valutazione della pericolosità;
-responsabilizzazione personale degli altri operatori e degli operatori territoriali;
-introduzione dell’obbligo di denuncia dell’interruzione della cura che sia stata prescritta come condizione per la liberazione o il permesso.
Ora veniamo al metodo delle valutazioni e scelte circa la pericolosità.
In assenza di prescrizioni normative, la prassi usata dagli organi competenti è disomogenea e disordinata. Manca un vero metodo. Si opera secondo schemi e assunti perlopiù impliciti, ossia senza esplicitazione dei criteri applicati; il che costituisce un’aggravante della situazione deresponsabilizzante creata dalla collegialità. Mancando un metodo, manca la possibilità di confronti statistici e di accertamento dell’accuratezza o inaccuratezza, della completezza o incompletezza, dei vari adempimenti procedurali e testistici in sede di riesame.
Questa situazione è del tutto anacronistica e inefficiente, nonché pericolosa.
E’ anacronistica perché la psicologia sperimentale, la psichiatria, le attuali tecniche di indagine anche mediante neuroimaging, hanno prodotto metodi scientifici di assessment dei parametri rilevanti ai fini delle valutazioni circa la pericolosità, la riabilitazione, etc.
Non vi è giustificazione che ci possa esimere dall’introdurre metodi razionali e scientifici attraverso atti normativi. Vi sono psicologi, educatori e c.d. esperti ex art. 80, che sono recalcitranti ad ogni tipo di aggiornamento e non hanno mai applicato qualsivoglia test, ma si limitano a produrre relazioni di sintesi saltabeccando nella psicopatologia e nella sociologia.
Ciò avviene sia nell’ambito dell’esecuzione della pena che in quello delle misure di sicurezza.
L’adozione di metodi scientifici, obiettivi, idonei alla verifica e al confronto, servirebbe anche ad evitare che l’eccessiva discrezionalità e soggettività sia usata per praticare favoritismi e indulgenze a spese della società, come già è avvenuto.
L’obiettivo è arrivare alla formulazione di un protocollo che contempli e prescriva l’esame sistematico dei parametri rilevanti.
I parametri possono essere individuati in base ai risultati delle ricerche sperimentali.
L’esame si comporrà di una serie di accertamenti, ciascuno demandato alla figura di competenza (psichiatra, neurologo, psicologo, psicometrista, etc.), che si assumerà la responsabilità anche giuridica dell’esecuzione diligente dei vari atti accertativi di sua spettanza.
Potranno essere introdotte varianti o protocolli aggiuntivi in relazione al tipo di offensore o di reato commesso (ad es., tener conto delle tossicodipendenze, o della particolare pericolosità criminale dimostrata).
La pericolosità sociale dovrà essere presunta fino a prova contraria nei casi dei delitti atroci, più efferati, perpetrati con modalità estreme (caso di Cogne), o con moventi abnormi (fanatismo religioso) o in assenza di comprensibili moventi (caso Onofri), che causano turbamento collettivo, soprattutto nei fanciulli, i quali si sentono violati e lesi, dall’orrore di questi fatti, nella possibilità di fiducia nel mondo degli adulti e nel territorio in cui vivono.
Alla luce di una recente pronuncia della Corte Costituzionale, che stabilisce che il riesame di pericolosità spetta anche in caso di delitti gravi indipendentemente dal tempo di trattamento eseguito, si rende necessario introdurre tale presunzione attraverso una legge costituzionale. Del pari, attraverso una legge costituzionale si dovrebbe provvedere a precisare che il fine rieducativo della pena è subordinato alla primaria funzione di protezione della società. La rieducazione e riabilitazione dovrà tentarsi nei limiti e nei modi compatibili con quella funzione primaria.
La libertà provvisoria e, ancor più, la sospensione condizionale della pena, dovrebbero essere concesse agli stranieri solo se presenti in Italia in modo legittimo.
In quanto alle procedure di liberazione progressiva, ai premi, al reinserimento nella società, dovranno essere considerate e valutate, come presupposti e condizioni, anche le risorse, soprattutto territoriali disponibili effettivamente per i singoli casi.
Il responsabile delle risorse potrà porre un veto.
La decisione finale potrà spettare al magistrato, ma con vincoli in relazione al parere dell’esperto. La p.a. e il responsabile delle strutture esterne di appoggio dovranno munirsi di congrua polizza assicurativa obbligatoria a garanzia dei terzi, il cui premio non sia a carico del contribuente. In tal modo, le valutazioni degli attuarii assicurativi saranno un utile complemento e correttivo, in termini di riconduzione al realismo, delle decisioni amministrative. Il giro d’affari indotto da questa domanda di polizze indurrà a sua volta studi epidemiologici e monitoraggi utili a una conoscenza oggettiva e più esatta della realtà. L’eventuale rifiuto delle società assicuratrici di stipulare o rinnovare la polizza, sarà un oggettivo segnale che, da parte della p.a. e degli uffici giudiziari si sta sottovalutando il rischio.
Venendo ora al tema del metodo concreto di assessment di pericolosità sociale, premettiamo alcune considerazioni.
In generale, l’approccio a questo problema rimane più o meno ampiamente viziato non solo dal pregiudizio ideologico, ma pure dall’habitus mentale di dar per scontata l’esistenza e l’efficienza, nel soggetto, di funzioni mentali cognitive e metacognitive, che invece sono sovente, e variamente, assenti, deficitarie o distorte. Vi sono processi che implicitamente assumiamo avvenire nella psiche del prossimo (e nella nostra) in modo completo, efficace, non distorto, quasi spontaneo. Solo di fronte ai soggetti più disturbati percepiamo che in essi qualcosa non va. Ma tali deficit sono molto più diffusi di quanto si pensi e la loro influenza sulle condotte offensive è di primaria importanza.
E’ un dato di fatto che le carceri sono popolate, per la stragrande maggioranza, da persone culturalmente e cognitivamente sottodotate, rispetto alla popolazione generale, in buona parte extracomunitarie, nelle cui storie criminali, patologiche o semplicemente esistenziali, è evidente, anche in assenza di veri disturbi mentali, la centralità eziologica del deficit:
-Il deficit di capacità attentiva, di esame di realtà, di integrazione della personalità. Il deficit di riconoscimento e regolazione delle emozioni e degli impulsi (molti atti violenti sono tentativi di risolvere uno stato emotivo che diviene insopportabile), il deficit relazionale (empatia, o sympatheia, il percepire il male che si arreca al prossimo).
-Ancora, il deficit (con basi neurali oramai credo assodate) del meccanismo che, nel soggetto ‘normale’, fa sì che la memoria degli effetti sul proprio sé delle varie esperienze di interazione col prossimo venga integrata e partecipi ai processi motivazionali, decisionali, autoinibitori etc. futuri, regolando e modificando la condotta interpersonale – ad es.: il soggetto, in un momento d’ira, ha picchiato la moglie; poi è stato male perché si è sentito in colpa e ha avuto paura che ella lo querelasse; il ricordo di questa esperienza negativa si è associato allo schema della violenza; e così, interviene come inibitore quando lo schema si riattiva; ma vi sono soggetti in cui questa integrazione non avviene, e non è loro ‘colpa’, ma deficit; e accertare tale deficit è di fondamentale importanza sia ai fini del giudizio di imputabilità che a quelli del giudizio di pericolosità che a quelli di organizzazione del trattamento. Vi sono persone incapaci di imparare dall’esperienza, sia essa esperienza di senso di colpa che esperienza di punizioni. E’ chiaro che, soprattutto in caso di recidivi, accertare se ricorra questo deficit è indispensabile ai fini del giudizio di pericolosità e di impostazione del trattamento. Su queste persone, la pena non può avere effetto deterrente né rieducativo.
Ricordiamo poi il deficit metacognitivo, soprattutto di teoria della mente altrui e di decentramento (capire le motivazioni e il senso del comportamento altrui, afferrare l’esistenza di punti di vista e sistemi di conoscenza-valutazione-sensibilità diversi dal proprio), distanziarsi dalle affiliazioni e dai loro imperativi: facoltà che consentono tolleranza e accettazione delle diversità nonché la relativizzazione dei propri valori, credi, imperativi.
E così pure il deficit della capacità di sospendere il giudizio in condizioni di incertezza, sopportando la condizione di dubbio, ambiguità e relatività; il deficit della capacità di distinguere tra le proprie rappresentazioni interne, e la realtà – capacità, queste, che è grossolanamente erroneo dare per scontate, e altrettanto grossolanamente omissivo non accertare, perché una distorta struttura di pensiero e/o di appercezione della realtà, può essere un fattore determinante nella genesi e nell’attuazione della condotta offensiva.
Deficit o disfunzioni cognitive elementari (dell’attenzione, ad es.) talora distorcono funzioni più complesse, come la formazione dei concetti, fino a rendere il soggetto incapace di comprendere e gestire, specie sotto stress, i rapporti interpersonali, facilitando il passaggio all’atto violento. In generale, le funzioni di base (organizzazione della coscienza centrale, sua stabilità-continuità, integrazione della personalità e dei propri stati emotivi, attenzione volontaria, memoria, etc.) sono fattori essenziali per qualsiasi prognosi comportamentale, e vanno quindi indagate con scrupolo e sistematicamente.
Ritengo, in base a queste considerazioni, che una componente essenziale del protocollo di assessment di pericolosità sia l’indagine scientifica e sistematica, protocollare, di questi deficit, ossia l’inventario dello stato e del livello delle varie funzioni rilevanti, da farsi sia all’inizio del percorso giudiziario, che durante il percorso di espiazione della pena o di misura di sicurezza e riesame di pericolosità o di monitoraggio successivo.
Ritengo che, parimenti, una componente essenziale della riabilitazione consista nel cercare di colmare questi deficit o di sviluppare nei soggetti funzioni vicarianti, supplenti, per così dire, in un’ottica di educazione e riabilitazione.
La non avvenuta eliminazione o sostanziale riduzione di questi deficit, o il loro ricomparire, dovranno essere tenuti in conto di precisi e responsabilizzanti criteri di pericolosità e di prevedibile recidiva.
Esistono, ovviamente, questionari, test e scale per misurare questi fattori. Il personale dovrà essere formato nel loro uso.
“Alcuni autori (Karasu, 1993) hanno infatti evidenziato che una maggiore consapevolezza dei propri processi psicologici, unitamente a una maggiore padronanza cognitiva delle proprie problematiche, determina un miglioramento dell’adattamento sociale e protegge i pazienti trattati in psicoterapia dal rischio di recidive in modo più stabile rispetto ai trattamenti esclusivamente farmacologici e di sostegno.” (Carcione-Falcone, in Antonio Temerari (a cura di), Psicoterapia cognitiva del paziente grave, Cortina 1999, pag. 10).
I suddetti deficit funzionali sono correlati a caratteristiche abbastanza note dell’ambiente familiare e degli schemi relazionali primari del soggetto entro di essi (attaccamento insicuro, maltrattamenti entro le relazioni intime, etc.). (cit.., 21) Perciò anche questa componente storica dovrà essere indagata.
L’efficacia e la bontà delle relazioni primarie del soggetto sono determinanti per la capacità non solo di comprendere gli stati mentali altrui, le altrui intenzioni, l’interazione con l’altro; ma anche di acquisire ciò che noi intendiamo con la parola libertà (quindi anche la responsabilità): noi siamo liberi, capaci di governarci, in quanto siamo in grado di pensare il nostro pensiero (i nostri stati mentali, emotivi, le nostre intenzioni – e quelle altrui), ossia di essere pensanti attivi, capaci di distanziamento dai contenuti, e non ‘pensati’. Ma questa è una capacità appresa, trasmessa nella matrice relazionale del nucleo familiare valido, che si rivolge al bambino come a un soggetto autocosciente e intenzionale, pensante, interscambiante. Perciò, è erroneo partire dall’assunto, più o meno consapevolmente posto, che ogni soggetto sia ‘libero’ o consapevole, nel senso predetto. Questo punto andrà, caso per caso, accertato e quantificato.
Segnalo l’esistenza di una Scala di Valutazione delle capacità cui ci stiamo riferendo, elaborata da Carcione e Falcone (cit., 42; 343 ss.), che può essere presa come piattaforma di partenza per elaborare sia una scala specifica ai nostri fini, che un insieme di test e accertamenti da inserire nel protocollo di valutazione della pericolosità.
L’indagine dovrà però estendersi oltre l’assessment delle funzioni e disfunzioni cognitive e metacognitive. Dovrà coprire anche gli schemi dei rapporti interpersonali in corso, i contenuti degli stati problematici associati o preparatori alle offese e, naturalmente, la dimensione organica, la quale andrà a sua volta attraverso un apposito protocollo integrato da appendici di approfondimento corrispondenti alla tipologia e alle ipotesi da verificare o falsificare.
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III – L’IMPATTO SOCIALE E PATOGENO
PERCEZIONE SOCIALE E TUTELA
L’interesse del pubblico per il delitto in generale e, soprattutto, per i delitti atroci, è vivo e stabile. Da secoli esiste un mercato di fiction criminale. Le saghe di Cogne, di Novi Ligure, di Erba, etc., diventano serials mediatici. Si tratta di delitti atroci soprattutto nel senso che trasfigurano la percezione dei rapporti intimi, intrafamiliari, tra genitori e figli soprattutto – li trasfigurano in qualcosa che può essere mostruoso. Fanno emergere alla coscienza, in forme esasperate, demoniache, l’ambivalenza convenzionalmente negata ma sempre inerente a tali rapporti.
In altri scenari, ad agire, a perpetrare il delitto atroce o violento, è il folle, o i terroristi, in una cornice di impotenza o inefficacia o non volontà di prevenire, da parte delle istituzioni preposte a proteggere, reprimere, rassicurare.
Tutti questi impatti convergono nell’indurre un senso di impotenza, di inutilità, di inaffidabilità, di insicurezza, di frustrazione.
Diverse strutture di personalità hanno diverse reazioni allo choc, al trauma, alla frustrazione. Ma vi sono modelli di reazione quantitativamente maggioritari a determinati ‘stimoli’.
Ad esempio, un rimarchevole tipo di condizionamento mediante stimoli è quello scoperto nel 1967 da Martin Seligman, e da lui denominato “learned helplessness”, ossia “senso di impotenza appreso”, o “rassegnazione appresa”, che in laboratorio può essere prodotto come segue: si prende un cane, lo si mette in una cassa col pavimento metallico, lo si blocca nei movimenti e gli si somministra scariche elettriche. Il cane tenta di scappare, ma non può farlo. Poi lo si scioglie in modo che possa uscire dalla cassa, e gli si somministra altre scariche elettriche. Il cane abbozza una fuga, poi rinuncia e rimane a prendere le altre scosse, guaendo di dolore. Ha imparato a reputare i propri sforzi come inutili, a ritenersi impotente, senza via di uscita rispetto al male.
La medesima cosa che avviene coi cani, avviene con l’uomo, il quale, sottoposto a consimili trattamenti, sviluppa, come il cane, una sindrome depressiva – lo fanno due soggetti su tre, grosso modo, perché uno su tre è refrattario. Il fattore più importante affinché si produca la rassegnazione appresa, è che il soggetto si senta impotente a intervenire sullo stimolo tormentoso, e che sperimenti l’arrivo di detto stimolo, ogni volta, come casuale, imprevedibile, arbitrario. Per contro, il fattore più efficace per impedire che si sviluppi questa forma di rassegnazione e depressione apprese, è la capacità di comprendere quanto sta avvenendo. Ovvio quindi arguire da ciò, che i minori, i bambini, siano altamente vulnerabili a tale tipo di condizionamento.
Seligman dimostrò la possibilità di indurre una learned helplessness negli esseri umani mediante il seguente esperimento. Mise alcuni giovani in una stanza in cui un apparecchio apparentemente difettoso emetteva un suono sgradevole. I ragazzi provarono a girare le manopole e a premere i bottoni, ma senza risultato – perché essi erano scollegati. Poi vennero trasferiti in un’altra stanza, dove un altro apparecchio emetteva analogo rumore, ma era possibile farlo smettere azionando i comandi. Ebbene, i giovani neppure tentarono di farlo.
Learned helplessness is a motivational problem where one might have failed in a task or two in the past which have made that individual believe that they are incapable to do anything in order to improve their performance in that task(s) (Stipek, 1988). This is detrimental to children’s development throughout life if it is not fixed appropriately. If humans feel as though they can not control their environment, this lack of control will impair learning in certain situations (Ramirez, Maldonado, & Martos, 1992).
I soggetti colpiti da questa sindrome saranno meno reattivi, meno autonomi, più dipendenti, più remissivi, perciò più politicamente gestibili.
Il fare in gruppo l’esperienza del trauma inevitabile, frustrante, aumenta l’effetto e lo trasforma in forma mentis condivisa. La passività, l’inerzia, diverrà un tratto culturale collettivo, trasmesso dai genitori, dal gruppo sociale di appartenenza e dalla scuola.
La sindrome in questione si sviluppa a anche fuori del laboratorio, nella società, soprattutto in istituzioni molto ‘bloccanti’ per la libertà di reazione dell’individuo, come l’esercito, la prigione, la scuola, i conventi, le sette; nelle comunità, nei rapporti personali molto stretti, dipendenti. Insegnare, o inculcare, la rassegnazione è fondamentale per l’istituzione di forti e saldi rapporti gerarchici introiettati, in molti ambiti, non escluso quello coniugale. Di ciò mi sono occupato approfonditamente, assieme al prof. Paolo Cioni di Firenze, in un nostro libro, in via di edizione, dal titolo Neuroschiavi.
Ma la rassegnazione indotta viene prodotta anche nella società generale, e produrla è un atto politico molto importante, sia nelle società autoritarie, che in quelle democratiche.
Intenzionale o non che sia, probabilmente basata sulla shock doctrine, è in corso una gigantesca campagna mediatica che inculca il senso di impotenza, che assuefa a sentirsi impotenti, e insieme desensibilizza alla violenza, spenge gradualmente la reattività emotiva. Essa consiste nel bombardamento di immagini e notizie di assassinii, stragi, eccidii, distruzioni, brutalità di ogni sorta, compiute dall’uomo sull’uomo, dai governi sui popoli, senza che avvenga alcun intervento per porvi fine, che non sia esso stesso ulteriore brutalità ed eccidio. Impatti emotivi di tale tipo generalmente producono, sul momento, decognizione, quindi minor capacità di elaborazione, di valutazione, di contestualizzazione dello stimolo. I canali di comunicazione, notoriamente, apportano oggi e sempre più tali stimoli ai minori in modo diretto, per il tramite della televisione, di internet, etc., senza filtro parentale.
In Italia, specificamente, abbiamo
-una serie di scelte politiche perlopiù omissive (95% di reati impuniti),
-una perenne campagna di informazione insieme traumatizzante (immagini e racconti atroci somministrati continuamente alla gente) e inibente, criminalizzante nei confronti dell’’istinto’ di autodifesa,
-un uso del termine “microcriminalità” per definire reati socialmente gravissimi come rapine, furti e scippi, la gente sta venendo assuefatta ad accettare passivamente (o delegando a soggetti inerti) l’illegalità, il degrado, il crimine, l’insicurezza del territorio, lo spadroneggiare di bande, l’immigrazione selvaggia, come inevitabili.
Criminali arrestati e sistematicamente liberati poco dopo; condannati che escono con permessi, condoni e amnistie, e recidivano; internati dimessi che uccidono; espulsioni di extracomunitari pericolosi mai eseguite, e, se eseguite, vanificate dal pronto rientro degli espulsi. Microcriminalità presentata come espressione di debolezza sociale dei criminali, anziché come fatto che colpisce soprattutto le persone delle classi più deboli, che non hanno scorte armate, vetture blindate, case sorvegliate, possibilità di trasferirsi. Educazione, condizionamento, alla rassegnazione, alla passività.
La quasi certezza dell’impunità, e anzi la quasi certezza di poter delinquere sotto gli occhi della polizia senza essere fermati, in contrasto alla generalità degli altri paesi europei, fa dell’Italia una ambita meta dell’immigrazione criminale; mentre le pessime prospettive di sviluppo economico, l’inefficiente amministrazione, le cattive infrastrutture e il gravosissimo fisco dell’Italia scoraggiano l’immigrazione sana di chi ha capacità e capitali da investire; questi avrà oggettivo interesse ad emigrare altrove.
Pensiamo a Padova, alla zona di Via Anelli (ma in Italia vi sono centinaia e centinaia di situazioni analoghe), dove la gente, dalle istituzioni, è tenuta esposta, contemporaneamente, a una criminalità offensiva, pericolosa, degradante, che priva della libertà di godere del proprio territorio urbano, che fa sentire in ansia mentre ci si muovo per il proprio quartiere – e insieme è tenuta esposta all’inerzia, all’indifferenza, alla sistematica, volontaria omissione della repressione di questa criminalità, da parte di forze dell’ordine e magistrati. I delitti, innanzitutto lo spaccio di droga, sono perpetrati apertamente, continuamente, visibilmente, filmabilmente – perché quindi le istituzioni non intervengono? Sarebbe tanto facile quanto doveroso. Quindi questa omissione non può essere dovuta a inefficienza o al caso, perché le forze dell’ordine si prodigano per proteggere, per fare la scorta, ai personaggi istituzionali nei loro spostamenti e nelle loro dimore, o per ‘ripulire’ determinate aree in occasione di visite di capi di stato, o di G8 e simili. Tale omissione non può che essere intenzionale e finalizzata – al produrre nella popolazione generale una disposizione di remissività, passività, rinuncia alla stessa idea di avere diritti.
Il 21 Gennaio scorso, a Canale Italia, il Questore di Padova, interrogato sulla criminalità, soprattutto importata (il 65% degli arrestati a Padova sono stranieri) che occupa il territorio urbano e lo toglie alla normale vita dei cittadini, evitava sistematicamente di rispondere sul piano della concrete iniziative di ordine pubblico, del quale il Questore è il responsabile; e al contempo, contro l’evidenza, negava che in Italia esistano zone franche per la delinquenza, mentre, come tutta risposta a chi si lamentava dell’insicurezza di certe aree, come le stazioni ferroviarie, replicava che i cittadini devono farsi coraggio ed avventurarsi in esse nonostante la presenza criminale – suonava proprio come un invito ad arrangiarsi.
Il suo ministro, Giuliano Amato, non è che non sapesse che, coll’ingresso della Romania nell’Unione Europea, milioni di zingari rumeni si sarebbero riversati a Occidente; non è che non sapesse di ciò che tale massiccia immigrazione avrebbe comportato per l’ordine pubblico; non è che la sua scelta di non porre, come gli altri ministri degli interni dell’UE ponevano, una moratoria all’ingresso dei rumeni, fosse accidentale. Dopo l’atroce delitto di Giovanna Ferrari, Amato dichiarò che la sua sarebbe stata una svista – ma coi suoi colleghi europei ne aveva parlato, la Polizia lo aveva avvisato. La sua fu una scelta consapevole, informata. Quindi la giustificazione addotta non è credibile.
Tutti sappiamo che, nel mondo reale, è tutt’altro che garantito che i comportamenti dei politici e degli amministratori siano conformi a leggi piuttosto che a interessi di parte.
Ciò ricordato, e pur non potendo leggere nella mente degli interessati, ritengo probabile che questo sistema apparentemente inefficiente o tollerante di incuria per l’ordine pubblico miri, da un lato, a procurare delitti atroci e di grande richiamo per le masse, che costituiscano un efficace diversivo dell’interesse popolare rispetto ai delitti dei politici; e dall’altro a far rassegnare i cittadini a subire soprusi e illegalità a largo spettro, ossia anche da parte della c.d casta politica e burocratica, a far perdere loro il senso di avere dei diritti politici, civili, alla sicurezza. Lo scopo di tutto questo? Consolidare il potere, a dispetto dell’inefficienza e dell’immoralità, oramai conclamata, della classe dirigente, della casta – vedasi il profluvio di libri di denuncia e analisi, che vendono assai, proprio in questi mesi.
Inoltre dobbiamo considerare l’importante effetto diversivo che hanno i delitti atroci sull’attenzione dei mass media e delle masse, rispetto ad altri tipi di delitti.
Per resistere ai pericoli derivanti dalla sua messa a nudo, dalla sua delegittimazione, dalle ripercussioni della sua inefficienza, la nostra Casta, l’establishment, ricorre anche a queste pratiche. La mancata moratoria all’ingresso degli zingari rumeni è una di queste misure di autotutela del sistema politico italiano in un periodo in cui l’opinione pubblica gli si rivolta contro. Il divieto di rimpatrio forzato dei criminali stranieri, accertati tali, qualora siano omosessuali e l’omosessualità sia perseguita nel loro paese, è pure su questa linea.
L’impatto sociale patogeno, psicopatogeno e sociopatogeno, del crimine violento, dall’età della formazione in poi, è una risorsa, per il potere reale. Come le persone si abituano, si adattano, finiscono per accettare che ci sono sempre nuove zone dove non si può circolare di giorno o di notte, dove non si possono mandare o lasciare i bambini, analogamente esse si abituano, si adattano, finiscono per accettare che ci sono sempre nuove tasse, inefficienze, imposizioni, rincari, prescrizioni amministrative, anche se queste sono percepite come abusive, ingiustificate, non diversamente dalla criminalità.
Inoltre, il vivere prolungatamente, cronicamente, in una situazione ambientale di insicurezza, di allarme, di apprensione se non di ansia e paura, snerva le persone e le priva della capacità di reagire adeguatamente, di difendersi, le rende più cedevoli e sfiduciate, passive.
Per tutte queste ragioni, non è razionale aspettarsi alcun serio intervento a tutela della popolazione in generale e ancor più dei minori, contro la criminalità in generale, e soprattutto contro il crimine violento e altresì contro l’abuso mediatico di esso. C’è piuttosto ragione di aspettarsi un aggravarsi di questa piaga, e ciò anche in base alle statistiche criminologiche, che, come tutti saprete, mostrano che gli immigrati col maggior tasso di criminalità non sono quelli della prima generazione – quelli con cui stiamo facendo i conti – ma quelli della seconda e della terza; e ciò perché quelli della prima sono ancora legati a un codice etico e a un’identità culturale (quelli del paese di provenienza), mentre quelli delle successive generazioni hanno perduto il codice etico e l’identità dei padri, non hanno ancora assimilato quelli del paese ospitante, e, in questo paese, si sentono diversi, non integrati, talora discriminati; e ciò fomenta in loro sentimenti e comportamenti aggressivi, di rivalsa e di vendetta.
Febbraio 2008