LIVELLI E FATTORI DECISIONALI
Molti mi criticano dicendo che dovrei occuparmi non solo di teoria e analisi del sistema, soprattutto monetario e bancario, ma anche di proposte concrete per un cambiamento che porti alla tutela degli interessi della collettività, della popolazione generale, anziché delle élites. Questo articolo inizia a spiegare le cause per le quali movimenti popolari efficaci in questo senso non possono venire in essere, sicché non ha senso logico impegnarsi per proporli, suscitarli, appoggiarli. A meno che non sia un modo per scaricarsi il fegato. O per raggiungere altri fini, contrari a quelli dichiarati.
Le singole persone, perlopiù, si curano ciò che è semplice e di immediato loro personale interesse, e non sono interessate ad apprendere e capire le cose di interesse collettivo – cose di legge, di tecnica, di economia – soprattutto quando per apprenderle e capirle c’è da impegnarsi con metodo e durar fatica. Ma anche quando apprendono e capiscono, non ritengono. E posto che ritengano, non mettono in pratica. E, se alcune mettono in pratica, non perseverano. E se anche perseverano, non si coordinano tra loro. E quand’anche si coordinino, poi si dividono in fazioni che perseguono fini divergenti e rivalse interne. E anche ammesso che, per un certo tempo, non si dividano, e che riescano a cambiare l’ordinamento, come avviene nelle rivoluzioni popolari, poi finisce che al potere vanno dittatori che tutto fanno, fuor che l’interesse del popolo che hanno cavalcato, e che fan presto rimpiangere il precedente regime. Il comportamento popolare non è, inoltre, mai razionale. E non mi riferisco tanto alla razionalità limitata o interferita da distorsioni cognitive dei comportamenti utilitari ispirati dal principio dell’utilità attesa (modello liberale-illuminista-cartesiano), indagata e sperimentalmente dimostrata da autori come Tversky e Kahneman, quanto alla molto più politicamente decisiva irrazionalità emotiva, indagata e sperimentalmente dimostrata da scienziati come Antonio Damasio e Drew Westen: le elezioni, non sono vinte coi programmi e le dimostrazioni, ma manipolando le emozioni viscerali per ottenere comportamenti non logici. Per tali cause, mai dal basso, ossia dalla consapevolezza e dalla volontà dei singoli, si è formato un movimento democratico e consapevole in grado di correggere le cose per l’interesse generale. Ma tutto questo è palese, se si è disposti a guardare. Quindi guardiamo dentro le cose. Guardiamo come funzionano.
Senatores boni viri, senatus mala bestia. Il senato, cioè il gruppo, non solo perde, rispetto ai singoli senatori, la qualità di “buono”, divenendo “malo”, ma perde anche la qualità più profonda, quella umana, assumendo quella di “bestia”, ossia diviene sub-umano. Quest’antica massima esprime una profonda e pratica realtà psicosociale: il comportamento sociale, gruppale, aggregato, non ha le caratteristiche (l’ordinatezza, la ragionevolezza, la moralità) dei singoli componenti del gruppo, della società. Il comportamento dell’insieme di molte persone intelligenti, non è intelligente. Pensiamo a un’aula universitaria in cui scoppi un incendio: gli studenti, tutte persone abbastanza intelligenti e consapevoli, si accalcano all’uscita e la intasano, sicché la fuga viene rallentata. Il comportamento intelligente sarebbe, invece, che uscissero a due o a tre – quanti ne passano per la porta alla volta. In tal modo si avrebbe la massima rapidità di deflusso. Pensiamo a un banco di merluzzi vicino a un’isola di pescatori. Ogni singolo pescatore sa che è interesse comune non pescare più merluzzi di quanti ne nascono, altrimenti il banco si estingue. Ma, in simili situazioni, se non vi è un regolatore esterno e dotato di potere persuasivo-repressivo, si nota che ciascun pescatore si precipita a pescare quanti più merluzzi possibile, perché si aspetta che ciascun altro pescatore faccia altrettanto, e che quindi il banco si estinguerà presto. Questa mutua aspettativa porta, in effetti, al rapido esaurimento del banco, cioè di una risorsa rinnovabile, con un forte danno per la collettività.
Per impedire che il comportamento collettivo e dei singoli, nella sua irrazionalità e competitività, produca eccessivi danni, l’organizzarsi della società in ordinamento giuridico istituisce poteri di regolamentazione, condizionamento (educazione, propaganda) e repressione, che operano sia come freni e barriere, sia, quando occorre, come incitatori all’azione di massa. Il corpo sociale ha necessità che qualcuno eserciti su di esso tali poteri di corodinamento-contenimento, per non agire in modo disfunzionale e autodistruttivo. Peraltro, come abbiamo ampiamente illustrato in Neuroschiavi, la psiche dei singoli è essa stessa tanto incoerente e irrazionale, nella quasi totalità della popolazione, che il potere politico non può che essere autocratico, coercitivo e manipolatorio. E chi detiene questi poteri li usa innanzitutto nell’interesse suo proprio, e solo subordinatamente e strumentalmente per il fine (legittimante) a cui dichiaratamente gli sono stati conferiti, o da sé li ha assunti. Perciò questo soggetto si trova in un conflitto essenziale di interesse con i governati, e al contempo è funzionalmente indispensabile ad essi. Funzionalità e conflitto, le due principali prospettive della sociologia, sovente viste come contrapposte, sono invece i due aspetti della medesima realtà: il corpo sociale si organizza attraverso differenziazione delle funzioni-specializzazioni, la quale produce stratificazione di conoscenza, potere e ricchezza, quindi conflitto di interessi; lo stesso camuffare il conflitto di interessi onde prevenire lo scontro sociale (di classe), è una delle funzioni fondamentali dell’organismo sociale, che mantiene la credibilità e l’apparente legittimazione dei poteri di cui esso ha bisogno e che in ogni caso genera.
A cagione del conflitto di interesse del soggetto detentore di quel potere rispetto alla collettività, l’azione di questi, ai fini del bene collettivo, è sempre meno o molto meno efficiente di quanto potrebbe essere; ma è pur sempre utile, sinché non degenera fino a divenire, come nell’Italia odierna, pura attività di parassitismo e sfruttamento di una casta senza efficacia di gestione e totalmente protesa a perpetuare se stessa e ad ampliare le proprie rendite di posizione a spese della componente produttiva.
Abbiamo detto di come le qualità delle singole persone non si traducono affatto in comportamenti collettivi aventi medesime qualità delle persone. Vi è una discontinuità o eterogeneità qualitativa, un gestaltismo inverso: il comportamento dell’insieme ha proprietà di “ordine” (efficacia, consapevolezza) inferiori a quelle delle competenze individuali, perché i comportamenti individuali, nel gruppo, non si coordinano tra di loro in modo da ottimizzare l’efficacia, e sovente si contrastano nel competere; inoltre i singoli, agendo in gruppo, perdono le capacità logiche ed etiche (senatus mala bestia). Affinché si produca un coordinamento efficace del comportamento di più soggetti, piuttostoché caos e competizione, non basta che ciascuno di essi sappia o possa capire e figurarsi come essi avrebbero convenienza a coordinare i loro rispettivi comportamenti. Quindi il diffondere la conoscenza di tale convenienza non è idoneo a produrre quel coordinamento. Non è idoneo, né indispensabile, perché il coordinamento può essere prodotto anche senza consapevolezza dei singoli dall’azione di un potere che li comanda. Inutile, ossia inefficace, ai fini del produrre il coordinamento, è il diffondere la consapevolezza (dei conflitti di interesse verticali, dei conflitti di classe): per quanto si moltiplichi il numero o la percentuale delle consapevolezze individuali, non ne nascerà mai un’azione di massa auto-coordinata, dal basso. Al più si otterrà l’effetto di creare il presupposto per un’azione di masse guidata e strumentalizzata da un coordinamento insurrezionale – cioè dall’alto. Così, infatti, dalla rivoluzione sovietica e da tutte le rivoluzioni in cui le masse agivano spinte dalla coscienza di un conflitto di classe, sotto la guida di un’élite politica rivoluzionaria, sortirono regimi in cui l’élite partitica era proprietaria assoluta dello Stato stesso, cioè regimi ancora più classistici ed elitistici di quelli che essi sostituivano. Come diceva Talleyrand, il popolo è come certe medicine: lo si deve agitare prima dell’uso. Intuizione confermata dalla recente, e già citata, ricerca delle neuroscienze e della psicologia sociale: le campagne elettorali, le battaglie politiche, si vincono con la capacità di suscitare emozioni irrazionali, non mediante informazioni corrette e proposte razionali (Drew Westen). Le emozioni instillate, coltivate e direzionate coordinano il popolo nell’azione di massa, violenta o non violenta. Chi vuole essere eletto in base a un’informazione corretta e a programmi razionali, rinunciando per principio alla manipolazione dell’elettorato, perde. Non si può vincere, non si può ottenere legittimazione popolare, se non con la manipolazione e la propaganda disonesta. Magari si possono avere fini nobili e altruistici, ma per avere il consenso bisogna ingannare e manipolare. Questa la conclusione pratica dei citati studi.
Ma, per riprendere il tema delle suddette discontinuità tra i vari livelli, e tralasciando la specificità del rapporto a due e di coppia rispetto al rapporto a più di due, possiamo riconoscere e descrivere ulteriori discontinuità qualitative di questo tipo – direi cinque, che denominerò, un poco arbitrariamente, come segue: la discontinuità pubblica, la discontinuità empatica, la discontinuità emotiva, la discontinuità contabile, la discontinuità dominativa. Ciascun tipo ha suoi fattori motivazionali (motivatori), peculiari e diversi da quelli degli altri tipi; cosicché è fallace cercare di interpretare o correggere il comportamento di un tipo in base ai motivatori efficaci per un altro tipo. Possiamo accumulare una grande quantità di un motivatore valido su un certo piano, ma, per quanto accumuliamo, non otterremo un fattore attivo su un altro piano, oppure otterremo qualcosa, ma di segno e direzione diversa rispetto al piano sottostante. Così come possiamo mettere insieme moltissimi buoi adatti per tirare l’aratro, ma non otterremo da essi nemmeno una goccia di latte.
Definisco “discontinuità pubblica” il fatto che, mediamente, una persona comunica e interagisce in modo informale e spontaneo entro gruppi fino a 7 membri; oltre tale numero di componenti, assume le formalità e autocontrollo tipiche del rapporto col pubblico, cioè parla e si atteggia in modo studiato e finalizzato.
Definisco “discontinuità empatica” il fatto che, mediamente, una persona prova empatia, ed è quindi regolata nei propri comportamenti non solo dal proprio interesse, ma pure da empatia, solidarietà, senso di responsabilità, affettività verso gli altri membri del gruppo in cui è inserita, se il gruppo non supera le 30 persone. In ambiti sociali più larghi, in cui non prevale il rapporto interpersonale diretto, e soprattutto nelle grandi organizzazioni formali, l’empatia non è efficace come regolatore degli egoismi, degli opportunismi, della competizione. Per tale ragione, sono infondate le proposte di alcuni contemporanei autori, come Lakoff e Rifkin, che preconizzano un ordinamento sociale fondato sull’empatia. L’empatia può regolare i rapporti solo entro una cerchia di amici, o di membri di un’associazione assai attiva e partecipata, o di un gruppo sociale primario – ma sempre con l’avvertenza che l’empatia può anche essere inversa, ossia non amichevole, ma ostile: antipatia, inimicizia, piacere nel vedere l’altro umiliato, isolato, punito, perdente. La possibilità della funzione empatica, insomma, non è affatto garanzia che il gruppo in questione sviluppi automaticamente un’empatia amichevole e solidale. Vale invece come indicazione di investire impegno e aspettative di un certo tipo in gruppi contenuti entro il limite dimensionale di 20-30 persone.
Definisco “discontinuità emotiva” il fatto che le emozioni (ideali, coscienza morale, sensi di colpa, amore, odio, paura, valori etici ed estetici, norme religiose) vivono e agiscono solo nella psiche delle singole persone concrete, influenzando talora in modo anche estremo (fino al sacrificio della vita per la patria o i figli o la scienza), le loro scelte; mentre, al contrario, esse non sono ovviamente percepite da soggetti impersonali, ossia dalle organizzazioni formali, come società commerciali, banche, assicurazioni, società commerciali, religioni organizzate, sindacati, partiti politici; perciò è fallace affermare che il comportamento “immorale” (rectius: a-morale) (contrario agli interessi collettivi e al bene dei singoli) dell’economia o della finanza o del capitalismo o della politica sia dovuto alla perdita di valori etici da parte dei singoli, e che un recupero di tali valori e sensibilità da parte dei singoli potrebbe correggere il sistema (in questo senso, è errata la lettura e la proposta dell’enciclica Caritas in Veritate). Fallace è pensare di rieducare la popolazione generale, o gli imprenditori, i politici, i banchieri, ai “valori”. Fallace è progettare di costituire movimenti politici basati su di essi, o sui rapporti e gli affetti umani, solidali, empatici. Fallace è affidare istanze ideali ed etiche interiori a soggetti come partiti politici, chiese, grandi organizzazioni. Fallace e pensare che un piccolo gruppo attivista empaticamente ed eticamente motivato possa crescere a movimento politico mantenendo il suo motivatore empatico ed etico: il movimento politico comprende sempre, per funzionare quindi per esistere, una gerarchia, i cui capi sviluppano interessi propri (diventano un gruppo di interesse organizzato) e adottano i criteri decisionali quantitativi, di cui sotto, dato che col denaro che ricavano dalla loro azione politica possono pagarsi i sostegni interni ed esterni per andare e restare al potere.
Definisco “discontinuità contabile” il fatto che i gruppi di interesse organizzati, e soprattutto i grandi soggetti decisori e operatori, a livello nazionale e globale, ossia le grandi organizzazioni imprenditoriali – banche, finanziarie, grandi industrie, che prendono le decisioni più condizionanti, più strutturanti per la vita sociale – hanno processi decisionali formalizzati, e guidati dal perseguimento del massimo profitto contabile, monetario, numerico, matematico. Tra le varie opzioni, adottano quella più profittevole in questi termini contabili. Emozioni (ideali, coscienza morale, valori, dignità dell’uomo, vita, libertà, amore, odio, paure, ricordi, etica) semplicemente non entrano nel processo decisionale, come non entra tutto ciò che non sia valore di scambio, che non sia contabilizzabile, traducibile in numero, trasformabile in denaro. Uno slogan di un partitino comunista enuncia: “La nostra vita vale più dei loro profitti”. Verissimo: per noi, la nostra vita vale più dei profitti delle multinazionali. Ma per le multinazionali e i loro processi decisionali contabilizzati la vita, come tale, non è un valore, non entra in contabilità. Non è nemmeno questione di più o di meno. Non entrano in essa, insomma, i valori qualitativi e non scambiabili, la fruizione diretta di beni, le bellezze naturali e artistiche, l’ordine pubblico, la sanità pubblica. Neanche l’assetto ambientale entra – quindi l’economia degli scambi non si cura, se non incidentalmente e strumentalmente, del supposto biologico dei suoi operatori, e può comprometterlo. Oppure quei valori vi entrano in modo distorto, mercificato, ossia tale da tradurli in numeri appostabili in bilancio, e con peso inversamente proporzionale alla loro distanza nel tempo a venire: ossia un profitto di 10 in tre anni pesa molto più, decisionalmente, del danno di 100 fra 20 anni che esso comporta. Meglio un uovo oggi che una gallina domani. Perché il processo decisionale è una gara tra business plans – e chiunque abbia analizzato un business plan capisce al volo questo concetto: la scelta risulta dal confronto tra grandezze quantitative, cioè numeriche, cioè pecuniarie. Le grandezze monetarie si rapportano solamente alla grandezza temporale, al fattore tempo – un altro fattore quantitativo e monetizzabile, sotto forma di interessi e ammortamenti.
Definisco “discontinuità dominativa”, infine, il fatto che, ad altissimi livelli di ricchezza e potere sui mercati (cioè di influenzare e dirigere i mercati) e sulla politica, i massimi operatori politico-economici mondiali non perseguono come fine primario il profitto contabile, ma il dominio stesso sulla società (ora, sulla società globalizzata), la radicalizzazione di esso, la sua stabilizzazione, la preservazione del suo oggetto, cioè della biosfera. A questo livello, che trascende i criteri decisionali del livello contabile, si può dunque anche deliberare ed eseguire la distruzione di ricchezza (reale o finanziaria) al fine di stabilizzare il sistema (ad es. distruggendo ricchezza finanziaria in eccesso) e di migliorare od estendere il dominio, eliminando oppositori e resistenze. Oppure si può deliberare e produrre una recessione economica globale al fine di salvare la Terra dall’inquinamento e dall’esaurimento delle risorse limitate. Questo è dunque il livello motivazionale da cui può nascere una tutela ecologica contro l’interesse dell’economia predatoria e la logica della massimizzazione del profitto.
Faccio notare che è da quest’ultimo livello, che si sarebbe dovuta iniziare l’esposizione delle discontinuità, perché questo livello è il livello più alto, e struttura, a caduta, il contesto in cui operano i soggetti degli altri livelli.
Ora, per completare la risposta a chi mi rimprovera di non impegnarmi o di non fare proposte per un cambiamento sociale attraverso l’informazione e la mobilitazione popolare, non mi resta che da osservare, in primo luogo, che vi sono sempre stati sia i teorici che i pratici, e che nessuno è tenuto ad esser sia l’uno che l’altro; e, in secondo luogo, che chi vuole fare il pratico, ossia mettersi a spiegare al popolo il signoraggio privato etc. al fine di smuovere il popolo a ribellarsi, bisogna che abbia molto tempo da perdere, perché, anche se la popolazione generale lo ascoltasse, lo capisse, e ricordasse – anche se, quindi, si diffondesse la conoscenza popolare di queste cose, non ne sortirebbe affatto il desiderato mutamento di sistema, ossia la sovranità monetaria popolare, perché l’accumulo di informazione o infarinatura popolare è incapace, qualitativamente, di produrre mutamenti sistemici. Al più, creerà le condizioni politiche (ossia, produrrà consenso elettorale o persino motivazione allo scontro sociale anche rivoluzionario) perché una forza politica, promettendo di voler attuare la sovranità monetaria popolare ponendo fine a quella privata, adoperi il consenso popolare per prendere, in tutto o in parte, la sovranità monetaria a favore dei propri capi. Così come l’accumulo di informazione sul conflitto di classe portò in Russia a una rivoluzione che confermò il sistema classista, cambiandone soltanto i beneficiari e le etichette.
L’accumulo di informazione e sensibilizzazione popolare sui temi ecologici, iniziato circa 40 anni fa, e ampiamente riuscito a livello di base, non ha affatto corretto il processo di inquinamento e di esaurimento delle risorse da parte dell’industria – perché i valori ambientali non entrano, per loro natura, nella contabilità delle società industriali, che prendono le decisioni e dirigono lo sviluppo, né in quelle dei partiti politici, che fanno accettare tali esigenze alle popolazioni. La gente, sebbene informata e sensibilizzata, ha continuato a comperare prodotti inquinanti, a lavorare per l’industria inquinante, a investire i azioni e obbligazioni dell’industria inquinante. La campagna di informazione e sensibilizzazione ha però avuto un notevole e diverso effetto: ha reso la popolazione disponibile a pagare di più per tasse ecologiche, tariffe ecologiche, prodotti e servizi ecologici o supposti tali (infatti alcuni hanno un effetto ecologico dubbio, altri negativo, come le marmitte catalitiche e i pannelli solari); l’ha resa elettoralmente guidabile mediante promesse e allarmi ecologici; l’ha resa favorevole a massicce spese di denaro pubblico in riferimento all’ecologia – ha insomma creato le condizioni per un vasto business “ecologico” che, esso sì, entra, con le sue somme, nella contabilità dei grandi soggetti industriali e finanziari che prendono le grandi decisioni.