SILVIO B. NELLE CAMERE ARDENTI: PER UN’ASSEMBLEA COSTITUENTE, FEDERALE E FEDERANTE
Col Porcellum e con il “tradimento” futurista, l’establishment italiano ha creato una trappola da cui rischia fortemente di non poter uscire senza una violazione conclamata delle regole fondamentali di legittimità costituzionale e democratica. La partitocrazia, la classe politica, è degenerata al punto che non riesce più non solo a tenere a galla il sistema-paese, o a far sparire le immondizie di Napoli, ma nemmeno a mantenere la finzione di legalità.
La Costituzione non contiene una procedura per le crisi di governo. Poco si ricava dagli articoli 88, 1° comma («Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere, o anche una di esse.») e 92, 2° comma («Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri»). Si aggiunge l’art. 89, in base al quale il decreto di scioglimento delle Camere, per essere valido, deve essere controfirmato dal Presidente del Consiglio dei ministri. Quindi il Presidente della Repubblica è tenuto soltanto a consultare i Presidenti delle Camere. Per il resto è libero: può rimandare il Presidente del Consiglio dei ministri avanti alle Camere per un nuovo voto di fiducia, può nominare un altro e mandare questo davanti alla Camere. Può sciogliere ambedue le Camere o una sola a sua discrezione, tranne che, in ogni caso, il decreto di scioglimento è efficace solo se controfirmato dal Presidente del Consiglio dei ministri. Se però questi si oppone e non firma, il Presidente della Repubblica può nominare un altro Presidente del Consiglio dei ministri e farsi controfirmare il decreto di scioglimento da lui. Quindi, se B. rifiutasse la controfirma, N. nominerebbe un suo fido al suo posto, che, incassata la sfiducia delle Camere, controfirmerebbe lo scioglimento e poi gestirebbe le elezioni. Però N. potrebbe nominare il suo fido in ogni caso, al fine che a gestire le elezioni sia quest’ultimo, e non B. Chi gestirà le elezioni gestirà anche molte opportunità di influenzare il risultato mediante le irregolarità che abbiamo già visto regolarmente all’opera nelle operazioni elettorali. Quindi ciò, in una situazione di sostanziale parità, può far vincere l’una o l’altra fazione politica.
Dall’altra parte abbiamo una legge elettorale che fa scegliere al popolo non solo la coalizione che vince, ma anche il “capo” di questa coalizione. Non il “capo del governo”, ma il capo dello schieramento che esprime il capo del governo. Questa dizione fu imposta da Ciampi per impedire che si togliesse formalmente al Presidente della Repubblica la facoltà di scegliere discrezionalmente il capo del governo (art. 88). Però il popolo, oramai, quando vota per una coalizione e per il suo capo, percepisce di eleggere il capo del governo, non soltanto il capo della maggioranza. Percepisce che sta esercitando la sua sovranità politica e democratica, che è il principio fondamentale della Repubblica (art. 1 Cost.). N. si arrischierà a togliere questo potere dalle mani del popolo, nominando un nuovo capo del governo senza passare per le urne? Si arrischierà a metter su un governo dei vinti (di coloro che non hanno avuto il voto democratico) per cambiare la legge elettorale, ossia le regole del gioco? Il principio sostanziale della scelta popolare del capo del governo esprime direttamente la volontà popolare e democratica, quindi eluderlo mettendo su un governo dei non eletti dal popolo sarebbe un vero e proprio colpo di stato sostanziale, che delegittimerebbe – rispetto al principio democratico, sia pur non rispetto alla Costituzione formale – lo stesso N., dando a B. un’irresistibile arma contro di lui e i partiti da lui coalizzati.
Per converso, sciogliere le direttamente camere e andare ad elezioni anticipate, sebbene vi possa essere una maggioranza alternativa, sarebbe legittimo secondo la lettera della Costituzione, ma contrario alla consolidata prassi applicativa della medesima, secondo cui il Presidente della Repubblica cerca in parlamento nuove possibili maggioranze, prima di scioglierlo. Inoltre, i sondaggi prevedono che, da elezioni anticipate con l’attuale legge elettorale, non sortirebbe una maggioranza parlamentare. Quindi questo sarebbe un vicolo cieco che produrrebbe una situazione assai nociva e pericolosa per il paese.
Sciogliere sola la Camera bassa, dato che è solo in questa che B. non ha o non avrà la fiducia, è opzione giuridicamente possibile, ma è improbabile che venga adottata, anche perché non è affatto certo, in base ai sondaggi, che dalle urne uscirebbe una Camera con una maggioranza effettiva e omogenea a quella del Senato.
Tirando le somme, non vi è una possibilità di soluzione dell’attuale crisi politico-costituzionale che rispetti insieme la Costituzione formale e il principio fondamentale della medesima.
Come uscire da questo vicolo cieco in modo non palesemente illegittimo e golpistico?
B. ha escluso l’accoglimento del Diktat di Fini (dimissioni di B. e nuovo governo con programma gradito a Fini); ma forse, secondo qualcuno, in cambio di una sistemazione dei suoi problemi giudiziari, B. potrebbe accondiscendere.
Una seconda via d’uscita sarebbe la morte di B, spontanea o no; oppure il suo arresto, o la sua fuga all’estero per sottrarsi all’arresto; o la sua rinuncia alla politica in cambio della fine della sua persecuzione giudiziaria: ciascuno di questi fatti potrebbe consentire una maggioranza definita in esito ad elezioni anticipate.
Una terza via d’uscita sarebbe la prosecuzione fino a termine dell’attuale governo, fra tre anni, quando le elezioni potrebbero fruttare una maggioranza funzionante.
Una quarta possibilità sarebbe che la Corte Costituzionale dichiarasse l’incostituzionalità dell’attuale legge elettorale nella parte in cui consente ai segretari dei partiti politici di nominare i parlamentari (in barba alla sovranità popolare – art. 1 Cost.) e al contempo li sottopone a un vincolo di mandato (in barba all’art. 67 Cost.). In tal modo la corte non solo imporrebbe al governo e al Parlamento di mutare la legge elettorale, ma detterebbe anche i principi della riforma, così da superare la diversità di indirizzi tra le forze politiche in questa materia. Inoltre, dato che la sentenza della Consulta affermerebbe l’illegittimità costituzionale delle ultime elezioni, imporrebbe di sciogliere subito le Camere e di andare al voto per avere un Parlamento costituzionalmente legittimo. Modificare la legge elettorale senza un siffatto intervento della Corte Costituzionale non pare una via percorribile: i partiti hanno progetti molto diversi, sicché un accordo per la riforma sarebbe improbabile; e una riforma formulata al fine di trombare B. sarebbe un golpe e come tale riconoscibile; ma soprattutto un sistema elettorale proporzionale e in ogni caso che togliesse il principio che è il popolo a scegliere premier e maggioranza porterebbe, oggi più che nella prima repubblica, a una situazione totalmente partitocratica e instabile. Infatti, nella prima repubblica c’era un partito egemone, la DC, che assicurava una continuità di linea politica e di composizione delle maggioranze, di cui era sempre l’asse portante, pur nella successione dei governi, che duravano mediamente 6 mesi. Ma oggi, non essendoci più un partito egemone, le maggioranze parlamentari sarebbero ancora più instabili e liquide di allora, mentre le esigenze di continuità, soprattutto in fatto di finanza pubblica, sono divenute vitali.
Una quinta via d’uscita sarebbe un’assemblea costituente, federale e federante, eletta con metodo puramente proporzionale, e su base federale, ossia regionale, che faccia una nuova costituzione, disponendo di poteri pieni e sovrani. Ogni regione elegge una sua rappresentanza popolare. Le rappresentanze si radunano (meglio se non in Roma, o non solo in Roma) per verificare e negoziare le possibili basi di una repubblica realmente federale, ossia di uno stato centrale costituito su accordo tra le rappresentanze dei diversi popoli regionali, che ad esso conferiscono determinati poteri, ruoli e tributi, trattenendo per sé gli altri. Le varie rappresentanze potranno arrivare a un accordo costituzionale-federale in virtù del quale si stabiliscono limiti e condizioni dei trasferimenti dalle regioni produttive a quelle meno produttive. In tal modo realizzeremmo direttamente e meglio il disegno del c.d. federalismo fiscale, evitando quel fondo interregionale di solidarietà che continuerebbe il consolidato assistenzialismo. Naturalmente, l’esito di una siffatta assemblea può anche essere che non si formi un accordo tra tutte le regioni, che si prenda atto che alcune regioni hanno bisogno di un certo tipo di politica, diverso da altre, in campo economico, monetario, giudiziario, sociale; e che si pervenga alla formazione di due o più stati federali – ad esempio, una Repubblica del Nord e una del Sud.
15.11.10