SOTTOMISSIONE FINANZIARIA
Marco Della Luna
SOTTOMISSIONE FINANZIARIA
LA CRISI PERMANENTE COME INGEGNERIA SOCIALE
NELLA LOTTA DI CLASSE DELLA GRANDE FINANZA
CONTRO I POPOLI DELLA TERRA
SOTTOMISSIONE FINANZIARIA
LA CRISI PERMANENTE COME INGEGNERIA SOCIALE
NELLA LOTTA DI CLASSE DELLA GRANDE FINANZA
CONTRO I POPOLI DELLA TERRA
Introduzione
Michel Houellebecq fa giustamente strage col suo romanzo Sottomissione, che narra come, in un prossimo futuro, la Francia, seguendo i suoi meccanismi elettorali formalmente democratici, e la stupidità ideologica della sua sinistra politica, si consegni al potere islamista, cioè si sottometta ad esso (trovo che il romanzo in parola sia un potente vaccino contro l’islam politico, e se gli elettori di “sinistra” europei hanno un minimo di capacità razionale non voteranno nella realtà come votano nel ridetto romanzo).
Houellebecq dimentica però un piccolo dettaglio: da tempo, la Francia e le altre democrazie formali si sono già sottomesse, nel formale rispetto delle loro procedure democratiche, al potere bancario globale. Le gente viene rieducata alla Shariya dei banchieri usurai: si lavora fino a 70 anni per pagare gli interessi sui debiti (pubblici e privati) e per realizzare il pareggio di bilancio con avanzo primario attivo – ossia con lo Stato che preleva più soldi con le tasse dalla società, di quanti glie ne restituisca con la spesa pubblica; così la moneta diventa sempre più scarsa e per compensare la sua scarsità bisogna chiedere prestiti alle banche, incrementando il loro potere sulla società, sulla cultura, sui mass media e sulla giustizia. L’Euro è grande, la Merkel è il suo profeta, non avrai altro denaro all’infuori dell’Euro.
In realtà, non saremmo esposti al pericolo islamista, se non fossimo già sottomessi al sistema bancario globale e se avessimo ancora gli Stati democratici parlamentari nazionali a difendere la nostra sicurezza e i nostri interessi. La vecchia Francia, la vecchia Gran Bretagna, avrebbero sistemato l’Isis, l’islamismo e gli scafisti da molto tempo. Anche perché non avrebbero permesso all’Arabia di finanziarla e alla Turchia di armarla.
Il patto di Maastricht, ossia il patto di “convergenza, stabilità e sviluppo”, che non è ammesso ridiscutere, ha portato in Europa alla moltiplicazione delle divergenze1, all’aumento generalizzato dell’indebitamento pubblico per circa 5.000 miliardi, all’aumento generalizzato della disoccupazione e della povertà dura, a un calo generalizzato del prodotto, quindi della stabilità (sostenibilità del debito pubblico e dei debiti privati)2 (infatti priva dei soldi necessari per lavorare e quindi poter ripagare i debiti col frutto del lavoro). I paesi dell’Euro hanno avuto in pil molto peggiore di quelli OCSE non Euro. Il Regno Unito, paese europeo che non ha adottato l’Euro né le sue ricette, ha avuto una forte crescita. Dunque l’Euro, nel suo effetto concreto, ha tradito innanzitutto proprio quegli obiettivi di risanamento, crescita, sicurezza e stabilizzazione per cui esso e l’austerità erano stati prescritti. L’Euro fa male. E’ il bidone del secolo. Lo dimostrano i fatti. L’eurozona è tenuta ormai insieme solo dalla paura di uscire dall’Euro, delle conseguenze. Se non ci fosse questa paura, molti paesi avrebbero già scelto di riprndersi la loro autonomia monetaria e di bilancio.
Paradossalmente, gli effetti controproducenti dell’Euro (e delle regole ad esso connesse) hanno posto e pongono gli Stati nella condizione di dover cedere, sotto ricatto, cioè per paura, ancora di più a poteri privati e irresponsabili non solo la guida della politica, ma la ridefinizione dei diritti dei lavoratori, dei risparmiatori, degli elettori, dei cittadini, anzi semplicemente la ridefinizione dei diritti dell’Uomo secondo le convenienze del Capitale finanziario3 . Arduo è insomma sostenere che Maastricht e l’Euro siano stati introdotti in buona fede, e non come uno strumento premeditato per spremere dai popoli ricchezza e libertà – specialmente se consideriamo come quel modello finanziario ha invece arricchito fortemente proprio le classi che lo hanno accreditato e imposto, cioè finanzieri e loro uomini politici, a scapito dell’insieme del corpo sociale.
Chiaramente di mala fede si è rivelata altresì la ricetta monetarista imposta a tutta l’area del Dollaro, e soprattutto dalla BCE, ossia che basti dosare la liquidità in modo da prevenire l’inflazione e i mercati diverranno automaticamente mercati efficienti (cioè raggiungeranno la piena occupazione e preverranno o correggeranno le crisi), e ciò permetterà di deregolamentare (liberalizzare) il settore bancario onde rendere efficiente anch’esso. Questa ricetta, imposta ancora oggi, è servita come pretesto per deregolamentare il settore bancario consentendo a chi lo manovra di realizzare profitti stellari attraverso operazioni fraudolente che hanno creato gigantesche crisi di mercato a danni dei risparmiatori e della popolazione generale, su cui tali crisi sono poi state scaricate dai governi mediante severe manovre fiscali.
E’ insomma un dato di fatto che le istituzioni, ovvero chi le ha in mano, ossia il potere costituito, sogliono mentire (vulgus vult decipi, il popolo vuol essere ingannato) sui loro fini reali e ingannare sullo scopo a cui mirano i loro provvedimenti e le riforme; quindi dalle istituzioni bisogna guardarsi e proteggersi. La sussistenza di uno spazio per un reale dialogo partecipativo – della popperiana “società aperta” e democratica, in cui è possibile sostituire chi è al comando con mezzi pacifici – tra chi occupa le istituzioni e i cittadini è quantomeno dubbia, perché il rapporto è di sfruttamento materiale (ma, data la sproporzione delle forze, soprattutto tecnologiche e organizzative, una sostituzione per via rivoluzionaria è oggi irrealizzabile, quindi l’alternanza reale è bloccata).
Come esempio di sfruttamento materiale diretto, pensiamo a Monti, che prelevò circa 57 miliardi di tasse agli Italiani, precipitando il Paese nella depressione, non già per ridurre il debito pubblico, cioè per risanare i conti – questo era ciò che le istituzioni ingannevolmente dichiaravano – , ma, come poi emerse, per prestarli a Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda, divenute insolventi, affinché potessero pagare i loro contestabilissimi debiti verso i banchieri franco-tedeschi, che avevano prestato denaro a quei Paesi in modo da gonfiare bolle immobiliari e di finanziare l’export tedesco verso di essi. Cioè il governo, sostenuto da quasi tutto il parlamento, ci ha dissanguati per nutrire gli squali della finanza predona straniera e per giunta così ci ha messo in condizione di dover svendere loro i nostri assets più appetibili. In più, nel dicembre 2011, senza alcuna obiezione, Monti pagò 2,6 miliardi alla banca speculativa Morgan Stanley in base a un contratto derivato finanziario suicida stipulato dal Governo Ciampi. La clausola imponente questo pagamento era scattata a seguito del downrating del debito pubblico italiano fatto proprio da Standard and Poor’s, collegata a Morgan Stanley attraverso un’altra società– quindi la clausola era facilmente contestabile. Inoltre proprio Standard and Poor’s era promotrice dell’oggettivamente ingiustificabile downrating dell’Italia in quel periodo, che aveva consentito la sostituzione dell’ultimo premier italiano con mandato democratico e la sua sostituzione proprio con Monti, l’amico dei banchieri, che Napolitano non solo chiamò a Palazzo Chigi, ma blindò con la nomina a senatore a vita concessa per i suoi inesistenti alti meriti.
Questa vicenda, oggetto di recenti denunce penali, è una splendida dimostrazione di mala fede istituzionale nell’interesse dello straniero. Una mala fede cui corrispondono i milioni di babbei che in quei giorni esultavano aspettandosi un rapido miglioramento per l’effetto della caduta di Berlusconi e delle grandi capacità di Monti – babbei che oggi perlopiù confidano in Renzi, che sta completando la missione ordinata dalla BCE col famoso papello segreto del 2011, e iniziata da Monti.
Eccovi un ulteriore spunto di riflessione: la teoria dominante, quella applicata dalle istituzioni, dice che abbiamo avuto un tenore di vita troppo alto e ora dobbiamo pagare, tirare la cinghia, rientrare dei debiti. Ma il tenore di vita consiste nel livello di consumo di beni e servizi, e avere un tenore di vita troppo alto significa perciò consumare più beni e servizi di quanti se ne produce. E qui incominciano le difficoltà per la teoria in questione, perché in realtà noi abbiamo un problema opposto, di domanda insufficiente, ossia che produciamo più di quanto consumiamo, più di quanto possiamo pagare. Abbiamo una domanda insufficiente ad assorbire tutta l’offerta, perché non abbiamo i soldi, i redditi, per pagare tutti i beni e i servizi che produciamo e di cui vorremmo godere, per fare gli investimenti produttivi che andrebbero fatti, assumendo la relativa mano d’opera. I prodotti rimangono invenduti, e le aziende licenziano o chiudono o non investono: da qui deflazione, recessione, disoccupazione, grandi spese per gli ammortizzatori sociali. Perché allora non si immettono nell’economia reale i soldi corrispondenti alla ricchezza reale che produciamo, e che potremmo produrre in più, se ce li dessero? Perché non abbiamo e non possiamo avere una quantità adeguata di simboli economici (cioè denaro) a comprare non dico ciò che non produciamo, ma ciò che stiamo producendo e di cui abbiamo bisogno, ma rimane invenduto? Chi lo ha deciso? Il mercato? No, evidentemente: è una decisione politica, che mira al potere, non al profitto.
Altrimenti detto: per quale motivo razionale, se non per mettere in crisi e ricattare il corpo sociale, chi ha l’esclusiva della regolazione monetaria, cioè il sistema bancario, non ne mette a disposizione una quantità idonea, corrispondente alla ricchezza reale prodotta, e in tal modo determina una tendenza recessiva? “Meglio un PIL magro, ma tutto saldamente in mano nostra, che un PIL grasso, ma inutilmente distribuito alla gente che lavora e poi avanza pretese di partecipazione alle decisioni”. Oppure: “Abbiamo provato a dar loro qualche decennio di benessere e di partecipazione alle decisioni; abbiamo visto che non funziona; quindi ora torniamo a prima.” Credo che il ragionamento dietro la predetta politica monetaria antisociale sia di questo tenore.
Lo stesso quantitative easing della BCE, che (come previsto e sicuramente programmato) fallisce rispetto al fine dichiarato di rilanciare i paesi europei, è un dare soldi non all’economia reale e agli investimenti pubblici infrastrutturali di cui vi è sommamente bisogno, ma proprio ai banchieri, cioè ai responsabili dell’attuale crisi nonché gestori della BCE stessa, in modo che li rimettano nei mercati speculativi mobiliare e immobiliare, sotto forma dei già noti prestiti facili e a rischio programmato, cioè in modo da far ripartire non l’economia e lo sviluppo civile, ma innanzitutto nuove bolle, a cui seguiranno, come sempre sono seguite nella storia della finanza, crolli e ondate di insolvenze. Infatti i finanzieri guadagnano non sulla crescita del PIL, ma sull’ampiezza e sulla frequenza delle oscillazioni dei mercati speculativi – onde i governi e le “autorità monetarie” agiscono al fine che tali oscillazioni avvengano, non per lo sviluppo della collettività, la quale invece deve adattarsi e collaborare al predetto fine e di fronte ad esso le persone perdono diritti e autonomia politica. Cioè, la BCE finanzia la ripetizione di un gioco che, per sua struttura, nella prima fase crea ripresa e consenso, ma che poi, automaticamente, sfocia nel suo opposto. Se questo non è conflitto di interessi…
Nello specifico italiano, anche se si diffonde un sentore ottimistico di ripresa, i dati Istat più recenti (gennaio 2015) indicano un continuo calo dei finanziamenti delle banche a imprese e famiglie, malgrado i minimi tassi della BCE; aggiungiamo che le banche italiani hanno sofferenze (tra dichiarate e non dichiarate) per circa 360 miliardi; questi fattori fanno presumere che la quota di q.e. destinata all’Italia, ciò 150 miliardi, verrà perlopiù trattenuta dalle banche; in tal caso, non ci sarà nemmeno una iniziale ripresa – tanto più che le prospettive di bassi consumi e bassi redditi non invogliano gli imprenditori ad investire né le famiglie a indebitarsi. Quando gli intermediari sono marci, non si può contare su di essi per rifinanziare l’economia sana. L’alternativa sarebbe che la BCE finanziasse direttamente investimenti infrastrutturali pubblici, che si tradurrebbero in appalti, quindi in lavoro, e in benefici sistemici4.
La ridefinizione dell’Uomo, dello Stato, della Banca
Ma la ridefinizione dello status umano non passa solo per il ritiro di diritti economici e politici. Essa procede a 360°, abbraccia tutta l’esistenza, dall’alimentazione, alla famiglia e alla salute. Sono state costruite, e vengono gestite verticisticamente e irresponsabilmente, reti tecnologiche che monitorano e possono schedare ogni attività (comunicazioni, spostamento, movimenti monetari, atti sanitari), e da cui dipendiamo rigidamente per la gran parte delle esigenze. Intanto, al servizio del profitto dell’industria farmaceutica e del controllo sociale, vengono inventate e applicate sempre nuove “malattie” per etichettare come patologiche e medicalizzare condizioni e reazioni normali naturali della vita umana, soprattutto in campo mentale (vedi il continuo gonfiarsi del DSM, o Manuale Diagnostico Statistico dei disturbi mentali, giunto alla quinta edizione).
Porre e mantenere la gente nella modalità dell’emergenza e della paura, oltre che dell’individualismo, è essenziale per distrarla e farle accettare questa riconfigurazione globale, la quale però viene presentata non nel suo insieme, quindi non è in modo riconoscibile; bensì come moltitudine e successione di innovazioni rese necessarie da fattori oggettivi, a pena di tremendi castighi del mercato, del rating, del PIL5.
Non vi sembra che anche in tutto questo vi sia lo zampino di una regia non troppo occulta, piuttosto che la mano invisibile e impersonale del libero mercato – la regia che sta guidando la società verso lo sbocco delineato da Scarpinato nella citazione che apre questo saggio, cioè verso la ri-concentrazione dei redditi e del potere politico nelle mani di una ristretta élite, come era in passato, verso la fine di quanto c’era di democrazia? E non vi sembra che l’altro principio cardinale dell’attuale modello economico-finanziario, ossia l’indipendenza e irresponsabilità del predetto potere monetario, rispetto ai parlamenti e ai governi, sia finalizzato proprio a consentire la realizzazione di questo progetto?
Ma, una volta sfondato il muro dei dogmi, le domande si moltiplicano. Perché le istituzioni difendono a oltranza un modello economico che non funziona, basato su assunti che si palesano errati, anziché sostituirlo? Il limite del 3% al deficit pubblico, ad esempio, si è scoperto frutto di un errore di calcolo, e così pure il tetto del 60% al rapporto debito/PIL; allora perché non correggersi, perché farne un Credo, un pensiero unico e obbligatorio, dunque dogmatico, antiscientifico, negando l’evidenza, e rifiutare a priori anche solo il confronto con modelli alternativi? È solo a causa dell’investimento politico fatto su di esso dalle classi dominanti e dell’inerzia della burocrazia UE (e allora l’UE stessa andrebbe sciolta), oppure anche perché esso, assieme ai suoi effetti, oltre ad arricchire molto le classi dominanti, è funzionale a un progetto più vasto, premeditato, di ingegneria sociale e antropologica, come sopra accennato? Questa è la domanda politica fondamentale di oggi e domani. Io credo che il suddetto modello economico “sbagliato”, assieme ad altri modelli culturali oggi massicciamente imposti dall’alto (in fatto di famiglia, sessualità, multiculturalismo…), sia voluto principalmente per quel fine.
Di fatto, è stato costruito e imposto all’Occidente, soprattutto ai paesi eurodeboli, un insieme di modelli economici, sistemi monetari e regole di bilancio non modificabili, che non ha mantenuto le promesse, mentre ha consentito di togliere all’uomo, al cittadino, tutto quello che, fino a ieri, sembrava essenziale per la legittimità democratica del potere: i diritti politici (cioè poter influire sulle scelte di fondo della politica di un Paese non diretto da organismi esterni ad esso, e poter essere rappresentato nei parlamenti da persone scelte da lui e non nominate dai segretari di partito), i diritti al lavoro (a non dover accettare tutto pur di mangiare, a pretendere un’equa ripartizione dei redditi tra capitale e lavoro), i diritti ai servizi pubblici essenziali, alla pensione, etc. Di fronte a milioni di famiglie greche, italiane, spagnole, portoghesi ridotte alla fame per mancanza di lavoro causata da mancanza di investimenti, il diritto al lavoro e a una vita decente, sancito dalle costituzioni e realizzabile attraverso investimenti pubblici, viene denegato per dare priorità al famoso tetto del 3%, che – ripeto – non ha alcuna base scientifica ed è frutto di un errore di calcolo. E’ un meccanismo perfetto per privare la gente dei suoi diritti fondamentali creando ad arte emergenze e necessità che impongono quelle privazioni in vista di un benessere maggiore per tutti, che però non arriva mai (anzi i conti pubblici continuano a peggiorare) – analogamente a come i regimi comunisti imponevano alla gente privazioni di diritti, libertà e benessere in funzione di realizzare un mondo perfettamente giusto e prospero, il paradiso del proletariato, che però non si realizzava mai. Similmente oggi non si realizza il paradiso del liberismo.
Funziona così: si è tolto ai vari paesi il diritto di avere una moneta propria, e così li si è indebitati in una moneta che non controllano, talora oltre la possibilità di rimborso del debito; poi si è tolta loro la possibilità di lasciar aggiustare il cambio (per pareggiare la bilancia commerciale, esportando di più e importando di meno), e insieme si è tolta loro la possibilità di investire in deficit per rilanciare l’economia. A questo punto, i paesi indebitati come Grecia, Italia e altri sono caduti in recessione e si sono ritrovati costretti, per pagare gli interessi sui debiti e non vedersi rifiutare il finanziamento da parte dei “mercati” e della BCE, ad alzare le tasse e ridurre stipendi, pensioni e servizi, ma anche a fare le famose “riforme”, che si sostanziano nella precarizzazione degli impieghi e nel consentire al datore di lavoro ogni forma di pressione e manipolazione sui dipendenti.Peggiorano così fortemente e definitivamente le condizioni della popolazione. Definitivamente, anche perché le suddette misure spingono imprese, lavoratori qualificati, capitali a trasferirsi all’estero, indebolendo ulteriormente questi paesi.
Ecco già ridefinito lo standard dei Diritti dell’Uomo. O meglio, dell’Uomo Comune. Una ristretta élite beneficia di un aumento di potere e di ricchezza corrispondente alla perdita di diritti della popolazione generale (senza ancora parlare del controllo capillare tecnologico sulla società e sulle persone, che, con varie giustificazioni, viene oggi allestito e gestito da pochi soggetti non trasparenti e non accountable, non tenuti a rispondere delle loro azioni). Contemporaneamente, si sono spenti nel nulla di fatto molti movimenti di resistenza a questa deriva: Occupy, Indignados, M5S, Ingroia… ciò che non produce e distribuisce profitto, non è vitale e non fa riforme. Temo che analoga sorte toccherà alla forza politica che sta assemblando la Fiom di Maurizio Landini. L’alternativa è inserirsi nel sistema, omologarsi, ricavarsi una nicchia.
Questo è il copione della tragedia greca attualmente in corso. La Grecia, con la sua economia molto piccola e molto malconcia, non potrà mai estinguere il suo debito pubblico di 323 miliardi, pari al 175% del suo prodotto interno lordo. Può solo continuare a svenarsi per pagare gli interessi. Perciò è falso e pretestuoso il principio dichiarato, difeso e imposto al governo greco da parte dell’Ecofin, cioè che la Grecia debba pagare i suoi debiti rispettando gli impegni. La Grecia non potrà mai ripagarli. Lo sanno benissimo. La realtà è un’altra: da un lato bisogna mantenere alla Grecia il guinzaglio del debito pubblico inestinguibile, un guinzaglio a strangolo, per poterla dirigere politicamente dall’esterno per via finanziaria (come pure l’Italia e altri paesi); dall’altro, concedere il richiesto ridimensionamento del debito pubblico greco sarebbe automaticamente saltare tutto il sistema bancario europeo, che è molto più fragile e a rischio della stessa Grecia, per i seguenti motivi:
Le banche europee hanno in portafoglio a valore nominale, come asset considerato convenzionalmente sicuro ai fini della loro capitalizzazione, circa 3000 miliardi di titoli pubblici a rischio, cioè greci, spagnoli, portoghesi, italiani, francesi. Dato che le banche europee prestano con una leva di ventisei dichiarata, ma in realtà molto più alta, se anche solo i titoli greci venissero svalutati poniamo del cinquanta percento per effetto del ridimensionamento richiesto dal governo di Atene, la riduzione finale sarebbe moltiplicata per 26, e le banche europee perderebbero una grossa quota di capitale, andando anzi in negativo. Si aggiunga che esse hanno in portafoglio anche gran parte dei derivati assicurativi costruiti sul debito pubblico anche greco, con un moltiplicatore di 10; sicché, sempre in caso di soluzione di questo, avrebbero ulteriori perdite per circa dieci volte il valore della valutazione complessiva. Quindi sebbene la Grecia sia piccolissima, economicamente parlando, per effetto delle suddette leve la sua uscita dall’eurosistema, o anche solo il ridimensionamento del suo debito, sarebbe devastante. Aggiungiamo infine che il ridimensionamento del debito pubblico greco indurrebbe analoghi ridimensionamenti dei debiti pubblici E altri paesi deboli. La catastrofe bancaria europea sarebbe assicurata.
Alla ricerca di spiegazioni serie
Erra chi ascrive ogni colpa dei mali presenti, e soprattutto di quelli italiani, al “neoliberismo” (da non confondersi col liberismo della Scuola Austriaca, per le ragioni che dirò in seguito), o all’Euro, al Dollaro e alla globalizzazione. O anche ai soli fattori economico-finanziari – come vorrebbe il marxismo e come oggi è di moda fare anche da parte del mainstream, il quale tende ad affidare la comprensione-soluzione dei problemi complessivi della società a criteri unicamente economici o, peggio, finanziari, cioè a un approccio settoriale, che “copre” solo una parte della realtà e dei suoi fattori, fattori che sono anche di carattere culturale, emotivo, psicologico, sociale, giuridico, storico, geofisico, etc. L’approccio unicamente economico-finanziario e mercatistico è una moda culturale e politica, una moda sciocca. E’ come se un dietologo volesse basare i suoi interventi sulla dieta in termini esclusivamente di carboidrati e non anche di grassi, di proteine etc. Beninteso, i meccanismi economici esistono e operano realmente, e non tener conto di essi, per ragioni ideologiche o per ignoranza o per altro, è pessima politica ed è antiscientifico. Prendiamo ad esempio la mancata considerazione degli effetti economici della c.d. moneta unica. Il blocco dei cambi (cioè il blocco degli aggiustamenti dei rapporti di cambio tra le valute), quale è l’Euro, già si sapeva da molte precedenti esperienze (anche europee) che determina precisi effetti, ossia che non potendosi svalutare la moneta del paese meno efficiente (ossia che ha costi di produzione maggiori) rispetto a quella del paese più efficiente, per compensare i conti con l’estero si svalutano i redditi del paese meno efficiente e si intaccano i risparmi; onde il blocco dei cambi induce recessione nei paesi meno efficienti, aumentandone la divergenza da quelli più efficienti, nonché incoraggia la fuga dei capitali, delle imprese e dei lavoratori. Sostenere il blocco dei cambi (l’Euro) per motivi ideologici senza al contempo rimediare agli effetti economici, quindi, è follia, oppure menzogna.
Syriza in Grecia e Podemos in Spagna, due partiti politici ritenuti euroscettici e di estrema sinistra, e che raccolgono il grosso degli elettori euroscettici di quei Paesi, hanno in questo senso una posizione molto ambigua: come qualcuno ha osservato, essi vogliono la causa ma non vogliono i suoi effetti. Cioè vogliono mantenere l’Euro (coi suoi patti e vincoli) ma non le sue conseguenze recessive: vogliono la botte piena e la moglie ubriaca. Questa contraddizione ha già portato Tsipras, nel febbraio 2015, a piegarsi alla Germania e a ridurre le sue richieste a quattro mesi di moratoria, tradendo la promessa di ridiscutere i principi e di rifiutare la Trojka, sebbene avesse giurato al suo popolo, poco prima, di mantenerla a tutti i costi. In Spagna, Iglesias con Podemos è già avviato in questa direzione di obbedienza, su cui lo ha preceduto Renzi col Pd, con le sue finte (e già archiviate) promesse di rinegoziazione strutturale dell’eurosistema in sede europea, col suo stuolo di finti oppositori interni che in realtà lo sostengono per attaccamento alla poltrona, nonché di belle donne-immagine che ha messo in posti di evidenza. I babbei hanno creduto e in parte tuttora credono nelle promesse di cambiamento dell’Europa e dell’Euro fatte da questi tre partiti per raccogliere voti. Hanno creduto che Syriza fosse estrema sinistra. Non è nemmeno sinistra. E’ semplicemente come il Pd, solo diversamente verniciata. Syriza e Podemos, come il loro nascente omologo italiano, creano nei popoli l’impressione, e col tempo anche la convinzione, che la posizione di massima e radicale critica concepibile al sistema (definita addirittura “comunista”, da alcuni) sia quella, sia la loro, seppure ovviamente non è così, perché essi restano all’interno del pensiero del sistema che simulatamente attaccano, mentre la vera critica ad esso è tutt’altra cosa – come apparirà chiaro nel confronto con le critiche svolte nel presente libro – e non è comunista né estremista, ma solo realistica e razionale. Anche questo inganno porta acqua ai mulini dei signori dell’Euro.
L’alternativa seria, cioè razional-scientifica (razional-scientifica proprio perché discutibile e non dogmatica!) a Maastricht è espressa dai principi economici del Front National di Marine Le Pen e della Lega Nord di Matteo Salvini, e in altri modi anche da Alternative für Deutschland e dallo United Kingdom Independence Party. Non la possono invece esprimere, a causa della compresenza di tratti e modi abnormi, Jobbik in Ungheria e Alba Dorata in Grecia.
Le cause generali dei mali economici contemporanei (che, ripeto, sono mali per la generalità della popolazione, ma vantaggi per pochi privilegiati) sono assai profonde, radicate nel tipo di moneta e di credito che usiamo, ma anche nello sviluppo tecnologico: la moltiplicazione incontrollabile delle diseguaglianze di fatto, e il loro inevitabile tradursi in diseguaglianze di diritto, è il fulcro della politica contemporanea e il sottostante delle svariate “crisi” economiche e non, che incessantemente si succedono e sovrappongono, e delle riforme che esse chiamano. La diseguaglianza di capacità, conoscenze, ricchezza e diritti è sempre esistita entro la società umana e la ha sempre strutturata e diretta, ne ha formato la stratificazione in classi; ma oggi la vertiginosa avanzata della tecnologia la sta ampliando sempre più velocemente e la politica non riesce più a mimetizzarla né a contenerla e gestirla entro equilibri economici, limiti etici e forme costituzionali, al punto che è stato superato il principio fondamentale dell’etica sociale e del diritto, il principio dell’eguaglianza tra gli esseri umani, ossia che vi è e vi possa essere solo un unico status giuridico per tutte le persone umane. Il diritto, soprattutto quello internazionale, ha creato uno status giuridico sovrastante per la classe di persone che prendono le grandi decisioni a porte chiuse, in isolamento tecnocratico, e senza responsabilità politiche o giudiziarie, disponendo non solo di fatto, ma anche di diritto, dei diritti civili e politici del resto del genere umano, e delle rendite generata col pagamento degli interessi sui debiti inestinguibili.
Il grosso della popolazione ha uno status giuridico inferiore: da un lato non ha praticamente difese contro il monitoraggio informatico della propria vita (lavorativa, economica, privata, politica) e contro l’invadenza dello Stato e dei providers privati di servizi essenziali (banche, energia, informazione); dall’altro lato, riceve opinioni preconfezionate e instillate mediante ripetizione e stimoli emotivi, e non ha praticamente influenza reale sulle scelte politiche. Fondamentalmente, deve pagare le tasse e gli interessi e adattarsi ai modelli socio-economici decisi sopra la sua testa. La popolazione comune, capillarmente controllata, politicamente impotente, lavora per sopravvivere e pagare gli interessi sul debito personale e sul debito pubblico, senza poterli estinguere, con l’acqua alla gola; dall’altra parte, una ristretta élite, regolando questo indebitamento grazie al monopolio dei mercati, gode la rendita di questi interessi. Questo è il disegno socio-economico che sta guidando il mondo e che anche in Italia viene portato avanti con
incalzante aggressività riformatrice, che non ammette alternative.
Per l’esattezza, non si può nemmeno parlare di una stratificazione sociale in classi, né di una dialettica di classi, perché per aversi una classe sociale occorre che i suoi componenti siano consapevoli che hanno interessi comuni e distinti-contrapposti rispetto a quelli di altre classi, occorre che siano consapevoli dei rapporti di forza e sfruttamento tra le classi; ma, mentre i componenti delle classi apicali, elitarie, hanno questa consapevolezza e si organizzano di conseguenza per fare i loro interessi, avendone anche i mezzi ed essendo pochi di numero, al contrario, i componenti dei ceti intermedi e inferiori, portatori di interessi diffusi, hanno scarsa consapevolezza di ciò che subiscono e quasi nessuna organizzazione a difesa dei loro interessi comuni, quindi non costituiscono una classe sociale, ma un semplice ceto – una massa. Guardano il Festival di San Remo, lo sport, il porno. Quindi sullo scenario globale si sta perfezionando, tecno-giuridicamente, una sopraffazione di classe senza lotta di classe.
Tale sopraffazione esige una chiusura degli accessi alle classi superiori, chiusura che in effetti riscontriamo in vari paesi, anche in Italia. La scuola è fondamentale per permettere o impedire la mobilità interclasse. Un tempo avevamo in Italia l’ascensore sociale di una scuola qualificante e selettiva, che consentiva ai fanciulli volonterosi ed eccellenti di salire di livello sociale. Poi, con pretesti sinistroidi, la scuola è stata resa non selettiva e riempita di insegnanti non qualificati, sicché non può quindi più dare quell’opportunità. Oggi la scuola e l’università veramente qualificanti sono perlopiù all’estero e costano care, quindi non sono più accessibili ai giovani capaci ma non ricchi. Come ascensore sociale, in Italia, avevamo anche la piccola impresa, ma l’Euro e le regole ad esso connesse l’hanno schiacciata. Ora come ascensore sociale rimane la politica, che seleziona però solo, o quasi soli, i peggiori.
Varie indagini ufficiali6 hanno rivelato, per l’Italia, un livello di analfabetismo (totale e funzionale, cioè capacità di capire le parole ma non il senso complessivo di un testo semplice) al 47%; solo il 18% riesce a comprendere un testo di media complessità. Un testo come il presente, articolato e con contenuti anche tecnici, è alla portata di un’esigua minoranza. In fatto di alfabetizzazione, l’Italia è al fondo della classifica OCSE, ma anche gli altri paesi evidenziano la pressoché totale incompetenza ed ignoranza della popolazione ai fini della comprensione delle scelte politiche. Che cosa può essere, con tali premesse di fatto, la democrazia? E’ ovvio che le decisioni che contano, cioè quelle in materia economica (scelta del modello di sviluppo neoliberista-globalista, WTO, introduzione dell’Euro, Fiscal Compact etc.) e quelle in materia bellica (fare la guerra all’Iraq, all’Afghanistan, alla Libia, etc.) siano prese “ai piani alti”, a porte chiuse, e calate sui popoli “analfabeti” e comunque impotenti con l’assistenza di una propaganda e promesse disegnate ad hoc (l’Euro o la globalizzazione porterà crescita e stabilità, quella guerra esporterà sicurezza e democrazia, etc.). Il compito della politica pubblica (diversa da quella “a porte chiuse”) è allora non il far partecipare consapevolmente la gente al processo decisionale, ma di adattare l’opinione pubblica e il comportamento collettivo a quelle decisioni, già prese. Cioè di fabbricare il consenso ex post. E cercare di intervenire sugli imprevisti, riportandoli in carreggiata.
In quanto all’Italia, essa, come ho sempre affermato, è un sistema che per sua natura non può funzionare ed era destinato inevitabilmente al declino e al disfacimento comunque, per altre cause, interne – e non intendo semplicemente per effetto dell’alto debito pubblico, o per l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, o per la dilagante sfiducia, o per il rigore di bilancio imposto da Berlino e Bruxelles. Certo, alcuni di questi fattori pesano seriamente, ma pesano anche altri dati di fatto: l’Italia è composta da genti troppo diverse per mentalità e costumi, è sottomessa a potenze e interessi esterni (USA, Germania, Francia) e manca di indipendenza; continua la fuga di capitali, aziende e cervelli; persiste l’invecchiamento e il basso livello culturale della popolazione congiunto alla sua forma mentis ideologica, alla statica e conservatrice arretratezza delle sue vedute e aspettative, al tragico declino della scuola nel suo complesso; inoltre, ha una classe dirigente buro-politica tecnicamente inetta e trasversalmente dedita al saccheggio della cosa pubblica in combutta con potentati stranieri, le forze economiche e l’elettorato danno consenso e sostegno a questa classe dirigente in cambio della partecipazione alla spartizione clientelare di vantaggi impropri, sicché non sono marce alcune mele, ma il melo.
Dal 2008, il costo della produzione per unità di prodotto in Italia è aumentato del 21%, ossia più che in ogni paese concorrente sui mercati mondiali, quindi abbiamo perso competitività. Si invocano o promettono investimenti pubblici per rilanciare il Paese, ma mentre in Germania per 1 euro in più di spesa pubblica il PIL aumenta di 1,6 e nell’UE di 1,2, in Italia aumenta di 1 – il che vuol dire che il sistema-paese è inefficiente, non risponde nemmeno l’investimento diretto. Il Paese è stato sinora tenuto insieme dai massicci trasferimenti da Lombardia e Veneto a Roma e Meridione, come documentato da Luca Ricolfi nel famoso saggio Il sacco del Nord; ma ora il Nord, oppresso da tasse e burocrazia nonché svantaggiato nelle esportazioni dal cambio bloccato rispetto alla Germania, soffre una costante moria di imprese, non riesce più a investire e a sostenere le spese di una Roma corrottissima e di un Sud che arretra e si deteriora sempre più, nonostante gli imponenti aiuti ricevuti e la grande tolleranza verso l’evasione fiscale e contributiva di cui continua a beneficiare. E’ naturale che questo insieme di fattori generi, mantenga e rinforzi una generale sfiducia e oramai anche la paura, che a sua volta accelera il declino, in una spirale che si amplifica. Dopo numerosi annunci di luce infondo al tunnel fatti da mendaci istituzioni nazionali, europee e mondiali, oggi il forzato, esagerato ottimismo delle rassicurazioni di un Renzi, non seguito da risultati tangibili e pronti, serve solo a consolidare la sfiducia, appunto perché lo si percepisce come uno sbruffone che o recita, oppure ha davvero problemi di contatto con la realtà. O ambo le cose.
I suindicati difetti e guasti, o meglio caratteri, storici e inveterati del sistema-paese, non vengono nemmeno affrontati dai vari governi, ma che non si saprebbe nemmeno come riformarli, “toglierli”, isolarli, o correggerli, nemmeno uscendo dall’Euro. Ad essi si aggiunge il fatto che, nonostante i molti, vantati interventi riformatori-semplificatori-informatizzatori, la macchina burocratica italiana si fa sempre più complicata, lenta, incerta, dispendiosa, costosa, anche a causa dei sempre nuovi softwares balordi, elaborati da esperti scelti non so per quali meriti, che il governo propina alla pubblica amministrazione e impone a chi con essa lavora, peggiorando costantemente la funzionalità dell’apparato pubblico e le condizioni di lavoro dei cittadini, dei professionisti e delle imprese.
L’Italia è in declino da 20 anni circa senza guizzi di ripresa, nonostante abbia provato tutte le maggioranze e le formule di governo possibili; il suo PIL è in calo oramai da anni, incessantemente e senza segni di inversione (se oggi il declino si ferma è a causa di fattori esterni, come il deprezzamento di Euro e petrolio), e lo sarebbe ancora di più se i “riformatori” non avessero aggiunto nel calcolo del PIL i presunti giri d’affari di attività delittuose e in nero, inclusi il narcotraffico e la prostituzione. Mentre i mali del paese sono strutturali e richiederebbero una strategia profonda e di lungo termine, di ampie vedute, sganciata dai tornaconti immediati e corporativi, la classe politica, gli apparati dei partiti, sono dediti all’affarismo ladresco quotidiano di brevissimo termine di cui vivono e prosperano da sempre, cioè sono impegnati a difendere le loro abitudini e i loro redditi usuali. Non si curano minimamente dal fatto che il sistema sta per cedere. Perciò continuano a spremere anche con traffici assurdi, come l’importazione attiva di immigrati per il business criminale8 dell’accoglienza da parte di migliaia di onlus collegate ai partiti e al settore parareligioso, a spese di un paese allo stremo. Si interessano di continuare a pigliare bustarelle e a mungere i soldi dei contribuenti. Per poter continuare a farlo, hanno “ceduto la sovranità”, cioè delegato la politica economica, a Berlino e alla Bundesbank. E’ con ciò palese che il ceto politico italiano non ha nemmeno idea di che cosa sia la politica, cioè la gestione dell’insieme nazionale nel medio e lungo termine. I cosiddetti “politici” italiani, in realtà, non si occupano di politica – la quale è l’arte della gestione strategica del complesso del paese – ma affaristi di breve termine, spesso delinquenti, come emerge da ogni indagine giudiziaria: peculato, corruzione, concussione, turbativa d’asta, falso, associazione a delinquere… e si fanno le leggi elettorali e le riforme costituzionali per riservare alle segreterie di partito la scelta dei parlamentari, togliendola ai cittadini. Questo Paese va stabilmente e inevitabilmente di male in peggio, non ha futuro.
Ma l’Italia può arrivare al tracollo funzionale-amministrativo prima ancora che a quello finanziario, anche perché il senso, l’aspettativa e la pratica della legalità, la fiducia civica (tra privati e privati, tra privati e poteri pubblici), sono bassissimi e in declino. Il sistema-paese lentamente affonda nella disorganizzazione, nell’anomia, nel marasma funzionale. Invertire questo processo essenzialmente entropico è praticamente impossibile, perché nessun sistema può risollevare il suo proprio livello di ordine dal suo stesso interno, come insegna la seconda legge della termodinamica, e l’affidarsi a vincoli esterni al sistema-paese (come l’Italia ha fatto col Trattato di Maastricht e l’Euro) ha solo peggiorato le cose, perché questi vincoli sono stati studiati e gestiti da interessi esterni al Paese, perlopiù opposti e concorrenti. Per innalzare il livello di ordine, funzionalità e fiducia civica, la via sarebbe sciogliere lo Stato unitario italiano in tre o quattro Stati indipendenti, e dare a ciascuno di essi piena indipendenza e piena responsabilità della propria gestione. L’Italia è un paese che racchiude popoli diversi tra loro, e per esperienza storica gli stati multietnici, cioè composti di nazioni aventi diverse mentalità, abitudini e valori, non funzionano bene perché la gente non rispetta le regole scritte se non interiorizza le norme, e i cittadini italiani, mancando un’identità comune e un codice valoriale-comportamentale condiviso, non le interiorizzano, tendono a violarle, eluderle, ignorarle, e si aspettano che lo facciano anche gli altri, politici e pubblici amministratori soprattutto. I continui scandali, che non portano ad alcun cambiamento o soluzione di continuità nella generale mala gestio della cosa pubblica, confermano e rinforzano questa aspettativa nella popolazione. In questo contesto, nessun riformatore, in questa situazione culturale, può avere successo, perché nessuna riforma sarà creduta – cioè non si crederà che sia seriamente intesa e che verrà applicata.
Il cardinal Mazzarino ricordava ai regnanti che i troni si conquistano con le spade e i cannoni, ma si conservano con i dogmi e le superstizioni. «Il lavoro di costruzione delle false credenze funzionali alla perpetuazione del potere oligarchico di ristrette minoranze organizzate ai danni delle masse disorganizzate, è sempre stato affidato agli intellettuali organici al potere e costituisce la loro principale fonte di reddito, oltre che la porta di accesso al mondo dorato dei privilegi riservati alle élites.»9 La gente finisce per accettare perché, bombardata dalla propaganda mediatico-istituzionale, si persuade che, per ragioni scientifiche, naturali, incarnate nelle leggi di mercato, non vi sia alternativa, e perché è sfibrata dalla perdurante “crisi”. Ma i mercati non sono àmbiti naturali, non funzionano secondo leggi naturali, bensì sono ambienti costruiti e condizionati dai legislatori, dagli affaristi, dai tecnici e dalla prassi, dai media, cioè dalla volontà umana, dall’azione umana. Le loro leggi riproducono in ampia parte rapporti di forza e interessi. Sono politiche, anche se i risultati della loro interazione sfuggono alle previsioni e alle pianificazioni, perché nei mercati operano anche fattori sociologici, tecnologici, accidentali e naturali che sfuggono alle azioni e alle programmazioni della volontà regolativa umana – e soprattutto sfuggono loro le interazioni sistemiche di questi vari fattori.
Prendiamo il problema dell’Euro, del debito pubblico e della pressione fiscale. E parliamo in termini di realtà. Quando si parla di economia, si parla di rapporti di forza e di interesse, che agli occhi del popolo vengono nascosti o mascherati da ideali. Quando si dice, da parte di Draghi e soci, che l’euro è in ogni caso irreversibile, anche a prescindere dalla sua sostenibilità o insostenibilità e dai suoi costi per i cittadini dei paesi membri, ci si riferisce non tanto a interessi interni all’Eurozona, quanto a interessi esterni e alle potenze che li difendono, e che impedirebbero con la forza l’uscita dall’Euro di paesi importanti come l’Italia e la Spagna, che avrebbero probabilmente interesse ad uscirne. Lo impedirebbero per tre motivi. Primo motivo: circa il 26% delle riserve monetarie mondiali è denominato in euro, quindi, qualora l’Italia e o la Spagna escano dall’euro e conseguentemente l’euro si sciolga, sorgerebbero problemi molto seri con quelle riserve. Secondo motivo: nel mondo ci sono contratti derivati denominati in euro per un controvalore di circa 150.000 miliardi; si può immaginare che, in caso di fine dell’euro, sorgerebbero innumerevoli incertezze e contenziosi legali, quindi un caos che bloccherebbe il sistema finanziario, precipitando il mondo forse in una catastrofe. Terzo motivo: il BTP italiano, che da un lato è stato finora sostanzialmente sicuro a differenza dei titoli portoghesi o greci perché l’Italia ha mantenuto per venti anni un avanzo primario (cioè prima degli interessi) del +2,4% del PIL. In altre parole sono venti anni che lo stato italiano incassa di tasse più di quello che spende. Dall’altro lato ha, tranne che ultimamente, un discreto rendimento (anche in termini reali cioè al netto dell’inflazione), intorno al 2%, a differenza dei titoli dei paesi forti e di quelli statunitensi e giapponesi, e che inoltre, a differenza dei bonos spagnoli (che rendono quasi altrettanto e sono altrettanto sicuri) è presente in quantità abbondante – su un debito totale di circa 2.200 miliardi, ci sono circa 1.950 mld di titoli sul mercato (perché un 10% lo detengono Banca d’Italia e BCE) – si presta perfettamente e viene di fatto usato per generare liquidità di funzionamento del sistema bancario ombra mondiale, il noto shadow banking, non sottoposto a controlli istituzionali e non garantito come lo è l’attività bancaria ufficiale. Fondi di investimento e altri operatori comprano pacchetti di BTP e li usano dandoli in pegno a banche, con contratti detti repo, per ottenere prestiti cioè denaro creditizio scritturale bancario; sono prestiti di brevissimo termine, diciamo mensile. A loro volta, le banche li danno in pegno ad altre banche sempre per procurarsi denaro creditizio. In ultima istanza, queste banche a loro volta li danno in pegno a investitori istituzionali come fondi sovrani e grandi fondi monetari. In ognuno di questi passaggi, di questi prestiti a pegno, si genera credito, cioè liquidità bancaria, mezzi monetari. Poiché mediamente i passaggi sono tre, si stima che la quantità di moneta bancaria generata entro il sistema bancario ombra grazie all’uso dei BTP sia circa 2.000 o 3.000 miliardi su un totale stimato tra il 4.000 e i 10.000 miliardi10.
Attualmente il debito è detenuto da banche e altri intermediari finanziari Italiani (circa il 35%), dalle famiglie italiane (circa il 13%), dagli investitori esteri (circa il 30%), e da BCE e Banca d’Italia (un altro 10%, (fonte Banca d’Italia, dati a dic. 2013). Sul 30% detenuto dagli esteri (che era un 40% fino al 2011) si può ipotizzare che quasi tutti questi siano “re-ipotecati” tramite appunto il “sistema bancario ombra”.[1] Poiché mediamente i passaggi di “re-ipoteca” sono tre, si potrebbe stimare che la quantità di moneta bancaria generata dal “sistema bancario ombra” grazie all’uso dei BTP sia circa 500 miliardi, moltiplicati per tre, quindi circa 1,500 miliardi su un totale del sistema bancario ombra nel mondo stimato oltre i 4.000 mld. Le stime sulla dimensione di questo mercato del credito variano molto perché appunto è un sistema “ombra”, non regolato e i cui dati esistono solo sui computer delle banche e fondi che vi operano, esistono anche stime più elevate [3]. Il punto essenziale però è capire che i titoli di stato italiani ne sono oggi probabilmente l’ingrediente principale! Cosa confermata anche in modo aneddotico dal fatto che nei maggiori crac di mega fondi hedge si scopre sempre che la posizione speculativa più grande è quella sul debito italiano.
Ad esempio, se leggi la storia del più grande crac di un mega fondo hedge, parte del “sistema bancario ombra”, quello di LTCM nel 1998 che mise in pericolo allora il sistema finanziario americano e fu salvato da un intervento della FED, impari che “la maggior parte della sua attività era in Italia dove aveva straordinarie connessioni perché impiegava l’ex-responsabile del Tesoro italiano per la gestione del debito e dove la Banca d’Italia aveva investito 100 milioni nel fondo LTC stesso (!) e LTCM aveva comprato 50 miliardi di dollari di debito pubblico italiano… approfittando della prospettiva dell’entrata dell’Italia nell’Euro riguardo alla quale aveva ottime informazioni [2]”. Questo nel 1997, quando il debito pubblico italiano sul mercato era intorno ai 1.000 mld (in dollari) e questo singolo fondo hedge americano ne aveva comprato per 50 miliardi (con strategie complesse di arbitraggio che andavano anche oltre la semplice “re-ipoteca”. Questo fondo aveva un capitale di meno di 5 miliardi di dollari e solamente la sua posizione sui titoli di stato italiani era di 50 miliardi11.
[1] http://noisefromamerika.org/articolo/uscita-dall-euro-debito-pubblico
[2] pag 252-253 di “Infectious Greed: How Deceit and Risk Corrupted the Financial Markets” Frank Partnoy, 2009
[3] BIS Working Papers No 399 “Global safe assets”, by Pierre-Olivier Gourinchas and Olivier Jeanne
Monetary and Economic Department December 2012 http://www.bis.org/publ/work399.pdf
Da ciò si capisce perché il mercato dei BTP è importantissimo per la finanza mondiale, la quale ha interesse a che i BTP continuino a esistere abbondanti, cioè a che il debito pubblico italiano rimanga grosso; ha interesse a che continui a pagare un discreto rendimento; ha interesse a che in Italia ci siano governi che garantiscano queste condizioni a spese dei cittadini e soprattutto garantiscano il pagamento degli interessi sul debito pubblico ad ogni costo, cioè anche a costo di mandare in depressione il paese, di svendere il patrimonio pubblico, di ammazzare di tasse le imprese, di togliere o ridurre i servizi essenziali e le pensioni. E si capisce perché l’Italia non può ridurre significativamente il proprio indebitamento pubblico.
Questo spiega l’avvento del governo Monti, per esempio. Spiega perché e per chi Letta ha scritto un libro sottotitolato “Morire per Maastricht”. Spiega perché Renzi alza tanto la voce in Europa ma in realtà non prende alcuna iniziativa forte, limitandosi ad aspettare le mosse degli altri. Spiega perché siamo condannati ad essere immolati ad interessi esterni, contro ogni logica comprensibile, strangolati dal fisco, e, con l’austerità, messi in condizione che ci mancano i soldi per generare il PIL necessario (tra l’altro) a ridurre il debito pubblico: il debito pubblico italiano serve ad interessi superiori, pertanto non è mai stato realmente ridotto, nonostante tutti gli impegni a farlo! Il governo Monti ci ha tassato sul mattone per oltre 50 miliardi – tagliando le gambe al settore immobiliare e con esso all’economia intera – per darli ai banchieri privati tedeschi e francesi che avevano concesso prestiti predatòri alla Spagna (per gonfiare la sua bolla immobiliare) e alla Grecia (per gonfiare le spese pubbliche demagogiche). Ma tutto ciò non si può certo dire all’opinione pubblica e ai contribuenti… serve a estrarre dall’Italia ogni anno 40-45 miliardi per arricchire i detentori del nostro debito pubblico. E questi 40-45 miliardi, che escono dal sistema-paese, vengono dalle tasche dei contribuenti, e determinano la contrazione della domanda, degli investimenti, dell’occupazione – cioè determinano la recessione. E’ per garantire il pagamento di queste somme, che i governi italiani da molto tempo realizzano il record europeo di avanzo primario, cioè di denaro che essi tolgono al Paese e non rimettono nel Paese, ma lo mandano all’estero, producendo una crisi di liquidità crescente. Continuando questa pratica, imposta dagli interessi stranieri privati dietro UE, MES e BCE, si arriverà prima o poi a una rottura. La predetta pratica viene definita come “vincoli di stabilità e convergenza”, ma è matematicamente destabilizzante e divaricante. Ancora una volta, i vocaboli vengono scelti per ingannare. Insomma, l’attuale condizione dell’Italia, vista dall’esterno, dal punto di vista degli interessi suddetti, va benissimo e va mantenuta.
Scrive Zibordi12: “Le politiche di austerità e dei vincoli finanziari imposte dall’Eurozona hanno strangolato l’economia italiana. I trend di crescita degli ultimi trentanni si sono interrotti a partire dal 2000-2001. Anche rispetto al trend dal 1970 in poi quello che sta succedendo è un catastrofe. Il periodo dal 1970 è stato segnato da inflazione elevata e svalutazione del cambio e da altri problemi di mafia, spreco di denaro pubblico, rigidità del mercato del lavoro, inefficienza della pubblica amministrazione, terrorismo… Nonostante tutto questo, l’Italia ha mantenuto una crescita del reddito pro-capite1 abbastanza costante… … Il crollo della produzione industriale italiana degli ultimi cinque anni (-27% circa dal picco del 2007), è come si vede una continuazione del trend negativo creato dall’introduzione dell’Euro. Prima dell’Euro la produzione cresceva in modo simile in Germania e in Italia. Contrariamente a quello che molti ora pensano, negli anni’70 e ’80 l’Italia ha sì sofferto di inflazione più alta della media europea a causa della svalutazione e di altri problemi … ma ha mantenuto una crescita del PIL pari a quella della Germania. E’ vero che negli anni successivi alla rottura dei sistemi di tassi di cambio fissi (avvenuta nel 1971) l’Italia ha avuto una forte svalutazione del cambio rispetto alla Germania. Questa svalutazione si può stimare in un -84% complessivamente, a partire dal livello dei tassi di cambio di lira e marco degli anni ’50. Ma una svalutazione simile è toccata anche alla Gran Bretagna (-82%), alla Francia (- 71%) e agli Stati Uniti (-61%) nei confronti della Germania. E si potrebbe citare il caso dei due paesi forse di maggiore successo nel dopoguerra, la Corea che ha moltiplicato il proprio reddito pro-capite di circa 13 volte e Hong Kong che lo ha moltiplicato di circa 18 volte. In termini di tasso di cambio, il dollaro di Hong Kong ha perso il 73% verso il marco e il won coreano il -94%. I movimenti del tasso di cambio di una valuta non misurano la performance di un economia. E’ bene citare l’esempio recente del Giappone che negli ultimi due anni ha seguito una politica di espansione della moneta che ha fatto svalutare lo Yen di un 40% verso l’Euro (da circa 100 yen per un euro a 146 yen per un euro). L’Italia soffre di una disoccupazione del 12-13% e ha come valuta l’Euro che gode di un cambio fortissimo nei confronti del Giappone, il quale ha una disoccupazione solo del 4,5%. “
Le politiche di austerità e di vincoli finanziari che hanno strangolato l’economia italiana e altre economie europee, lasciano alla fine al nostro Paese due possibili esiti: a) rimanere nell’Euro e fare default sui BTP; b)uscire dall’Eurosistema.
Chi è fedele alla linea di rimanere nell’euro a tutti i costi alla fine sa che l’Italia alla fine dovrà fare un default parziale sul debito pubblico in euro… … Il motivo è semplice: con l’austerità il debito pubblico sale di 80-90 miliardi l’anno, mentre il PIL è fermo dal 2007. Lo stato italiano incassa più di quello che spende, ogni anno, circa un 2% del PIL in più ed è l’unico stato al mondo a tenere questo continuo surplus di bilancio grazie a continui aumenti di tasse. Queste politiche di “austerità” soffocano l’economia e in questo modo il PIL italiano che era di circa 1,550 miliardi nel 2007 oggi, dopo sette anni è ancora fermo a quella cifra (perché si è ridotto di un -9% in termini reali, ma l’inflazione cumulata in sette anni è stata circa dello stesso importo). … … Quindi anche strangolando l’Italia di tasse e incassando ogni anno un 2,5% di PIL più di quello che spende, lo Stato italiano al massimo ha sempre un deficit del 3% del PIL, per cui il debito pubblico sale del 3% circa del PIL (80-90 miliardi l’anno) mentre il PIL rimane fermo da anni. Ecco quindi che tutte le politiche di austerità, oltre a demolire l’economia, hanno fatto peggiorare anche il rapporto debito/PIL dal 119 al 137% del PIL (di circa appunto un 3% per sei anni). Per cui gli “insider” come ad es. la Reichlin e il mondo finanziario, si cominciano a preparare al giorno in cui si dovrà prenderne atto e organizzare un default sui 2.000 miliardi di titoli pubblici italiani sul mercato. … … La strada del default è disastrosa per l’Italia e il resto dell’economia che ci circonda e comunque non elimina il problema dell’Euro come valuta unica che impedisce ai singoli stati di aggiustare la quantità di moneta come si è sempre fatto in base alle proprie esigenze. Senza contare che un default serio dell’Italia (e di altri paesi a ruota), probabilmente provocherebbe un tale disastro economico da far saltare alla fine anche il sistema dell’Euro per il quale ci stiamo dissanguando.
L’alternativa è: b) ritornare ad una propria moneta.”
Questo insieme di considerazioni mostra ai partiti euroscettici come dovrebbero al più presto completare le loro analisi per renderle adeguate alla realtà e per evitare di essere ridicolizzati in termini di incompetenza tecnica, o, peggio, per evitare di riuscire a estrarre l’Italia dall’Euro solo per mandarla incontro a un disastro, sempre per incompetenza tecnica e ignoranza del funzionamento delle attività finanziarie.
Mostra, in aggiunta, che non è possibile, perché non verrebbe in ogni caso permesso dagli interessi globali suddetti, uscire dall’euro ritornando alle monete nazionali dall’oggi al domani, cioè ridenominando tutti i rapporti e i titoli da euro a lire, magari chiudendo le banche per qualche giorno per perfezionare il tutto con calma, come affermano o suggeriscono che si possa fare economisti di riferimento di Salvini e di Grillo, quali Alberto Bagnai e Claudio Borghi. Va bene come messaggio semplice per agganciare la gente, ma se tradotto in atti sarebbe un boomerang. I poteri forti globali non lo lascerebbero fare: contro il governo che accennasse a farlo, scatenerebbero i loro tipici strumenti: il rating, la Giustizia, il Quirinale, lo shorting (vendita massiccia allo scoperto), lo spread, la stampa europeista… e il malconsigliato premier sarebbe presto sostituito.
Per evitare questa reazione, raggiungendo egualmente l’obiettivo, si potrebbe adottare un piano graduale, come elaborato da Giovanni Zibordi, che si articoli in una prima fase con affiancamento all’euro di una valuta nazionale, una seconda fase di uso promiscuo, una terza fase in cui lo Stato paga solo con moneta nazionale. O qualcosa di equivalente. Ma sempre evitando la conversione forzosa dall’euro alla moneta nazionale, per non destabilizzare gli interessi globali legati all’euro e per non spaventare e colpire soprattutto i risparmiatori italiani. Tuttavia anche questa soluzione presenta difficoltà tali da renderla impraticabile, soprattutto perché probabilmente si scatenerebbero speculazioni tra Euro e Lira. Non resterebbe quindi che l’uscita brusca.
A chi crede che un’uscita dell’Italia dall’Euro avrebbe automaticamente l’effetto di far ripartire l’economia nazionale, va ricordato che, rispetto a quando l’Eurosistema nacque, l’Italia ha oggi, da un lato, un apparato produttivo smantellato per circa il 25% per effetto dell’Euro e della c.d. austerità, e dall’altro si trova a fronteggiare competitors diversi dalla Germania, cioè paesi come l’India, la Cina, che hanno costi di produzione frazionali rispetto all’Italia, sicché contro di essi la svalutazione competitiva non aiuterebbe moltissimo. Bisognerebbe piuttosto elevare il livello tecnologico ed eliminare le disfunzioni del sistema-paese: ma la prima cosa è molto difficile e lenta, e la seconda è praticamente impossibile, dato il radicamento anche nella mentalità prevalente di certi “mores” politici e amministrativi.
A uno scenario che imponga misure radicali – uscita dall’euro o default o tagli delle pensioni o confisca dei risparmi – potremmo arrivare già nel giro di qualche mese, al più tardi in un paio d’anni. I dati economici per l’Italia e le proiezioni degli organi specializzati, come dianzi spiegato, non lasciano dubbi: la recessione continuerà, le riforme di Renzi faranno cilecca sul piano economico, la sua affermazione di fine novembre che l’occupazione sia aumentata è stata dimostrata menzognera, Istat alla mano, da Luca Ricolfi nel suo editoriale su La Stampa del 29.11.14 (dove appare che la disoccupazione è ai massimi di tutta la storia d’Italia), la sua legge di bilancio per il 2015 manca di parte delle coperture, la situazione a breve si farà pericolosa, soprattutto se l’opinione pubblica scoprirà che l’Inps-Inpdap ha un buco di circa 10 miliardi per omessi versamenti previdenziali di enti pubblici (e già ora ci sono pubblici dipendenti che, a causa di ciò, non possono andare in pensione), e che il sistema bancario italiano ha circa 370 miliardi di crediti inesigibili, di cui quasi metà in una sola banca storicamente gestita da uomini di un importante partito politico.
Il ridicolo piano di rilancio di Junker, coi suoi magri 22 miliardi reali per tutta l’UE, che ha un PIL di oltre 4.500 miliardi, sembra calcolato per rinforzare e consolidare la sfiducia nella popolazione. In Italia, gli interessi costituiti, la casta europearda, centralista e austerofila, si consociano e si attrezzano per fronteggiare una possibile situazione preinsurrezionale mediante una riforma del parlamento e della legge elettorale che metta tutto nelle mani dei segretari di pochi grandi partiti politici. Mentre scrivo, andiamo infatti verso uno scenario di fallimento delle promesse renziane, di forte peggioramento economico, di dirompenti tensioni sociali, con un prevedibile prossimo parlamento ultra-maggioritario neoliberista che assicurerà, sì, la maggioranza a un governo fedele al modello economico in via di costruzione, ma che non rappresenterà la popolazione, anzi sarà in palese contrapposizione agli interessi di questa, e dovrà ricorrere alla repressione, legittimandola con i numeri in aula e con l’appoggio dell’”Europa”, e alla bisogna perfezionandola con l’arrivo della Trojka e dell’Eurogendfor, il corpo di polizia militare europeo costituito in funzione repressiva, e che gradualmente sostituirà le forze di polizia nazionali, le quali potrebbero avere troppi riguardi per la popolazioni o addirittura prendere le sue difese. Berlusconi può essere indotto a tener bordone agendo con la leva giudiziaria sui suoi interessi personali e familiari in fatto di processi penali e duopolio televisivo.
Recentemente, con un + 5% di PIL in un anno, i successi della politica monetaria USA, che ha portato (per ora) fuori dalla recessione il Paese dando la priorità al rilancio economico su quella del pareggio di bilancio, hanno evidenziato l’assenza di fondamenti reali dell’etica finanziaria del rigore e della virtuosità, incarnata dall’UE, è un’etica concepita a beneficio dei creditori renditieri (rentiers), degli usurai, dei produttori monopolisti di moneta e credito, che hanno recuperato il potere politico. Storicamente, ciò che aveva sostanzialmente ridotto i loro privilegi economici è proprio l’inflazione del primo e del secondo dopoguerra assieme alle politiche di spesa pubblica a sostegno della crescita economica, alla forte crescita dei redditi nazionali e all’effetto redistributivo di questa combinazione.
Essi ora, anzi da quando la Thatcher iniziò ad abbattere le tasse sui grandi redditi, presto seguita da Reagan e da altri, si prendono la rivincita imponendo un modello che antepone a tutto la salvaguardia delle rendite, anzi la loro rivincita, attraverso l’imposizione di condizioni opposte a quelle del secondo dopoguerra, cioè l’imposizione di stagnazione, spostamento di ampie quote dei redditi dal lavoro alle rendite, concentrazione dei redditi e dei capitali nelle mani di cerchie sempre più ristrette, strategie aziendali rivolte non alla crescita dei profitti ma della capitalizzazione borsistica, separazione del rischio di impresa dall’attività e dai profitti, e traslazione del rischio dal capitale privato ai conti pubblici e sulla popolazione; e forte crescita della quota della spesa pubblica che i paesi subalterni, come l’Italia, devono destinare al pagamento degli interessi sul loro debito pubblico.
Circa gli USA, per inciso, va ricordato che essi sono principalmente alle prese col problema del loro Dollaro, che viene sempre meno accettato (come biglietto e come bonds) nel mondo in cambio di materie prime e altro, quindi entra in crisi il meccanismo del potere e della prosperità degli USA nel mondo, ossia il meccanismo con cui, grosso modo da Bretton Woods, gli USA stampano carta per finanziare i loro approvvigionamenti di commodities e altri beni reali nonché per pagare le loro guerre e i regimi collaboranti, mentre con quei dollari i paesi che li accettano pagano le importazioni dagli USA (merci e armamenti). Questo meccanismo, dal secondo Dopoguerra, finanzia anche le guerre che gli USA conducono per imporre l’accettazione del loro Dollaro, soprattutto per imporre che il petrolio sia venduto solo in cambio di dollari, i modo che vi sia sempre domanda di dollari nel mondo, così che Washington possa continuare a comperare assets in giro per il mondo semplicemente stampando carta e collocando il suo debito pubblico. Perciò hanno eliminato Saddam e Gheddafi, che volevano venderlo in cambio di altre valute, e cercano di accerchiare e rovesciare il regime iraniano. I paesi Opec accettano solo dollari in pagamento del loro petrolio – e alcuni di loro, stretti alleati degli USA come l’Arabia Saudita e il Qatar, sovvenzionano (guarda caso!) gli “islamostri” del Califfato e altre fazioni islamiste. Il meccanismo suddetto è l’asse portante e la ratio della politica estera USA dal secondo dopoguerra, spiega il bellicismo di Washington e il suo sostegno a putsch e regimi dittatoriali. Ma essa ora, anche per altre ragioni legate all’oro e alla politica di Putin, sembra sempre più in crisi; sicché ci si può attendere, come estremo tentativo di salvarlo, una guerra di larga scala, da parte della superpotenza nordamericana, la quale resta essenzialmente una piattaforma tecnologico-militare per il dominio sul mondo (o larga parte di esso) da parte dell’oligarchia finanziaria che ne possiede la banca centrale, la Federal Reserve Bank Corporation.
Quota lavoro, quota capitale: redistribuzione inversa
In parallelo al Forum Economico di Davos nel gennaio del 2015, l’organizzazione Oxfam ha annunciato che il processo di concentrazione della ricchezza nel mondo farà sì che, entro un anno, l’1% più ricco della popolazione possieda una ricchezza superiore all’altro 99%. Il processo di concentrazione economica è molteplice: concentrazione dei patrimoni, dei redditi, della redditività (i patrimoni molto grandi rendono percentualmente molto più di quelli meno grandi, quindi divengono sempre più grandi, aumentando la diseguaglianza); in più, sempre crescenti quote del reddito totale si spostano dai lavoratori ai possessori e produttori di capitale finanziario, cioè ai banchieri. I pretesi interventi redistributivi a favore delle classi medie consistono, specialmente in Italia, in questo: togliere servizi e occupazione alle classi basse, creare così un’emergenza, e intervenire prendendo soldi non dalle classi alte, che nascondono all’estero e nel web i loro patrimoni, ma dalle classi medie, facendone nuove fasce di poveri. Gradualmente. Questo è stato l’attacco tributario al mattone.
Dal 1975 ad oggi la suddivisione dei redditi tra lavoro e capitale ha visto il capitale in grande rimonta e i lavoratori in grande arretramento, fino ai livelli del 1960. Ma che cosa diavolo è, questo capitale? Che cosa sono i soldi? Oggi sono meri simboli numerici, creati cliccando coi mouses in un network di computers dotati di licenza bancaria. E che costo di produzione ha il denaro, il capitale finanziario, che valore intrinseco? Nessuno, nessuno. E’ questa la realtà che, se la sai, cambia tutta la prospettiva e svela l’inganno, iniziando dall’illusione che possano mancare i soldi per gli investimenti e che bisogni attrarre capitali dall’estero – illusione, dato che ogni paese, volendo ed avendone la libertà, può generare tutto il capitale che gli serve a costo zero e, per giunta, senza cedere risorse a soggetti stranieri (cioè senza cedere aziende e redditi, i quali, fluendo verso l’estero, peggiorano le partite correnti) e senza divenire da essi dipendenti-ricattabili (vedi caso Thyssen-Terni). Imporre alle genti un siffatto peggioramento è stato reso fattibile dal venir meno della concorrenza, prima esistente, al modello capitalista, ossia al venir meno (della credibilità) del progetto alternativo, come era il progetto socialista. There is no alternative left.
Come come brillantemente esposto al parlamento di Westminster il 20 novembre 2014 dal deputato conservatore Steve Baker in un memorabile dibattito, il capitale finanziario altro non è che denaro scritturale “lent into existence”, cioè generato a costo zero (ma fruttante interesse) dalle banche con l’atto stesso di erogare i prestiti creando un pari accredito a se stesse, che possono spendere come denaro legale (cioè, col prestare 100 la banca crea 100 di prestato e 100 come proprio ricavo). Il denaro si crea semplicemente scrivendo numeri nei partitari. Quindi, da un lato il dato che i possessori-creatori di capitali tolgono crescenti quote di reddito ai lavoratori si spiega col fatto che essi, in virtù delle licenze bancarie, continuano a creare per se stessi capitale a costo zero prestandolo a interesse agli altri, ai lavoratori (di tutte le sorte), e sottraendo loro reddito in forma di interessi passivi. Dall’altro lato, questa continua creazione di denaro, di capitale, dà conto del continuo crescere dell’indebitamento generale e crea il crescente bisogno, per questo sistema capitalistico finanziario, di destinare tutte le risorse economiche e fiscali, compresi i redditi e i risparmi privati e la spesa pubblica, quindi le tasse, a sostenere il pagamento degli interessi sui debiti, perché, se il pagamento si interrompe, i valori dei titoli finanziari (che ultimamente sono crediti) crollano e con essi tutto il castello del capitalismo finanziario crolla in un financial meltdown. Ma il flusso degli interessi pagati si traduce in un flusso di rendite per i pochi beneficiari del sistema…
Col denaro generato come sopra, e con quello donato o quasi-donato loro dalle banche centrali (quantitative easing ed omologhi europei), cioè con denaro creato senza rapporto con la creazione di beni reali, i banchieri (direttamente o indirettamente) investono in titoli finanziari e in immobili (solo il 16% circa del denaro addizionale va ad impieghi produttivi – ecco perché siffatti interventi giovano poco l’economia reale, dall’America all’Europa al Giappone), gonfiando le famigerate bolle, che sono destinate a scoppiare perché sono bolle di valori creati sulla carta, senza corrispettivo valore reale; e i loro scoppi travolgono le banche, lasciando agli Stati di salvarle coi soldi dei contribuenti (bail-out). Ecco inoltre spiegato perché, nell’ultimo ventennio, i redditi da lavoro non sono aumentati in termini reali, mentre la produttività è aumentata di molto grazie alla tecnologia: i maggiori utili sono andati al capitale. Insomma, la creazione e regolazione della moneta non è affatto neutrale rispetto all’andamento economico e sociale, come invece insegnano i mendaci economisti di palazzo.
Accenno qui, per poi riprendere il tema, che il suddetto modo di produrre la moneta, o i mezzi monetari – o meglio ancora il suddetto modo di usare i crediti come moneta, produce un equivoco economico, contabile e giuridico appunto tra moneta, denaro in senso proprio e credito, con conseguenze molto problematiche e destabilizzanti.
Cosa ancora più grave, il produrre moneta-credito (mezzi monetari) mediante la pari e corrispondente produzione di debiti gravati da interesse composto, innesca automaticamente un meccanismo che porta a un incessante ed esponenziale incremento dell’indebitamento e che determina, a un certo punto, la fine della redditività degli investimenti industriali, quindi la recessione e la deflazione – quello che abbiamo ora – perché tutto l’utile viene assorbito dagli interessi passivi e dalle tasse. Questo è un dato di fatto storico. Di fatto, da queste situazioni in passato si è usciti sgonfiando il debito complessivo attraverso un misto di inflazione, default, (ripudio-disconoscimento dei debiti, remissione dei crediti, insolvenze e austerità, in proporzioni variabili tra loro a seconda dei tempi e dei paesi interessati); oggi, la pretesa europearda di uscirne solo mediante l’austerità è la pretesa di scaricare tutto il costo sui produttori e consumatori di ricchezza reale, sui lavoratori, sui giovani, per tutelare gli interessi dei grandi creditori-rentiers. E questa pretesa sta di fatto ostacolando, se non impedendo, lo smaltimento del debito, anzi sta peggiorando la situazione in diversi paesi.
Faccio ancora notare che questo sistema socio-economico, con la normativa che lo sostiene, è direttamente incompatibile con l’art. 1 della Costituzione italiana (“L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”) nonché con gli artt. 3 (principio di eguaglianza e della rimozione delle diseguaglianze: qui lo Stato è usato per fare proprio l’opposto), 35 e 36 (tutela del lavoro, dignitosa retribuzione), 41 (divieto di pratiche imprenditoriali contrarie al bene collettivo), 47 (tutela del risparmio), perché in esso il non-lavoro, la rendita parassitaria, il privilegio di creare moneta gratis, ha il diritto di togliere sistematicamente il reddito ai lavoratori e i risparmi ai risparmiatori. Quindi il semplice fatto che lo Stato, i Capi di Stato, i governi di questo Paese continuano ad accettarlo e sempre più anzi lo predicano e lo impongono alla popolazione, sul piano tecnico-giuridico li rende tutti, molto semplicemente, eversori della Costituzione e totalmente illegittimi – al di là che lo facciano liberamente o per costrizione – assieme alla legislazione in materia economica, finanziaria, monetaria, bancaria, perlomeno dall’inizio degli anni ’80 in poi, compresi i trattati europei, come appare chiaramente dagli scritti del giudice Luciano Barra Caracciolo, presidente di sezione del Consiglio di Stato, e soprattutto dal suo saggio del 2013, Euro e (o) democrazia costituzionale13, dove egli spiega concretamente, tra le altre cose, come la Costituzione italiana non è neutra rispetto al sistema economico-finanziario, perché i suoi principi di base prescrivono un’impostazione economico-finanziaria molto chiara, opposta a quella in via di attuazione oggi. Si può affermare che la Costituzione del 1948 è stata concepita proprio per prevenire che avvenisse la vittoria del capitale sul lavoro. Sovvertire questa costituzione è l’essenza delle riforme neoliberiste e filo-capitaliste in corso. Si deve alla fine riconoscere la realtà: ossia, che esiste una carta costituzionale facciale (o meglio, tutto un ordinamento legale facciale), quella che chiamiamo Costituzione, e una costituzione effettiva (nonché un ordinamento legale effettivo), che è completamente diversa, anzi contraria, a quella facciale, e che ha tutte le sue regole. Le istituzioni si attengono alla seconda. La “giustizia” ha la funzione di salvare le apparenze di legittimità dell’apparato, l’opinio legalitatis,
Essere di sinistra significa, concretamente, accendere i riflettori sulla suddescritta strategia del capitalismo finanziario ed elitario globale, e prendere le difese dei lavoratori e dei risparmiatori. Essere di destra significa fare l’inverso di ciò. L’ex PCI (PDS-DS-PD) è il partito di destra per eccellenza in Italia, il partito di servizio del capitalismo finanziario. La Chiesa Romana (quella istituzionale e visibile), sin dal medioevo (in cui si faceva pagare una tassa dagli ebrei per permettere loro di praticare l’usura, interdetta ai cristiani) ma ancor più dai compianti Monsignori Spellman e Marcinkus in poi, e col compianto Botin (uomo chiave dell’estrazione da MPS di circa 17 miliardi nell’acquisizione Antonveneta), è dentro fino al collo nei giochi della grande finanza, coi suoi grandi investimenti e con lo Ior, da cui dipende per il suo fabbisogno, e anche per il fatto che gode di sovvenzioni e privilegi tributari da parte di molti Stati, a spese degli altri contribuenti; quindi continua e continuerà a stare a quei giochi, a servire – per dirla con Gesù – Mammona e non Dio, e gli ammiratori del gesuita ridenominatosi Francesco aspetteranno invano che quest’ultimo condanni, o anche solo descriva, pubblicamente, il modo come realmente gira il mondo. Egli ne darà solo una versione morale o moralistica. La Chiesa, sin dai primi secoli, ha scelto di non esser povera, quindi non è libera dai comandamenti del profitto: li deve rispettare e, insieme, sottacere ai popoli. Infatti, mentre Gesù se la prendeva soprattutto coi peccati economici ed era indulgente su quelli sessuali, il clero cattolico, storicamente, ha preferito glissare sui primi e spostare la lotta sui secondi14. Credere che dai suoi vertici possa venire una guida per combattere avidità e corruzione è possibile solo a chi ignori la sua storia – salvo sempre l’intervento dello Spirito Santo.
Richiamo la vostra attenzione su una cosa importantissima: saggi come quelli di Caracciolo e della Undiemi si collocano in un nuovo orizzonte scientifico, che integra ciò che l’insegnamento pubblico ha cura di tener separato, ossia l’analisi giuridico-costituzionale e quella economico-finanziaria delle strutture di potere reali e formali, ovvero, se preferite, delle infrastrutture e delle sovrastrutture. Senza questa integrazione, non si può capire la storia contemporanea e i progetti che la intessono, e la ragioni di ciò che ci succede. La popolazione generale viene posta dai mass media e dalle istituzioni in condizione di conoscere solo la vulgata economico-giuridica sottesa a questo modello economico e non le altre versioni, cioè di dimenticare, in quanto ai meno giovani, e di non apprendere, in quanto ai meno vecchi, che è possibile, è esistito ed ha funzionato modello economico diverso, in cui il denaro veniva prodotto e speso per assicurare occupazione e sviluppo, in cui le banche centrali assicuravano l’acquisto dei titoli pubblici a un tasso sostenibile escludendo la possibilità di default, e che in questo modello i disavanzi interni ed esteri nonché i debiti pubblici erano molto più sostenibili di quanto lo sono ora nel sistema della virtuosità per usurai e finanzieri d’azzardo, sicché i governi e i parlamenti conservavano la capacità di elaborare e decidere politiche economiche e sociali anziché farsele dettare dai mercati e dai loro manovratori. E le persone comuni avevano perciò la possibilità di percepire una propria dignità differenziale rispetto alle merci, e di fare programmi di vita, di lungo termine – cosa che in fondo dovrebbe essere lo scopo non solo dell’economia ma della stessa esistenza dello Stato, e non lo è più.
La perdita di questa possibilità è sospinta da un meccanismo che oramai viene alla luce nel modello economico mercatista-finanziario di riferimento, che prescrive uno sviluppo guidato da esportazioni sempre crescenti rispetto alle importazioni;gli elementi del meccanismo sono:
-la libera circolazione dei capitali e delle merci (anche con paesi concorrenti sleali perché praticamente schiavisti);
-la competizione nelle esportazioni tra tutti i paesi, e nell’attrazione di capitali (investimenti) dall’estero;
-il divieto di recuperare competitività estera svalutando la moneta;
-quindi la necessità di recuperare competitività estera svalutando i salari, sul presupposto che la riduzione dei salari (o del costo del lavoro) comporti l’assorbimento della disoccupazione;
-ma con un effetto diverso: di fatto l’industria tende a recuperare competitività riducendo non tanto i salari quanto la produzione e l’occupazione (cioè limita la produzione in modo tale da realizzare il massimo utile marginale, e non totale);
-da quanto sopra, sta derivando il calo della domanda interna, che scoraggia gli investimenti (gli imprenditori non investono se non possono contare su una domanda solvibile dei loro futuri prodotti) e genera deflazione;
-consegue la necessità che l’economia si orienti ancora di più verso le esportazioni, esigendo dunque “più coraggio nelle riforme”, ossia ulteriori ribassi del costo del lavoro: una spirale di immiserimento pianificato della popolazione, virtualmente senza fondo;
-la recessione strutturale, conseguenza delle suddette prescrizioni economiche, sta portando a un progressivo declassamento dei titoli del debito pubblicato italiano, che il 6 Dicembre 2014 Standard and Poor’s ha bollato con BBB-, giusto un passo prima del livello spazzatura – livello che sarebbe già stato superato da un pezzo, se la BCE non continuasse a distorcere il mercato con acquisti massicci di debito italiano, abbassando artificiosamente i rendimenti; e lo deve fare, altrimenti il rating crollerebbe sotto C, lo spread schizzerebbe a livelli insostenibili e il sistema euro si romperebbe, mettendo in crisi gli interessi che la BCE tutela, e che non sono certo quelli degli italiani.
Le medesime prescrizioni sono i famosi “compiti a casa”, le “riforme strutturali” tanto predicate: un metodo per ridurre il grosso della popolazione a rassegnarsi, con la convinzione che “non vi sia alternativa”, a uno stato di incertezza e povertà, in modo da aumentare la sua distanza rispetto alla classe dominante e di ritornare all’ottocentesco rapporto di un ricco ogni cento poveri, o qualcosa di simile, o forse di ancor più radicale. Un metodo i cui fini sono mascherati da una falsa ricetta economica, cioè la competitività nell’export, come se fosse possibile per la generalità dei paesi realizzare attivi della bilancia import-export, o delle partite correnti, mentre ovviamente su scala globale il totale delle importazioni è ovviamente pari al totale delle esportazioni. Beninteso: in Italia è ovvio che occorrerebbe fare diverse e profonde riforme, ma di altro genere. Intanto, ad ogni modo, cresce il numero degli economisti che pubblicamente abbandonano, più o meno completamente, il modello neoliberista e rigorista, per non restare definitivamente sputtanati dal suo evidente fallimento di fatto rispetto alle promesse.
La popolazione generale italiana, se tiene la testa dentro alla “realtà” che le è permesso conoscere, cioè quella che sta dentro il predetto modello di economia virtuosa per usurai e renditieri marca Maastricht, può davvero pensare che il rimedio alle sofferenze che sta vivendo consista nel rinegoziare il parametro del 3% di deficit sul PIL per spuntare qualche punto percentuale di flessibilità, di spesa a deficit in più, come promettono i vari statisti contaballe, oppure l’immissione di qualche centinaia di miliardi da parte della BCE, i quali, come in passato, finirebbero alle banche per chiudere i loro buchi sommersi o per gonfiare nuove bolle speculativa, come sempre avvenuto durante questa “crisi”. L’unico rimedio effettivo sarebbe la sostituzione di quel modello con altri. Un’opposizione sociale vera e realistica dovrebbe puntare apertamente a questo rovesciamento di modello, non a negoziati per ottenere qualche concessione che, per forza di cose, sarebbe presto revocata alla prossima emergenza. E dovrebbe lottare con la coscienza che i tagli di salari, occupazione, garanzie, servizi sono stati intenzionalmente introdotti dalle istituzioni nazionali e sovranazionali come strumento per garantire e rafforzare le posizioni di una ben determinata classe sociale, fatta di renditieri finanziari, di monopolisti del credito; e che quindi si tratta di fare, con i mezzi necessari, se disponibili, non proposte o suppliche, ma una lotta di classe diretta a rovesciare un ordinamento economico-giuridico e a riprendersi i poteri pubblici, governativi, istituzionali, togliendoli a un preciso avversario di classe, per darli alla generalità dei cittadini, ammesso che ciò sia possibile.
Gli equilibri si rompono
È probabile che la rottura dell’equilibrio, dell’omeostasi di questo attuale sistema, sia alle porte, determinata dalla continua contrazione del reddito nazionale, che rende insostenibile il servizio dei debiti pubblici e privati, quindi tende a far saltare il sistema bancario. La Grecia può essere il detonatore. Se a questo punto i poteri forti decidono di mettere le mani nei conti correnti della gente e confiscare il risparmio per puntellare le banche e i conti pubblici, questa può essere la scintilla che coalizza le forze euro-scettiche e trasforma gli “scioperi sociali” della Fiom (novembre 2014), e in cui già si nota il ritorno di una consapevolezza e di una rabbia di classe, in un’attuazione di reale sovranità popolare di contro alla irreale rappresentanza di un parlamento di nominati e ultramaggioritario. Anche perché tale opzione di bail-in a carico dei risparmiatori farebbe capire a molti che il sistema di governance globale creato intorno al FMI, alla FED, alla BCE, al MES, alla Banca dei Regolamenti internazionali, alla Commissione, analiticamente messo a nudo nei suoi veri fini da Lidia Undiemi nel suo già citato saggio Il ricatto dei mercati, ha proprio la funzione di scaricare su lavoratori, pensionati, risparmiatori, cittadini, i danni causati dalle attività di azzardo e dalle truffe finanziarie di quella stessa classe internazionale che dirige le predette istituzioni sovranazionali. Un simile rovesciamento dal basso del modello socioeconomico non è possibile su scala nazionale, bensì solo su scala almeno continentale. Ed è improbabile che parta dagli italiani, gente storicamente incapace di simili imprese.
La rottura dell’euro potrebbe pure arrivare a seguito e per effetto l’imminente quantitative easing della BCE, ossia dell’immissione di grandi quantità di moneta europea aggiuntiva, che produrrà una svalutazione di detta moneta. In previsione di ciò, già da tempo è in corso una fuga dall’euro verso monete rifugio, in primis il franco svizzero. Al contrario di quanto ipocritamente dichiarato da Christine Lagarde, era quindi ben prevedibile che la banca centrale svizzera sbloccasse la parità forzata con l’euro e lasciasse rivalutare il franco, come ha fatto nel gennaio 2015. Il conseguente crollo della borsa di Zurigo è stato più che compensato dalla rivalutazione della moneta nazionale. È possibile che la BCE decida di proseguire per la strada di valutazione e mantenimento del sistema dei cambi fissi noto come euro, a danni soprattutto dell’Italia. Gli acquisti da parte di Draghi di titoli del debito pubblico italiano –beninteso- non sono un aiuto all’Italia, ma sono un modo per evitare che essa collassi ed esca dall’euro prima che abbiano finito svuotarla di quello che si può portar via. E per renderla rigidamente dipendente dalla volontà della BCE, in modo da poterla domani meglio manipolare da fuori. Non c’è giustificazione razionale economica all’euro. Le recenti vicende mostrano che porre cambi fissi è sostanzialmente imporre un prezzo politico alle monete: la scelta di tenerli bloccati a lungo è distruttiva per l’economia reale, serve solo agli usurai e ai redditieri, si scarica sul 90% è più della popolazione nonostante quello che ancora vanno predicando economisti folli o in carriera, al servizio dell’autocrazia europea.
Io mi aspetto che, semplicemente, coloro che tengono le redini lasceranno che gli squilibri si allarghino sempre di più, fino a produrre la rottura dell’Eurosistema, e che non gestiranno questa rottura in modo da minimizzare i danni per le popolazioni interessate, bensì in modo da massimizzare i loro profitti, scaricando i costi sui risparmiatori e sui contribuenti, a meno che non abbiano a temere seriamente una punizione sulle loro persone – cioè di essere linciati. Mi aspetto un grande insider trading, un grande business dell’emergenza, soprattutto in Italia, dove la classe dirigente è particolarmente criminale e irresponsabile verso il Paese, e dove la gente è particolarmente incapace di reagire. E proprio per questo non si sta affatto cercando di pianificare una soluzione alla crisi dell’euro: in campo monetario così come in campo sismico, idraulico, ambientale, la prevenzione rende poco e rende impopolari perché costa, anche in termini di consensi, mentre i suoi successi non sono notati dalla gente appunto perché consistono nel fatto che certe cose (alluvioni, frane, etc.) non avvengono; sicché i governanti lasciando andare le cose, sapendo che guadagneranno di più se la rottura colpirà prendendo le varie nazioni e le opinioni pubbliche alla sprovvista, perché nella catastrofe si spende molto e senza controlli, e poi si mettono tasse. Pensate a ciò che avvenne a seguito del terremoto de L’Aquila. Quindi fino al giorno prima le autorità monetarie probabilmente mentiranno, assicurando che l’euro è e resta irreversibile, così come hanno mentito già in passato, nel ‘92 per esempio negando fino al giorno prima l’imminente uscita dell’Italia dal sistema monetario europeo, e anche come è ultimamente successo con l’abbandono del cambio bloccato con l’euro da parte del franco svizzero, che le autorità monetarie svizzere escludevano fermamente. Quindi, di nuovo: bisogna diffidare delle istituzioni, perché mentono.
Una crisi poco economica
La “crisi” non è di origine economica (le ricette per uscire dalla recessione non mancano certo), e in fondo nemmeno di origine politica, bensì ultimamente sociologica: essa deriva, come già accennato, dal fatto che ogni società umana si struttura attraverso la differenziazione dei ruoli funzionali (quindi dei gradi di potere e conoscenza), e la tecnologia congiunta alla finanza rende questa differenziazione sempre più ampia e più forte; presto diverrà anche una differenziazione genomica, per via ingegneristica.
Appoggiandosi alla concezione popolare e falsa della moneta come dotata di valore proprio e onerata da costi di produzione e necessitante risparmio e accumulazione prima di essere spesa, e insieme appoggiandosi alla diffusa credenza che il mercato sia un insieme di leggi naturali sfuggenti alla volontà politica, le istituzioni e l’alta finanza dietro di esse alimentano e gestiscono l’allarme per un possibile del default contabile, e con tale allarme, col pretesto di inesistenti necessità tecniche, fanno passare, emergenza e riforma dopo emergenza e riforma, la costruzione di un ordinamento sovranazionale di stampo orwelliano, che controlla persone, risorse, comunicazioni, e soprattutto la conoscenza della realtà. Al contempo, una scarsità di moneta artificialmente imposta, mediante austerità di bilancio e indipendenza-irresponsabilità delle banche centrali, consente ai capitali stranieri di comperare, nei paesi deboli (debitori), assets pubblici e privati di pregio sottocosto.
A queste e altre tecniche di manipolazione collettiva ho dedicato, assieme all’amico Paolo Cioni, il saggio Neuroschiavi. Si può così gradualmente ridurre la partecipazione e il controllo dal basso. Ridurre le garanzie di ogni tipo, aumentando l’insicurezza. Trasferire redditi, ricchezza e potere dal lavoro produttivo (dipendente, autonomo, imprenditoriale) al capitale finanziario, anzi al cartello apolide dei produttori di moneta e credito – i grandi finanzieri.
Il fulcro della strategia descritta sopra, lo strumento principale della sua implementazione è la surrettizia introduzione di un tipo di moneta creditizia, progressivamente e automaticamente indebitante, di falsi principi contabili in materia monetaria e bancaria, assieme alla costituzione di un cartello monopolistico di moneta e credito, nonché del rating. Conviviamo, inoltre, con un sistema bancario che crea senza limiti (se non nella capacità di collocarli, di sbolognarli) titoli finanziari derivati, senza basi reali di valore, e che così produce ripetute bolle, i cui danni sono scaricati sul debito pubblico, sui contribuenti, sui risparmiatori, mentre i loro autori vengono messi in posizioni di governo. Appunto per questa ragione, si tratta di un sistema non-liberista, sebbene mimeticamente sia chiamato neo-liberista (come anch’io, per comodità, lo chiamo – sarebbe però più esatto chiamarlo pseudo-liberista). Un sistema liberista non consentirebbe a soggetti privati di impadronirsi di poteri pubblici e di usarli per trasferire sulla popolazione sottomessa o sui mercati reali i rischi e le perdite delle sue frodi e non userebbe fondi pubblici per chiudere i buchi di maxi-truffe finanziarie. I responsabili e i beneficiari finirebbero in galera, anziché a capo di ministeri e governi.
Il neoliberismo o capitalismo finanziario è appoggiato dall’instillazione di false concezioni (implicite) a sostegno delle pretese del capitale finanziario. Concezioni già confutate sopra, affermanti che il credito (i crediti delle banche verso i clienti, o dei clienti verso le banche o verso altri soggetti) sia insieme moneta e merce, e che la moneta sia oggettivamente scarsa, che possa mancare (“mancano i fondi”, “mancano le risorse finanziarie”), che abbia un costo di produzione, sebbene sia in realtà un mero simbolo producibili senza limiti oggettivi né costi.
Il capitalismo finanziario detta le regole alla politica, ma esso non è e non può diventare un fine, non è un sistema economico reale, sebbene venga accreditato e nobilitato come tale, come metro della buona gestione politica; esso è soltanto un metodo per moltiplicare sulla carta la ricchezza nominale, contabile, scritturale, alla quale non corrisponde una ricchezza reale, fruibile, ma al più un potere di sottrazione di tale ricchezza e di condizionamento sui governi e i parlamenti. E’ un metodo irresistibile, perché è quello che paga, che compera, che fidelizza, che distribuisce ricchezza nominale più di ogni altro. Ma quando fa venir meno la disponibilità dei beni che alla gente servono per vivere, allora difenderlo diviene sempre più arduo, la gente incomincia a non stare più al gioco dei sacrifici controproducenti e dei rinvii senza fine. Come alternativa al caos, diviene probabile il ricorso a una forma di militarizzazione della società. Ciò potrebbe avvenire in caso di scoppio di una bolla speculativa globale o, in Grecia e Portogallo, a seguito del disastro sociale apportato dalla Trojka e della possibile vittoria degli euroscettici alle prossime elezioni. In Italia, potrebbe avvenire in un’occasione di tradimento brutale delle promesse rassicuranti del governo – ad esempio, se a giugno 2015 il governo dovrà alzare l’iva al 25% non essendoci stato l’aumento del PIL di 13 miliardi previsto nella legge di stabilità. E non ci sarà anche perché la coalizione bancaria rigorista (Junker, Merkel e Bundesbank) ha duramente riaffermato i suoi principi respingendo e ridicolizzando i conati neokeynesiani di rilancio economico mediante spesa a deficit promessi e sollecitati da Renzi e Draghi.
Vulgus vult decipi
Indurre la popolazione generale a credere nelle spiegazioni fasulle dei fatti e dei progetti di economia politica, indurla ad accettare le decisioni che vengono via via prese, è facile per diverse ragioni. Eccone alcune.
Innanzitutto, pochi giudicano e agiscono sulla base della conoscenza e dell’analisi dei dati oggettivi; quasi tutti giudicano e agiscono in base a impressioni, preferenze, aspettative soggettive, e anche in base al gradimento per l’immagine del leader di turno: la gente pensa che i tratti caratteriali che un personaggio esprime siano poi anche quelli della politica che farà (da qui la costruzione sartoriale di leaders su misura e di stagione, come Obama e Renzi; da qui la rotazione di più leaders-immagine, prodotti di marketing, aventi ciascuno un diverso look per fare sempre la medesima politica entro il medesimo modello economico recessivo e filo-bancario: Prodi-Berlusconi-Monti-Letta-Renzi15).
In secondo luogo, pochissimi hanno una prospettiva storica, ossia confrontano gli impegni e gli annunci enunciati dai governanti l’anno prima con i loro fatti reali dell’anno dopo, o le promesse con i risultati. L’incoerenza oggettiva, le contraddizioni, non causano difficoltà al politico di fronte all’elettorato, perché l’elettorato non ci bada. Le istituzioni-guida delle scelte di politica economica (riforme incluse), dal FMI in giù, verrebbero ignorate come ciarlatane professionali, dato che, dall’inizio della crisi, le loro previsioni di ripresa a breve sono state regolarmente smentite dai fatti.
Se il dibattito politico-economico fosse oggettivo e aderente alla realtà, anziché soggettivo e distaccato dalla realtà, cioè se fosse laico-tecnico e non pre-condizionato da dogmi ideologici che devi rispettare per non essere a priori delegittimato come estremista o populista o socialista, quindi escluso dal dibattito stesso, allora il confronto tra i risultati promessi dall’applicazione di determinati modelli economici, monetari, di integrazione europea, da una parte, e i loro risultati effettivi, dall’altra parte, porterebbe alla messa da parte di quei modelli come errati e nocivi. Questo è ciò che avviene in ambiti dove si decide (seppur non sempre) su basi oggettive e realistiche, pragmatiche: scienza, tecnologia, impresa. Una teoria fisica che sia stata smentita dai dati sperimentali, viene scartata dai ricercatori come falsa. Un tipo di terapia che non produce miglioramenti o produce troppi effetti indesiderati, viene scartato dai medici come errato. Un’organizzazione delle vendite che dà risultati negativi, viene sostituita. Ma con i modelli economici ed “europeistici” di cui qui ci occupiamo niente di ciò avviene.
In terzo luogo, e soprattutto, il popolo può essere menato per il naso perché i meccanismi della macroeconomia come pure quelli della creazione e immissione in circolazione della moneta funzionano in modo controintuitivo, ossia contrario a quelli che la persona non specificamente preparata ha sperimentato nell’economia della sua casa o della sua azienda. Quindi è facile indurre la gente ad interpretare la situazione le misure economiche in base a principi irreali, ossia che uno Stato sovrano possa oggettivamente trovarsi a corto di denaro, che il denaro debba essere risparmiato prima di poter essere investito, che abbia un costo di produzione e che quindi sia dovuto un compenso per il suo uso, che la sua produzione richieda capacità e investimenti notevoli, che in passato abbiamo speso troppo per vivere sopra i nostri mezzi, quindi ora mancano i soldi allo Stato, per l’occupazione e per gli investimenti; che dobbiamo tirare la cinghia perché in fondo è colpa nostra.
Se una singola famiglia o azienda tira la cinghia, può riuscire a pagare i debiti, può ristabilirsi finanziariamente. Se invece tutti, su scala nazionale, tirano la cinghia, allora l’economia collassa, perché nessuno più compera, quindi crollano i redditi e conseguentemente non si riesce più a pagare i debiti: paradossalmente, su scala macro, l’austerità non ha l’effetto di consentire il pagamento dei debiti, ma quello opposto. E così se una banca è in difficoltà perché ha concesso prestiti anche a soggetti inidonei, quindi ha molte sofferenze, la soluzione è di restringere i criteri di concessione dei prestiti; ma se tutte le banche si mettono a restringere il credito, cioè la liquidità disponibile, allora mancherà la liquidità per pagare i debiti, e l’effetto sarà controproducente. La soluzione parrebbe consistere nel mettere più soldi in tasca alla gente, ma non è così semplice. Se aumentiamo il reddito o comunque diamo più denaro alle classi più deboli oggi in Italia, non è detto che queste lo spendano, perché in buona parte preferiranno metterlo da parte, aspettandosi tempi peggiori; oppure lo spendono, ma per comperare beni di importazione, peggiorando così la situazione economica nazionale e la bilancia dei pagamenti. E se offriamo più crediti alle imprese, non è detto che queste se ne avvalgano per investire, perché prevedono che non ci sarà una domanda interna che comperi i loro futuri prodotti e servizi. Ecco perché la soluzione migliore sarebbe la spesa pubblica diretta in investimenti infrastrutturali, dai trasporti alle comunicazioni alla scuola alla ricerca all’ambiente, perché questi investimenti vanno a generare lavoro e produzione di beni e servizi principalmente nel territorio nazionale, da una parte, e dall’altra hanno un alto moltiplicatore di reddito, cioè per ogni euro investito il reddito nazionale aumenta di due o tre. Ma in Italia il moltiplicatore di reddito è pressoché zero, a causa del carattere incompetente-parassitario del settore pubblico. Bisognerebbe quindi prima eliminare e sostituire la classe politico-amministrativa.
Mi soffermo qui brevemente su alcuni dogmi che formano il nocciolo della dottrina economica istituzionale su cui si fondano le correnti policies: le colpe della spesa pubblica e del debito pubblico, l’utilità di comprimere i diritti dei lavoratori, la globalizzazione (abbattimento delle barriere all’import-export) e l’economia di mercato.
Le istituzioni insegnano che la depressione economica in cui versiamo sarebbe causata dall’eccessivo debito pubblico a sua volta causato dall’eccessiva spesa pubblica; quindi il rimedio è tagliare la spesa pubblica e pagare più tasse. E’ vero che è stata fatta e ancora si fa molta spesa pubblica parassitaria, che tira a fondo il paese; ma, dati alla mano16, la spiegazione istituzionale predetta è un insieme di menzogne. Il rigore oggi toglie al paese il denaro indispensabile per lavorare e produrre (il che è paradossale), quindi abbassa il PIL (domanda, produzione, investimenti, occupazione, solvibilità) e spinge all’insù deficit e debito. La spesa pubblica italiana (pur essendo in buona parte male allocata) è sempre stata, quantitativamente, entro i limiti della “virtuosità”17, tranne che per gli interessi – cioè per quella sua quota che remunera gli investimenti perlopiù delle banche, e che è responsabile dell’impennata (raddoppio) dell’indebitamento per effetto della privatizzazione e indipendenza della Banca d’Italia dal Governo (1981, Ciampi-Andreatta), le quali hanno consentito un’impennata dei rendimenti del debito pubblico quindi una lucrosissima speculazione ai mandanti bancari della classe politica a spese della nazione: l’attuale debito pubblico di 2.000 e rotti miliardi non è molto superiore a quanto pagato per interessi su di esso.
I debiti pubblici europei si sono aggravati di circa 2.000 miliardi e destabilizzati, dopo lo scoppio della bolla del 2008, perché i governi hanno socializzato, cioè trasferito sui conti pubblici e sui cittadini, i buchi delle banche aperti dai banchieri con le loro speculazioni finalizzate al loro privato profitto. La spesa pubblica italiana è stata strutturalmente modificata, per trasferirne una buona quota da impieghi in favore dei cittadini a impieghi a profitto dei finanzieri usurai internazionali, dapprima con la suddetta operazione del 1981, poi con la svalutazione del 1992 associata all’abolizione della scala mobile (Craxi-Ciampi-Amato), operazione che ha iniziato la serie degli avanzi primari (saldi attivi del bilancio pubblico al netto degli interessi). In conclusione, i fatti sono che i governanti italiani, dal 1980 ad oggi, hanno operato per trasferire reddito e risparmio dai cittadini ai finanzieri, e da qualche anno usano lo squilibrio così artatamente prodotto per imporre la devoluzione di ulteriori diritti e poteri, di natura politica. Pertanto abbiamo le istituzioni nazionali e internazionali che creano allarme sulla solvibilità facendo così scendere il rating e salire i rendimenti (cioè i profitti delle banche che controllano le agenzie di rating), poi interviene in extremis attraverso la BCE (Draghi) per “salvare” i paesi in difficoltà a condizione che questi si impegnino a dirottare ulteriori quote di risorse dalla popolazione alle rendite finanziarie e ai profitti attraverso ulteriori tagli, riforme e privatizzazioni.
A un livello più profondo, infine, per evidenziare la mala fede della dottrina dell’austerità, va fatto ben presente che, essendo la moneta oggi in uso nient’altro che un simbolo legale di valore, producibile senza costi e senza limiti intrinseci18, uno Stato che, direttamente o attraverso una banca centrale da esso controllata, può emettere moneta, è sempre in grado di pagare i propri debiti, quindi di prevenire la speculazione, escludere il default e tenere bassi i tassi di interesse (vedi USA, Regno Unito e Giappone): per esso il debito pubblico non è che un numero su un partitario. I problemi col debito pubblico li ha invece uno Stato come l’Italia, che programmaticamente è stato posto in condizione di non controllare la moneta in cui il suo debito è espresso e che dunque ora si deve procurare questa moneta sui mercati speculativi, oppure da prestatori istituzionali come FMI e MES, che prestano molto largamente e volentieri ai governanti in difficoltà, sia perché in cambio ottengono trattati e impegni che aumentano il loro potere sui popoli e avvantaggiano il business del capitale globalizzato, sia perché sanno che poi i governanti pagheranno loro capitale e interessi prelevandoli fiscalmente dai loro “sudditi”, e trattenendosi incidentalmente il corrispettivo per la loro c.d. intermediazione politica, o “costo della democrazia”.
La gente tende anche a trovare plausibile la tesi che, se si abbassano i salari e i diritti dei lavoratori (la flessibilità si traduce in un minor costo del lavoro), si potrà vendere di più, assumere di più, investire di più: questa è l’essenza delle “riforme strutturali”. Ciò è vero per una singola ditta, ma è falso su scala macro, su scala nazionale, perché se si abbassano i salari si abbassa anche la capacità di spesa, la domanda interna – solo che oggi il grande capitale, quello che detiene il potere reale, non ha più bisogno, per realizzare profitti, di produrre e vendere beni e servizi come fino al secolo scorso, quindi non ha più bisogno di una vasta domanda solvibile, perché esso ha imparato a moltiplicarsi in via finanziaria e contabile, senza passare per l’economia reale, per i lavoratori e i consumatori. In questo senso, i popoli sono divenuti superflui, e proprio per questo incapaci di conservare i loro diritti civili, economici, politici.
Tornando ai lavoratori, aggiungo che, se si riducono i diritti, la stabilità e le garanzie del posto di lavoro, si ottiene – l’esperienza nel mondo lo ha mostrato – non maggiore qualificazione produttività, ma un deterioramento delle professionalità dei lavoratori e un incentivo alle imprese a non ammodernarsi. Oltre, ovviamente, all’imbarbarimento delle condizioni generali di vita e della dignità del lavoratore, che col Jobs Act viene posto in balìa di ogni ricatto, vessazione, bossing, straining da parte del datore di lavoro, adesso legalmente attuabili attraverso videosorveglianza, demansionamento, trasferimenti ad libitum.
La globalizzazione, altro pilastro del nuovo ordine mondiale, anziché produrre la promessa allocazione ottimale delle risorse e la promessa distribuzione ottimale dei redditi, come si è riusciti a far credere a larga parte della popolazione, ha prodotto una competizione selvaggia al ribasso soprattutto sui salari e sui diritti del lavoro, il cedimento della domanda interna, e una drastica desertificazione economica in molti paesi, e specialmente in Italia, senza contropartite.
Veniamo al già accennato dogma del libero mercato “efficiente” (ossia che per sua natura, cioè grazie alla sua mano invisibile, previene o riassorbe le crisi e massimizza la produzione minimizzando i prezzi), e che perciò deve guidare l’economia e la politica, premiando con tassi più bassi sul debito pubblico i più virtuosi e correggendo con tassi più alti i cattivi. L’applicazione di questo dogma ha prodotto risultati esattamente opposti, deprimendo produzione e consumi e mantenendo anzi amplificando le crisi. E non poteva andare diversamente, soprattutto per due ragioni: a)perché i mercati in realtà non sono trasparenti né liberi, bensì opachi e dominati da monopoli e cartelli nelle cose che più contano, come moneta, credito, energia, materie prime, informazione; b)perché oggi i mercati di riferimento non sono (più) mercati dell’economia reale, della produzione e consumo, cioè quelli presupposti dal dogma in esame; ma sono i mercati finanziari, improduttivi, che massimizzano gli utili non massimizzando produzioni e consumi di beni e servizi, bensì aumentando l’ampiezza e la frequenza delle crisi o bolle che il capitalismo finanziario genera per realizzare più profitti speculativi, e coltivando le diseguaglianze geografiche dei prezzi per accrescere i profitti da arbitraggio.
I suddescritti falsi dogmi, che vengono organizzati in false concezioni instillate nella popolazione, giustificano operazioni dirette al saccheggio dei suoi redditi, risparmi, diritti anche politici. Il fatto che le istituzioni continuano a difendere tali concezioni e a portare avanti le loro applicazioni in tutto l’Occidente ma soprattutto nell’Unione Europea, persino dopo che queste si sono dimostrate (come noti economisti avevano predetto anche 40 anni fa) disastrose per la popolazione generale e vantaggiose per una ristretta élite – scusate se mi ripeto – è la prova provata che si tratta di mistificazioni in mala fede entro un piano di ristrutturazione sociale, economica, giuridica delle società, elaborato e realizzato da quella medesima élite.
I vari paesi “liberi”, “democratici”, non sono comunità che si autogovernano dal loro interno, ma una sorta di aziende gestite da padroni esterni aventi il fine di estrarre da esse il massimo dei profitti, servendosi di figure istituzionali formalmente legittimate e dotate di un consenso popolare costruito mediante la una falsa e limitata informazione che danno la scuola e i mass media. Il dibattito politico, tra destra e sinistra parlamentari, si muove entro limiti così prestabiliti – le “regole” richieste dall’”Europa”, ad es. – e rimane avulso dalla realtà: non può nemmeno parlare di parti rilevanti di essa. Gli slogan e i concetti-guida di questa realtà fasulla sono ripetuti in un continuo bombardamento da tutti gli schermi e da tutte le testate dei giornali, accompagnati da continui allarmi di default possibile e da promesse di sviluppo che non si realizzano mai: è una propaganda in tutto simile a quella dei fondamentalisti islamici e dei regimi totalitari, che continua a rilanciare la vittoria finale a dopo nuovi sforzi, sacrifici e rinunce. Chi fa critiche di fondo alla dottrina ufficiale ed esce dal range di opinioni consentite, politicamente corrette, viene etichettato come “antagonista” o peggio, analogamente a chi manca di rispetto al Profeta e al suo Libro. La discussione laica, empirica, basata sui risultati, è spesso impedita o scoraggiata, come la ricerca scientifica ai tempi di Galileo e Leonardo. Il non criticare, il non porre in dubbio quel paradigma, quel dogma, è stato eretto a obbligo morale, a requisito di legittimità delle proposte. Ecco costruito uno stato orwelliano democratico, ossia basato su un consenso popolare prodotto e mantenuto mediante l’indottrinamento corale a tappeto, assistito dall’allarmismo.
Gli errori dei nostri governanti, romani ed “europei”, sono dunque certissimamente intenzionali. Vi anticipo anche che esistono mezzi economici – riforme – che consentirebbero, volendosi, in tempi molto rapidi, di uscire dall’attuale crisi o depressione e riprendere lo sviluppo ristabilendo i livelli di certezze, serenità e benessere che oggi stiamo dimenticando. Mezzi che troverete abbondantemente descritti che nei miei vari saggi, da ultimo l’e-book I signori della catastrofe. Ma chi ha l’effettivo potere decisionale è fermamente deciso a non attivarli, anzi ad oscurarne la disponibilità, confinando invece il dibattito politico ed economico ufficiale entro alternative innocue e impotenti, come austerità-flessibilità, economia dell’offerta-economia della domanda, etc.: una ulteriore riprova del piano di ingegneria sociale suddetto.
Questa manovra riformatrice di forza è possibile perché, come meglio si capirà leggendo, i popoli sono ormai divenuti superflui e fungibili, ossia perché l’evoluzione tecnologica, e soprattutto la finanziarizzazione-informatizzazione-accentramento dell’economia consente di governare il mondo senza dipendere dal consenso, dalla collaborazione e dalla stessa esistenza dei singoli popoli, dissolvendo l’antica solidarietà funzionale territorio-popolo-governanti, che è alla base di ciò che chiamiamo “democrazia”, “stato sociale”, “garanzie”, e soprattutto degli stati nazionali democratici parlamentari, il grande nemico del sedicente europeismo. Questa è la rivoluzione con cui si è aperto il XXI secolo, ed è il tema del mio saggio Oligarchia per popoli superflui.
La rivoluzione ventura attiene invece, verosimilmente, alla genetica e alla manipolazione del genoma soprattutto umano, che ha perso la sua inviolabilità sotto i colpi della scienza ed è stato aperto alle pratiche di ingegneria genetica “antropoplastica”. Presto, se non già ora, come anticipava Bertrand Russell nel 1951 (L’impatto della scienza sulla società), la superiorità di una classe privilegiata sulle altre, già perseguita con mezzi primitivi dagli Spartani, può diventare un fatto biologico e oggettivo, indiscutibile – con le ovvie conseguenze sul piano del diritto.
Tumori e parassiti
Questo il quadro generale, globale. Al suo interno, l’Italia, in particolare, agonizza in problemi ulteriori (cui ho dedicato Basta Italia, Traditori al Governo e Sbankitalia):
-il dogma, mantenuto e difeso anche davanti al suo palese effetto controproducente, dei vincoli esterni: poiché l’Italia è un paese-cicala che non sa disciplinarsi finanziariamente da sé, per risanarla (renderla competitiva, produttiva), bisogna impedirle l’aggiustamento del cambio valutario ancorando la sua valuta a quella dei paesi “virtuosi” e imporle vincoli esterni di bilancio attraverso trattati internazionali la cui applicazione verrà imposta sempre dai paesi virtuosi; il risultato di questo “Patto di stabilità e sviluppo” (il Trattato di Maastricht), che ci toglie il denaro per lavorare e produrre, è la deindustrializzazione, la disoccupazione, la spirale debito-tasse-recessione;
-la c.d. moneta unica, che ha asfissiato le esportazioni italiana, producendo fuga di capitali e imprese, quindi desertificazione economica e disoccupazione, a vantaggio dell’altra potenza manifatturiera europea, cioè la Germania, che ha potuto rilanciarsi sfruttando il fatto che il blocco del cambio con l’Italia le consentiva di esportare sempre di più e accumulare attivi esteri senza subire il fisiologico aumento apprezzamento della sua valuta, che avrebbe ridotto la sua competitività; questo meccanismo opera automaticamente e inevitabilmente, sicché è molto ambigua la linea di una certa sinistra radicale o pseudo-radicale (e pseudo-sinistra), che vuole mantenere l’Euro-sistema con le sue regole, e insieme non ne vuole (a parole) le conseguenze (mi riferisco a Syriza in Grecia e Podemos in Spagna);
-il conseguente doppio canale di profitto, per i paesi euroforti – e doppio canale di danno, per quelli eurodeboli -, consistente nel fatto che i primi dapprima inondano i secondi con le loro esportazioni favorite dal cambio a loro favorevole, rinforzando il loro industrie a danno di quelle dei secondi e realizzando surplus commerciali; poscia prestano ai paesi eurodeboli questo surplus, realizzando profitti finanziari; oppure usano il surplus per comperare assets validi di questi paesi; quando infine i paesi eurodeboli entrano nell’inevitabile crisi finanziaria prodotta da queste premesse, li costringono, agendo sui loro governanti infedeli, a taglieggiare i loro cittadini per pagare gli interessi e rimborsare i capitali (così Germania e Francia con Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda);
-la sottoposizione a un apparato comunitario dominato dalla Germania imperialista, che ne formula e piega e viola le regole a proprio vantaggio e a scapito soprattutto dell’Italia, trasformandola in un’area di lavorazioni a bassa remunerazione per il suo sistema industriale;
-la progressiva abdicazione ai poteri e alle responsabilità legislative e amministrative da parte dello Stato, in parte in favore di istituzioni comunitarie, ma in parte principale in forma di semplice abbandono, dismissione di quei compiti di fronte e a beneficio dei “mercati”;
-la sovversione della Costituzione (soprattutto della sua prima parte, con i suoi principi keynesiani prescriventi il perseguimento del pieno impiego), attuata attraverso una serie di trattati (soprattutto quelli europei) e riforme (soprattutto bancarie e fiscali) sviluppanti effetti ritardati, introdotti mediante un uso illegittimo dell’art. 11 della Costituzione (il tutto come descritto anche dal giudice Luciano Barra Caracciolo nei suoi scritti e pubblici interventi);
-il PCI-PDS-DS-PD, che in persona dei suoi capi, da Veltroni a Renzi, passando per Napolitano, dopo il crollo dei regimi comunisti, ha astutamente ricostruito le sue fortune alleandosi con gli interessi finanziari che volevano quanto sopra, offrendosi all’attuazione del modello socio-economico in questione, quindi tradendo radicalmente gli interessi del suo elettorato di riferimento nonché la propria matrice (ossia, da partito della difesa dei lavoratori contro gli interessi del capitalismo finanziario si è convertito a partito garante degli interessi del capitalismo finanziario contro quelli dei lavoratori e della collettività in generale), oltre ai principi fondamentali della Costituzione italiana, soprattutto quelli voluti dalla sinistra di allora, a tutela del lavoro, dell’eguaglianza sostanziale, dello sviluppo economico, del risparmio, dell’orientamento al bene comune dell’attività imprenditoriale, compresa quella bancaria (art. 1, 1° c., 35, 36, 41, 42, 43,47);
-i politici cattolici, che, nella grande maggioranza, non sono stati da meno, in fatto di servizio agli interessi suddetti, iniziando con Andreatta e continuando con Ciampi (che era comunista, con tessera della CGIL – dice Wikipedia), Prodi, fino a Monti e Letta e Renzi;
-un sistema bancario un tempo costituito perlopiù di istituti pubblici, che complessivamente non faceva mancare credito alle imprese né alle famiglie né al settore pubblico, ma che fu riformato-privatizzato su istigazione europeista nel 1995 (riforma Amato), per mutare le banche da istituti di credito in “banche universali” che si sono dedicate alla disinibita ricerca del profitto, ai contratti derivati e alle speculazioni coi soldi dei risparmiatori, venendo meno alla loro funzione di finanziare l’economia reale (per contro, la Germania si è tutelata dalla velenosa ricetta della privatizzazione assoluta: ancora oggi il 70% del credito alle imprese viene erogato da banche controllate dal settore pubblico, a tassi frazionali rispetto a quelle italiani, onde vincere, anche contro l’Italia, nella competizione per i mercati esteri);
-un sistema di potere interno basato sul parassitismo consolidato (dei partiti, della burocrazia, di alcune regioni), e che quindi non è possibile che tagli la spesa improduttiva e risani il Paese, perché la spesa improduttiva è il suo reddito specifico (infatti le sedute delle commissioni bilancio del parlamento sono “riservate”: l’opinione pubblica non deve ascoltare partiti e grandi burocrati che trattano la spartizione dei soldi del contribuente) e si traduce in maggiori tasse e accise, con la conseguenza che, ad es., l’energia costa molto più che all’estero;
-la “giustizia” colpisce alcuni elementi del malaffare, con criteri discutibili e con effetti nulli sul sistema complessivo; le indagini sui fatti di corruzione (corruzione-peculato-concussione-turbativa d’asta etc.) fanno notizia, ma fondamentalmente la gente accetta il sistema e in ogni caso non ha i mezzi per cambiarlo;
-il maggior costo degli appalti pubblici italiani (300-500%) e della pubblica amministrazione italiana (30%) e la minore efficienza del settore pubblico, rispetto ai partners europei più sani, danno la dimensione di quanto gli apparati della buro-partitocrazia tolgono dalle risorse pubbliche e dai soldi pagati dai contribuenti (ecco perché è improprio e ingannevole parlare di spesa pubblica “virtuosa” con riferimento all’Italia).
Rispetto al mio saggio del 2008, Basta Italia!, aggiungo oggi, sette anni dopo, che, per mantenere questo reddito illecito e le sue poltrone, la casta italiana si è alleata col capitalismo soprattutto tedesco e francese, e mette a sua disposizione il Paese e le sue istituzioni, creando deliberatamente situazioni di disperazione che consentono ai capitali stranieri di prendersi i più redditizi assets e mercati italiani;
– in quest’ottica, i governi filogermanici iniziati col colpo di Stato del 2011, soprattutto il primo, quello di Monti, hanno adottato misure idonee a stroncare ogni possibilità per l’economia di riprendersi e a condannarla a una ulteriore e profonda recessione; in tal senso, vedasi il colpo micidiale inferto da Monti al mercato immobiliare, mercato che da un lato innesca sia le fasi espansive che quelle recessive, e dall’altro lato consentiva a privati e imprese di finanziarsi dando in garanzia gli immobili, quindi di creare liquidità; perciò, abbattendo il mercato immobiliare con le sue tasse e con queste raccogliendo meno di 50 miliardi contro una svalutazione immobiliare di migliaia di miliardi, Monti, col sostegno di quasi tutto l’arco politico, ha assicurato alla Germania che l’Italia si mettesse in ginocchio e ci restasse;
-l’Italia è oramai quasi compiutamente tiranneggiata dall’estero, sottoposta al governo di interessi privati stranieri, che la stanno riformando a loro piacimento, analogamente a ciò che avviene a una grande impresa in crisi che viene rilevata, smembrata e riformata dalla concorrenza vincente.
Sistemi troppo complessi
A questo punto è più che chiaro che la natura dei problemi in cui ci dibattiamo non è economica, ma di ingegneria o ristrutturazione sociale. Cioè, non è che manchino soluzioni tecnico-economiche per saltare rapidamente fuori dalla depressione. Ci sono e le si conosce. Solo che l’obiettivo di chi ha il potere decisionale è un altro.
Ad ogni modo, vogliate riflettere su come coloro che, anche con riguardo al problema della ristrutturazione dell’Euro e dell’UE in crisi, elaborano e propongono soluzioni, muovono quasi tutti da una visione ingegneristica, lineare, ossia partono dalla visione di chi guarda dall’esterno in un meccanismo difettoso, lo studia, e pensa a come intervenire per modificarlo e ripararlo dall’esterno, crede di scoprire dove stiano l’inghippo e la soluzione, quindi enuncia “bisogna far questo, bisogna far quello”. Molti celebri economisti sono di questa “scuola”, di questa forma mentis. Quello degli aspiranti riformatori e risolutori dei mali economici è un atteggiamento tanto comprensibile, quanto ingenuo e inadeguato. Inadeguato perché i sistemi socio-economici non sono analoghi alle macchine, e quegli economisti non tengono conto di quella complessità e le sue dinamiche.
Invero i detti sistemi
-sono immensamente più complessi, delicati, incontrollabili e imprevedibili delle macchine;
-sono persino troppo complessi persino per essere conosciuti adeguatamente;
-non sono cose passive e inerti, ma organismi attivi e reattivi rispetto a ogni intervento su di essi;
-hanno un fattore di resistenza o inerzia psicologico, ossia la mentalità e le abitudini (mores) della gente, nell’economia e nella politica;
-in essi le popolazioni rispondono in modi sovente irrazionali agli interventi, anche in modo imprevedibile;
-in essi vi è chi tutela i propri interessi particolari, opponendosi con ogni mezzo, anche molto potente, alle riforme che, pur giovando alla società nel suo insieme, nuocciono a loro o compromettono i loro privilegi i poteri: infatti,
-le oligarchie detentrici del potere effettivo tutelano i propri vantaggi economici rispetto alla popolazione generale, ma ancor più tutelano intransigentemente la propria posizione differenziale di dominanti rispetto ai dominati, e i presupposti giuridici e tecnologici di tale posizione;
-chi vuole modificare e correggere i sistemi sociali non si trova fuori di essi e indipendente da essi, ma sta dentro di essi e subisce la loro azione e reazioni su di sé;
-le popolazioni non di rado, sebbene ciascuno o la gran parte dei loro membri comprendano che cosa le sta portando alla rovina e che cosa potrebbero fare per evitarla, persistono nei comportamenti sbagliati fino alla distruzione della loro civiltà, come è avvenuto con gli abitanti dell’Isola di Pasqua, con i Maya, con i Greci classici, e come sta avvenendo con gli Italiani, e probabilmente con l’intero genere umano in fatto di ecologia: la comprensione su scala individuale non si traduce in conseguenti comportamenti dell’insieme. Al contrario, sempre più assistiamo oggi all’affermarsi, dalla scuola primaria in poi, di metodi di irreggimentazione e limitazione del pensiero della popolazione attraverso il martellante uso, da parte delle istituzioni e dei media, di locuzioni, espressioni, clichés, figure retoriche veicolanti false interpretazioni della realtà, atte a bloccare la comprensione di molte cose e processi fondamentali in corso, nonché delle intenzioni e degli interessi retrostanti: un linguaggio simile al linguaggio di controllo sociale preconizzato da Orwell come “newspeak”, “neolingua”.
Nonostante tutto quanto sopra delineato, il divenire storico è e resta il risultato sempre in divenire e mai definitivo dell’interazione tra i comportamenti più o meno liberi e consapevoli di miliardi di persone, nonché di fattori impersonali (eventi climatici, geofisici, astronomici); pertanto esso è pressoché imprevedibile e ingovernabile nel lungo termine. Persino gli apparati di dominio più potenti sono soggetti a guastarsi internamente, a logorarsi e rompersi, a perdere il controllo dei sistemi ultra-complessi, quali sono quello globale e anche quello continentale. A farli cadere sono, insomma, processi endogeni piuttosto che azioni dirette, consapevoli e organizzate dal basso, cioè politico-democratiche. E, tra i processi endogeni, primeggiano oggi quelli dell’accelerazione dell’evoluzione tecnologica e dei fattori di instabilità sistemica.
Sta in questa possibilità di rottura endogena, credo, la nostra principale ragione di speranza che la vita della quasi totalità del genere umano non subisca, nel corso dei prossimi lustri, un degrado fino a condizioni che solo un pari degrado della nostra sensibilità e dignità potrebbe rendere sostenibili e preferibili alla morte. In questo scenario, i popoli, per ora, sono come pecore in un autocarro che le porta al macello correndo a velocità alta e crescente su una strada tortuosa. Può realisticamente avvenire che l’autocarro sbandi e si capovolga, che molte pecore restino ferite o uccise, e altre abbiano la possibilità di fuggire verso un futuro incerto, probabilmente migliore del macello. Le pecore potrebbero anche far ribaltare l’autocarro se si raccogliessero tutte a destra o sinistra, ma l’autorevole e rispettata voce dell’autista (del premier, del Colle, dell’Europa…) le ammonisce a non farlo, altrimenti si farebbero molto male e perderebbero la possibilità di un domani migliore. Le pecore si limitano a protestare e non intraprendono azioni efficaci. Questa metafora mi sembra la più idonea a rappresentare la nostra condizione presente, la nostra gamma di scelte e le nostre ragioni di speranza.
Peraltro, un recentissimo studio di ricercatori australiani (http://rt.com/news/185168-limits-to-growth-updated-models/) ha trovato che i dati rilevati negli ultimi 36 anni collimano sostanzialmente con le predizioni matematiche fatte per il Club di Roma dal MIT nel 1970 ed esposte nel suo famoso saggio I limiti dello sviluppo: la recessione che stiamo vivendo in ampie aree del mondo è probabilmente l’avvisaglia della recessione globale causata dal raggiungimento dei limiti fisici della possibile crescita economica – recessione che, secondo le proiezioni, dovrebbe iniziare nel 2015 su scala planetaria e portare dal 2020 a un forte e progressivo aumento della mortalità, in uno scenario di lotta tra le grandi potenze per l’accaparramento delle risorse in via di esaurimento. L’introduzione di nuove tecnologie soprattutto energetiche, ammesso che chi ne dispone voglia introdurle, potrebbe differire il punto di inversione, rendendo insieme la successiva caduta più brusca. Intanto, vari processi accelerano la catastrofe ecologica. Il riscaldamento globale (che alcuni negano esista, e altri attribuiscono a cause naturali) avvicina il momento in cui il metano ora imprigionato sotto il suolo ghiacciato delle alte latitudini si libererà, salendo nell’atmosfera ad aumentare l’effetto serra, in una spirale espansiva. Il fracking e l’estrazione dello shale gas immettono nell’atmosfera sostanze tossiche e ad alto impatto ambientale. La contaminazione radioattiva di Fukushima e i suoi effetti sono e saranno immensamente superiori a quanto è stato raccontato: circa 80 volte maggiori di quelli di Chernobyl. Credo non abbia torto il mio famoso collega Gino Marra, quando afferma che sarà il fattore ecologico a costringere il mondo a trasformarsi, presto e radicalmente.
Fatto è che l’agire del genere umano, nel suo insieme, è guidato da logiche non cooperative-solidali-lungimiranti (logiche che operano solo in gruppi ristretti, dove ci si guarda in faccia), bensì da logiche diffidenti-egoistiche, di profitto nel breve o brevissimo termine (ossia di bilancio annuale e di mercati finanziari per le imprese, di difesa del tenor di vita per i consumatori e dei salari nominali per i lavoratori). E’ guidata, cioè, dalla logica dell’uovo oggi anziché la gallina domani; perciò sacrifica al vantaggio immediato e/o particolare la sopravvivenza sistemica, anche planetaria, nell’avvenire; anzi cela i fattori critici di lungo termine, e ha già portato allo scompenso ecologico del pianeta. Esistono però centri e livelli di potere molto stabili nel tempo, i quali possono ragionare in un’altra ottica, mirante ad assicurare la sopravvivenza della specie o di parte di essa, e possono decidere di farlo anche al prezzo di gravose imposizioni e restrizioni sulla vita dei popoli.
Alla luce di quanto sopra, l’idea stessa di superamento della “crisi” (economica) e di ritorno allo sviluppo risulta non tanto difficile da realizzarsi (sarebbe in realtà facile, con gli strumenti che troverete descritti), quanto problematica e non proprio auspicabile in se stessa, perché la ripresa sarebbe sostenibile dal mondo fisico solo per pochi anni ancora; per converso, rendere gestibile e controllabile il genere umano attraverso questo prevedibile futuro, può essere il razionale fine ultimo dell’ingegneria sociale che troviamo descritta all’opera nelle pagine seguenti.
Il discorso sui limiti ecologici al possibile sviluppo evidenzia un ultimo ragionamento generale: davanti al problema della “crisi” e di come uscirne, ogni esperto di uno dei settori di realtà coinvolti – economici, finanziari, sociologici, tecnologici, fisico-ambientali – elabora analisi e proposte in base ai metodi del suo settore di competenza e basate su una concezione ingenua e inadeguata del funzionamento degli altri settori, cioè ignorando i limiti e i vincoli che questi pongono e dando per scontato che funzionino in un determinato modo.
Nel video https://www.youtube.com/watch?v=YKsg3kZwTGc si può assistere a un dibattito che contrappone, da una parte, Bagnai, Rinaldi e Borghi, avversari dell’Euro e del modello rigorista-globalista in vigore, i quali hanno buon gioco a dimostrare come questi stiano devastando l’economia e siano insostenibili e, dall’altra, il prof. Bordin, economista di impostazione matematico-scientifica, il quale a sua volta ha buon gioco a dimostrare, mediante i suoi modelli previsionali matematici, che l’uscita dell’Italia dall’Euro sarebbe un rimedio catastrofico, molto peggiore del male. Bagnai, Rinaldi e Borghi appaiano chiaramente in difficoltà e a un certo punto non sanno più che cosa ribattere. Però Bordin, a sua volta, manifesta una totale inconsapevolezza della natura della moneta-debito simbolica oggi in uso, sommariamente spiegate in questa Introduzione, ma ancora più nei saggi Euroschiavi e Cimiteuro, e delle conseguenze nonché delle potenzialità di questa sua natura. E questo basta a invalidare alle radici le sue proposte di soluzione alla “crisi”.
Ma le proposte del tipo in parola sono viziate anche nel metodo.
Innanzitutto, sono proposte che vanno nel senso della totale globalizzazione, liberalizzazione, finanziarizzazione mercatiste dell’economia e, conseguentemente, della società, sulla base di un modello matematico, o comunque meccanicistico, che prevede che queste riforme siano le condizioni per massimizzare la crescita e la stabilità nell’interesse universale. Ma il comportamento e le reazioni della società, e ancor più il funzionamento e le reazioni di un sistema supercomplesso comprendente molte società diverse, quale è la popolazione terrestre, al cui insieme siffatti modelli si indirizzano, non si prestano a modelli e previsioni matematiche come si prestano, ed es., i fenomeni ottici o elettrici o astronomici, o i processi chimici. E’ di nuovo il discorso dell’ingegnerismo ingenuo: non esistono formule matematiche per prevedere il corso della storia. Infatti nessuno è riuscito a prevederla, perlomeno a medio-lungo termine. I processi economici e quelli finanziari sono interni al corso della storia umana, non sono ambiti separati con leggi matematiche proprie, simili a quelle delle meccanica o dell’ottica. Sono la risultante imprevedibile della interazione tra i comportamenti volontari di innumerevoli persone, con l’intervento di fattori non intenzionali e impersonali. La matematica e la contabilità rilevano, per loro natura, solo alcuni aspetti quantitativi e quantificabili tra tutti gli elementi componenti questo groviglio, quindi la loro capacità esplicativa e previsionale è limitata. Elaborare soluzioni basate solo su di essi può apparire “scientifico”, perché sfoggia molta matematica, molte formule, ma è invece una stupidaggine. Il prof. Richard Werner ha dimostrato19 l’irrealtà di tali e altri presupposti dei modelli economici dominanti anche con metodo matematico. Tali modelli vanno considerati, quindi, come ideali, astratti, cioè come utopie, nella scia dei modelli organizzatori ottimali che inizia con quello disegnato da Platone nella Repubblica, e che continua fino al socialismo reale di Marx e ai modelli dei mercati efficienti dei guru finanziari contemporanei…
La crisi del 2000 e quella in corso sono nate dall’applicazione di modelli che, matematicamente, dovevano fruttare sviluppo nella stabilità. Perché l’esito è stato molto diverso? Erano sbagliate le formule? O era sbagliata proprio l’idea di poter prevedere-organizzare con formule il comportamento aggregato di miliardi di esseri umani? Le previsioni sulla stessa uscita dalla presente “crisi” sono state tutte smentite. Isaac Asimov sfruttò l’idea della prevedibilità matematica della storia e di interventi programmati sul suo corso, per scrivere una celebre saga di science fiction, quella sulla Fondazione; ma quell’idea è rimasta fantascienza. Non è possibile aumentare l’efficienza di un sistema-paese intervenendo su di esso nel medesimo modo in cui si aumenta l’efficienza di un motore a scoppio riprogrammando la centralina. Inoltre l’economia studia l’uso ottimale delle risorse disponibili per raggiungere fini dati dalla (vera) politica, ma non si occupa di individuare i fini; i fini vanno individuati e decisi e gerarchizzati dalla politica, cioè con una visione d’insieme. Quindi l’economista non può, con i criteri dell’economista, fare il politico, o sostituirsi al politico. Sarebbe come se il governo venisse affidato a un medico, e questo governasse applicando le categorie di “sano” e “malato”.
Ancora, i modelli in parola presuppongono che la competizione, diversamente di ciò che avviene nella realtà, rimanga solo una competizione economica entro il mercato, per il profitto, e non anche, al medesimo tempo, una competizione per il potere, per il potere politico e il controllo dello Stato, delle funzioni regolatrici, quindi anche per manovrare il mercato da sopra di esso.
Inoltre, proposte di questo tipo non tengono conto dei fattori e dei limiti ecologici, come sopra accennati.
Infine, esse si basano su alcuni presupposti più o meno impliciti, che assolutamente non corrispondono alla realtà: l’applicazione del modello proposto dovrebbe avvenire su un mondo popolato
-di soggetti economici e di corpi sociali aventi mentalità e mores e schemi di reazione simili, nonché guidati da criteri razionali e utilitari, mentre i popoli del mondo, i sottogruppi etnici nei vari paesi, le varie classi sociali, hanno mentalità, mores, modi di reazione, valori estremamente differenziati;
-di soggetti economici in pari condizioni di partenza, mentre al contrario i soggetti economici del mondo reale disposti a piramide, divisi da enormi differenze di partenza, stante che una cerchia ristrettissima domina i principali mercati (moneta, credito, energia), le principali risorse militari, la ricerca scientifica e tecnologica, le reti di informazione e controllo sociale, i centri decisionali delle istituzioni pubbliche, le leve dei mercati; quindi siamo in una condizione di partenza opposta al libero mercato (che sarebbe trasparente e paritario), e i beneficiari delle posizioni di vantaggio usano questo vantaggio per difenderlo e accrescerlo, quindi per dominare il mercato, anche dirigendo la politica; ne consegue che nessun modello basato sull’idea di libero mercato può essere attuato
15.06. 2015 Marco Della Luna
1 Quindi ha di molto allontanato ogni possibilità di unione politica e fiscale, producendo contrapposizioni oggettive di interessi tra i vari paesi, soprattutto tra debitori e creditori.
2 Grazie al risanamento, alla Trojka e agli aiuti europei, la Grecia in tre anni ha aumentato il debito pubblico del 70%. ridotto il pil del 25%, portato la disoccupazione reale verso il 30%.
3 Anche in Germania, seppur meno, per effetto della sua forza relativa entro l’UE che le consente di sottrarsi in parte alle regole che valgono per i paesi non forti e di estrarre risorse finanziarie da essi.
4Fonti bancarie mi segnalano che starebbe avvenendo un’altra cosa: una banca sostanzialmente pubblica, che attinge ai depositi di Bancoposta, cioè Cassa Depositi e Prestiti, capitanato da Bassanini, amico di Renzi, starebbe concedendo massicciamente garanzie (in via diretta, o controgarantendo organismi di garanzia collettiva come i confidi) a imprese in difficoltà, indebitate verso le banche, e che altrimenti non otterrebbero credito, ma che vengono coraggiosamente messe in fascia 1 di merito di credito, come se fossero sicurissime. In questo modo si otterrebbe praticamente di trasferire molti crediti deteriorati dalle banche privat(izzat)e (che spesso hanno fatto prestiti di favore) a una banca pubblica, cioè tendenzialmente sui contribuenti. In effetti, all’esame retrospettivo risulta che questi crediti così garantiti non meritavano fiducia, perché il debitore principale solitamente non paga, quindi la banca creditrice si rivolge ai garanti. E’ la solita storia della casta clientelista, oppure è un mezzo corretto per investire denaro pubblico nell’economia produttiva che ora langue per carenza di liquidi? Verremo tassati per ripianare le perdite di Cassa Depositi e Prestiti come garante di questi crediti? Per rispondere a queste domande, ci vorrebbe un’indagine, una commissione parlamentare d’inchiesta, un organo di controllo bancario indipendente dalla maggioranza governativa, che è filobancaria..
5Particolarmente attaccata, almeno in Italia, è la professione di avvocato, costituzionalmente riconosciuta, dovrebbe essere garantita nella sua libertà, ma, adesso che è stata telematizzata, un qualsiasi burocrate o tecnico del Ministero o di un provider può disconnettere un avvocato scomodo dai servizi telematici in ogni momento e privare i suoi clienti di ogni difesa. Giudicate voi, se questo sia il prezzo dell’inevitabile progresso dell’Uomo.
6 http://it.wikipedia.org/wiki/Analfabetismo_funzionale#Risultati_della_ricerca
7Nel mio lavoro, lo constato di continuo, da oltre trent’anni, con un’accelerazione dal 2000 in poi, grosso modo. Abbiamo la follia di un processo telematico centralizzato, che passa tutto per un server ministeriale, sicché basta che questo server venga bloccato o per decisione politica o da un atto di sabotaggio o da un malfunzionamento o da un evento naturale (come un vento solare molto forte, o peggio un flare – black-out di questa natura avvengono molto frequentemente nelle reti informatiche) per bloccare i processi civili e amministrativi in tutta Italia. Tutti i servizi importanti dovrebbero essere localmente autosufficienti, a compartimenti stagni, e “costruiti” in modo tale da non essere bloccabili da simili fatti, ad esempio con la possibilità di procedere con atti su supporto cartaceo in caso di bisogno. Va anche detto che le reti di servizi strategici hanno sempre più partners stranieri – pensiamo ai cinesi nell’elettricità – che quindi si trovano nella posizione di poter tecnicamente privare il paese di supporti vitali semplicemente premendo qualche bottone.
8Recentemente rivelato all’opinione pubblica dall’inchiesta detta Roma Capitale.
9 Scarpinato, ibidem
10 Ecco sul Financial Times del 04.12.14 un articolo sul tema di Manmohan Singh il super esperto di Shadow Banking che è quello che ha scritto il libro fondamentale http://www.ft.com/intl/cms/s/0/d40c5cc4-4e29-11e4-bfda-00144feab7de.html?siteedition=intl e qui un suo paper recente che sintetizza http://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2014/wp14111.pdf
11Il Fondo Monetario, ad esempio nel suo Global Financial Stability Report (2012, p.1) era preoccupato che la riduzione del debito pubblico nel mondo considerato “sicuro” può avere implicazioni negative per la stabilità del sistema finanziario globale”. Cioè, nel 2012 il debito pubblico dell’Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia era diventato meno sicuro, c’erano cioè rischi di default o uscita dall’Euro e quindi di perdite per gli investitori internazionali i quali si erano messi a venderlo preventivamente. Questo però, dice il FMI riduceva la quantità di titoli di stato considerati “sicuri” e quindi metteva in pericolo tutto il sistema finanziario e bancario globale. Non è un discorso strano ? Che c’entra il fatto che alcuni investitori abbiano comprato BTP e ora li vendano con una crisi del sistema finanziario nel mondo? La risposta è che i titoli di Stato non vengono semplicemente comprati dalle mega banche e mega fondi internazionali per incassare cedole, ma per essere re-ipotecarli diverse volte e per creare ulteriore credito tra esse banche e fondi, dandoli reciprocamente in garanzia. Se quindi il valore dei titoli di stato cede per timori di svalutazione o default crolla poi tutta la catena di “ipoteche” e di credito messo in piedi in giro per il mondo dalle varie UBS, Barclay’s, Paribas, JP Morgan.
La Banca dei Regolamenti Internazionali, che è l’ufficio studi oltre che il coordinatore delle banche centrali, ha pubblicato uno studio nel giugno 2012 che illustra questo concetto che i titoli di stato sono “il fondamento del sistema finanziario globale[3]” e che il rischio è che “il mondo finanziario si ritrovi a corto di titoli di stato, perché il sistema finanziario tende ad andare verso gli investimenti più rischiosi e il debito privato non fornisce abbastanza garanzia contro gli shock globali. Solo i titoli di stato possono fornire questa garanzia, opportunamente sostenuti dalle banche centrali”.
12 Uscire dall’Euro introducendo prima una moneta parallela, in www.monetazione.it (http://www.monetazione.it/DocumentiScaricabiliCobraf/60_PDF.pdf)
13Ed. Dike.
14Solo recentemente, da quando la sua stessa, spesso deviante, sessualità è alla ribalta delle cronache giudiziarie, esso, dal suo vertice, si sta facendo più tollerante anche verso l’omosessualità: una tolleranza innanzitutto a proprio beneficio, direi.
15L’immagine-Monti, cioè il professore supertecnico moralissimo e severo, fu usata per far passare provvedimenti deliberatamente distruttivi dell’economia e della società italiane; l’immagine-Letta, cioè il giovane capo buono e paziente, umano, fu scelta e usata per dare sollievo diffondendo l’impressione che fosse finita la durezza montiana, mentre essa continuava; l’immagine-Renzi, ossia il leader superdinamico, rottamatore e molto forte è stata scelta per raccogliere consenso dando l’impressione che fosse finito l’immobilismo di Letta, che si ponesse fine ai parassitismi e alle clientele, che ci fosse un appiglio concreto dopo l’esasperazione inconcludente suscitata da Grillo, e che l’Italia potesse rinegoziare la sua posizione in Europa: ovviamente, anche questa era solo una frode verso il popolo ingenuo.
16Trovate rilevamenti e tabelle ufficiali nel libro di Paolo Ferrero La truffa del debito pubblico, Deriveapprodi 2014, soprattutto a pagg. 7-34, un saggio molto chiaro e documentato, che però sottace il fatto della spesa pubblica realmente parassitaria e a spreco, in campo sanitario, previdenziale, assistenziale – un fatto che, almeno in Italia, ha avuto un peso notevole, anche se secondario rispetto a ciò che Ferrero denuncia, non solo sui conti pubblici, ma sulla mentalità e sulla cultura nazionali, perché ha legittimato moralmente, giuridicamente e politicamente l’improduttività, il parassitismo e l’assistenzialismo. Anzi, li ha imposti come aspettativa diffusa e canale per la costruzione del consenso democratico per via clientelare. Il risultato è una mentalità nazionale che impedisce il ritorno all’efficienza. E’ molto più facile risanare i conti pubblici con opportune riforme monetarie, che risanare una mentalità nazionale oramai consolidata.
17 Bisogna però stare attenti: dire che la spesa pubblica italiana sia virtuosa, è come avallare come buona la distribuzione della pressione fiscale, mentre essa tale non è, a causa dell’elevatissima evasione fiscale. Tant’è vero che la pressione fiscale media stessa “appare” in linea con quelle europee, mentre invece non è così, per la limitazione, di fatto e non di diritto, della base imponibile. Userei il condizionale “parrebbe” e non “è”. L’evasione fiscale corrisponde, di fatto, ad un trasferimento di ricchezza e quindi ad una compensazione tra Entrate ed Uscite correnti del Bilancio statale. In altri termini, le Entrate e le Uscite del Bilancio statale dovrebbero essere evidenziate, mentre invece non lo sono.
18Ovviamente, la produzione di moneta addizionale dovrebbe andare a spese utili, produttive, e non in spese sterili. Se non va ad aumentare la produzione di beni e servizi, produrrà inflazione – la quale peraltro, se modesta, non nuoce, come è comunemente oramai riconosciuto.
19New Paradigm in Economics – Palgrave, 2005