VOLERE DIO
Credere o volere: questo è il dilemma. Nella risposta ad esso troveremo il miracoloso siero che risveglierà Dio dalla sua morte, durata ormai oltre un secolo.
Il potere ha sostenuto Dio, il trascendente, sinché gli è servito per i suoi scopi di dominio e profitto; poi il suo instrumentum regni principale è diventato quello monetario e finanziario, a cui oggi si affianca quello biologico; e la religione cristiana (cattolica e protestante) conseguentemente ha lasciato la trascendenza per farsi ancella e legittimatrice del liberal-capitalismo e della tecnocrazia biologica, sul piano del materialismo e dell’immanenza. Già però dai suoi esordi il Cristianesimo aveva contraffatto le sue Scritture fondative e adottato un’ontologia contraddittoria, e poco dopo si era messo in affari con la politica e la finanza, scendendo a molti compromessi e ibridazioni, non ultime quelle del Card. Spellman e di Mons. Marcinkus, che avevano fatto del Vaticano una centrale di business integrata e dipendente dalla grande e spietata finanza globale. Il suo tramonto, finemente e sapientemente scrutinato da Diego Fusaro in Fine del Cristianesimo, era perciò inevitabile e indifferibile, anzi era già nei fatti e fattacci, anche senza il colpo di ‘grazia’ di J.M. Bergoglio. E invero neppure Fusaro ha una vera cura organica da proporre. Non ci può essere.
Le religioni svolgono cinque principali funzioni. La prima è sociale: tenere unite le persone con valori condivisi e riconoscimento reciproco delle funzioni. La seconda è psicologica: rassicurare l’individuo rispetto ai grandi problemi esistenziali, dalla morte all’ingiustizia di questo mondo. La terza è politica: instrumentum regni, ossia chi governa l’apparato ecclesiale dirige l’opinione pubblica, legittima e delegittima leggi e regnanti. Quando queste tre funzioni assorbono o monopolizzano la vita religiosa, questa va a spegnersi. La quarta è esplicativa: fornire all’uomo pre-scientifico una spiegazione per il mondo e i fatti naturali. In queste quattro funzioni, la religione è stata ampiamente soppiantata da scienza, tecnica, economia e mezzi di distrazione di massa – quindi è morta, coinvolgendo nella morte anche la quinta funzione, quella vivificante, spirituale o teurgica: unire uomo e Dio, finito e infinito, temporaneo ed eterno, parte e Tutto. Funzione, questa, che forse sopravvive nel ratzingeriano “piccolo resto”.
Miti e liturgia (ovviamente, in quanto sentiti) attuano proprio questa funzione unitiva della quinta funzione, questo rapporto: si pensi all’eucaristia, in cui (chiedo venia per le semplificazioni) Dio si incarna e si fa uomo, poi conferisce all’uomo la capacità di consacrare e far transustanziare l’ostia e il vino così da poter incorporare Dio, purgarsi del peccato originale e della condanna alla mortalità, e divenire sacramentalmente suo figlio, in una specie di pasto totemico, in cui deve offrire e consacrare il cibo materiale a Dio affinché questi lo trasmuti nel proprio corpo che egli ha acquisito incarnandosi. L’inno noto come Panis angelicus, opera di S. Tommaso, esprime molto bene ciò, e particolarmente il fatto che un cibo originariamente destinato ai soli angeli viene nunc adattato affinché ne fruiscano gli uomini. Invero, in diverse religioni troviamo l’idea di una energia o forza che, allo stato sorgente divino, sarebbe troppo potente per l’uomo e che quindi deve venire processata e adattata, ad esempio passando attraverso la chioma di Shiva, prima di essere fruita dall’uomo senza folgorarlo – non dissimilmente alla corrente elettrica ad alta tensione, che deve passare per cabine di trasformazione prima di poter entrare nelle case. Ma l’idea di fondo è quella di Dio che si fa uomo, patendo da uomo; e di un uomo che grazie a ciò, se si apre a Lui, a Lui può affiliarsi, può in qualche modo assimilarsi a Lui, partecipando dell’infinità immortale, e beneficiando del fatto che il dio-uomo ha preso su di sé, ed espiato nella morte, il peccato originale (il karma della specie, direbbe l’induista) .
Dio è immateriale, è spirito, pensiero, volontà, e crea gli enti immateriali (angeli e anime) nonché quelli materiali, il mondo. Crea mercé un atto di volizione. Nel pensiero soprattutto orientale, è esplicita la concezione di spirito (brahman, purusha) che emana il mondo, di pensiero e materia come termini reciprocamente convertibili, del mondo come volontà e rappresentazione – beninteso, non volontà e rappresentazione private, individualistiche, cioè non è che il mondo sia come io voglio rappresentarmelo, bensì esso sussiste e muta essendo volontà e rappresentazione di una psiche universale, a cui ognuno partecipa, e può porsi in vari modi rispetto a tale rappresentazione.
Il singolo umano, attraverso l’esercizio, l’ascesi, la purificazione che gli consente di ricevere in sempre maggiori quantità e superiori qualità l’energia di origine divina sintonizzandosi con la mente divina; e altresì attraverso l’acquisizione di un superiore autocontrollo e l’esercizio di devozioni e meditazioni profonde, protratte, intense, molto tecniche, può gradualmente rendersi capace di influire sui vari piani della realtà e della sua propria quotidiana esperienza, sul mondo anche fisico.
Il principio è che il pensiero e la volontà individuale, se addestrati e purificati, attraverso la volontaria rappresentazione, cioè la raffigurazione volontaria di un risultato, possono dirigere energie mentali, eteriche, anche fisiche, che agiscono sui corpi fisici, viventi e persino non viventi, per ottenere il risultato voluto, ad esempio una guarigione. Invocare e rappresentarsi, in queste prassi, (un) Dio, una forma del divino che particolarmente ci inspira e infervora, aiuta assai a dirigere e intensificare quelle energie. Gli induisti parlano di divinità preferita o desiderata, ishta devata: quella forma del Divino che produce il suddetto effetto energizzante, e che viene scelta a seconda del contesto dai vari praticanti. Rappresentarsi Dio come personificazione dell’infinito, del Tutto e dell’eterno in rapporto con noi, e che proprio perché infinito è necessariamente dotato anche della qualità soggettuale di persona, contribuisce fondamentalmente al suddetto fine.
Si tratta pertanto di rappresentarsi Dio e di volere Dio. Dio quindi non come oggetto di un mero credere, perché una cosa non può contemporaneamente essere creduta e saputa, una cosa o la sai o la credi, e se la credi, allora implichi che non la sai, che non ne sei certo, che ne dubiti. E invece per ottenere l’effetto di cui stiamo parlando, devi vivere la certezza. Così il credente cristiano ammette di vivere nella fede e che la fede non è certezza assoluta, la quale si conseguirà solo con la visione beatifica in paradiso attraverso una percezione diretta, un’intuizione intellettuale; ma egli non ammetterà mai che Dio potrebbe tanto bene esistere quanto non esistere, egli non sospende il giudizio sull’esistenza di Dio, perché in realtà la sua posizione psicologica, la sostanza della Fede, è (sia pure nell’ammettere la provvisoria mancanza di certezza assoluta), lo sforzarsi di negare la possibilità che le cose stiano diversamente da come le si crede, il volere che siano in un certo modo. Quindi emerge che l’essenza della Fede, quella di cui basta un granello per smuovere le montagne, è la volontà, il volere che le cose stiano come dice la religione.
Non è un atto della cognizione, ma anche e innanzitutto della volizione. San Tommaso e altri parlano del credere come un tendere verso una delle due possibilità opposte, nel timore che sia vera l’altra. Quindi io voglio Dio, piuttosto che crederlo. Voglio che esista e voglio essere in rapporto con Lui, e che Egli sia in rapporto con me, presente e attivo. Voglio attivare ed energizzare questo rapporto. Penso attivamente il mio rapporto col Tutto infinito eterno, e lo penso come rapporto interpersonale, necessario e amorevole; pensandolo, lo concretizzo, lo potenzio. Non pretendo di essere io ovviamente a creare Dio, io non creo l’assoluto, l’infinito, l’eterno; ma in me, mediante la volizione, creo l’intenzione e la coscienza del rapporto tra l’assoluto e l’infinito da una parte e me stesso dall’altra, lo carico di energia. Creo l’intenzione, se sono cristiano, della communio e della trasformazione, in essa, della materia in corpo di Dio e di me che lo mangio e divengo suo figlio, e in ciò la realtà della fede appare come volontà, volontà operante, prassi in cui io e Dio cooperiamo. Se sono cristiano, penserò Dio come un ente esistente in sé e indipendentemente dal pensiero, una realtà oggettiva, extramentale, così, da occidentale, lo vivrò ancora più reale (anche se tale concezione è errata). Se sono invece buddhista, abituato a pensare idealisticamente la realtà e la mente, concepirò il Dio cui mi rivolgo come un dhyani deva, uno yidam, un Dio intramentale, interno al bardo della meditazione (ma non perciò meno reale), uno strumento rappresentativo della Mente con cui si può meglio progredire.
Ogni parte è in rapporto necessario con l’insieme. Il rapporto della parte, di me, col Tutto, è reale, immanente, ubiquo e indefettibile, ed è un rapporto di azione, in divenire. Non può venir meno, non può morire – può solo avvenire che io me ne scordi. E anche allora è un oblio reversibile, non va chiamato “morte di Dio”. E il Tutto non può (salvo quanto ho precisato nelle conclusioni di Terminus) essere da meno di me, della parte, ossia non può mancare della coscienza, della soggettualità, che a me non manca. Per questa ragione di necessità logica, l’ateismo è in errore. Dio è reale e presentissimo. Non è morto.
L’infinito ed io, con la nostra natura soggettuale, siamo in costante interazione e comunicazione, condivisione. Queste sono indefettibili e reali, perciò il bene, per ognuno, è essere cosciente di esse, pensarle, intenderle, meditarle, volerle in forma ottimale, poscerne ogni possibile illuminazione e benedizione, persino gli interventi sul mondo fisico, anche attraverso la preghiera e ovviamente la liturgia – e quella cristiana (cattolica e ortodossa) è uno strumento assai evoluto, articolato e potente, con i suoi simboli e i suoi atti teurgici corali.
Nella quinta funzione della religione, collegandomi consapevolmente e con intenzione all’Infinito, focalizzando tale rapporto, la mia facoltà di operare con la volizione e la rappresentazione, col pensiero, su ciò che ordinariamente si chiama “realtà”, fisica e non, sarà assistita, moltiplicata, anzi trasformata nella qualità. Emergerò dall’impotenza deprimente in cui invece discende chi, conformemente alle prevalenti filosofie esplicite ed implicite, si pensa atomo isolato, accidentale e senza connessione con l’Assoluto eterno e con un’escatologia.
Dio pare morto, ma solamente tra gli “ultimi uomini” di zarathustriana memoria, ossia in coloro nei quali, dai travolgenti successi delle scienze, delle tecniche, dei piaceri materiali, è stata smarrita o eclissata o inibita la coscienza della predetta, incessante relazione. Ma sono state svuotate (e forse è stata una utile purificazione) solo le prime quattro funzioni della religione, quelle intramondane. La quinta, quella propria, anagogica, è rimasta intatta, oscurata ma intatta, in virtù della sua stessa natura: il Tutto non può rientrare nell’oggetto delle scienze naturali e particolari, le quali possono soltanto distrarci da esso; e il rapporto col Tutto non può essere oggetto di alcun mercimonio economico, il quale può soltanto farlo dimenticare, e far calare la notte sul mondo.
Dio rivive quando e dove la coscienza del rapporto col Tutto viene risvegliata su tutti i tre piani indicati da Hegel (nella triade dello Spirito Assoluto) per la sua realizzazione: quello artistico, quello religioso, e quello filosofico, ossia (dico io) quello della facoltà rappresentativa, quello dell’emozione-volizione-relazione interpersonale, quello della consapevolezza razionale dimostrativa. Questi tre componenti sono tutti indispensabili per la concretezza della realizzazione. Mancando il terzo, gli altri due sarebbero velleità, allegoria o mero mito; mancando il secondo, non vi sarebbe la forza né la personalità del rapporto; mancando il primo, non sapremmo configurare ciò che vogliamo che la volizione realizzi dirigendo ad esso le sue energie.
Quale atto è più rivoluzionario e potente contro la notte del mondo, contro il nichilismo, contro il dominio della quantità e della finitezza, contro le loro suggestioni e costrizioni, che il semplice pensare o pronunciare la parola “Dio”, se questa parola risveglia la coscienza del legame col Tutto? Adiutorium nostrum in nomine Dei.
01.04.23 Marco Della Luna