MAGIA E INGEGNERIA
L’etimo di “magia” ci riporta al concetto di “potere”: radice mag, mac, ( Ted. Macht, mag, moegen; Ingl. might, may). Ma potere su che cosa? E con che mezzi e metodi?
Nella concezione popolare, la magia sarebbe un vagheggiato o millantato potere di operare mutamenti nel mondo materiale attraverso il pensiero e la volontà, seguendo determinate procedure e adoperando particolari strumenti, più o meno complicati, suggestivi, bizzarri.
Nel prontuario concettuale e interpretativo della psicologia corrente, il pensiero magico è il pensiero che, nell’infanzia (filogenetica od ontogenetica) dell’uomo, o nella malattia, o in certi stati alterati e peculiari dello psichismo adulto sano, anima, plasma, regola e controlla una pseudo-realtà ora gratificante e rassicurante, ora minacciosa e terrifica, obbediente al principio del piacere, al pensiero primario, a certi schemi e riti difensivi di padroneggiamento illusorio del mondo oggettivo o delle proprie pulsioni o delle loro rappresentazioni, dei loro affioramenti consci.
Ma proprio con queste ultime sue configurazioni, ossia quale mastering di alcuni processi psichici, emotivi e pulsionali, il concetto di magia compie un progresso: si lascia riproporre come concetto di una funzione, forse già di una techne – inizia cioè ad essere idea di una procedura (più o meno conscia e perspicua al soggetto) volta a produrre un risultato desiderato, e in grado di produrlo, con vari gradi di efficacia. Un risultato reale, nella sfera dei processi mentali o relazionali (seppur non nel mondo oggettivo, come pretende), senza del quale, ceteris paribus, sovente, il soggetto sarebbe assai meno adattato o assai più sofferente – se si tratta, puta caso, di un adulto nevrotico, oppure del tutto incapace di coordinamento e integrazione sociale, di funzionamento Oppure di una società primitiva, in cui le attività magico-rituali sono un primario mezzo di regolazione dei rapporti interni, esterni e di assimilazione del nuovo, del diverso: magia come ambito intermedio e intermediante, di elaborazione transizionale tra la non percezione, o la censura, e l’assimilazione. O tra una condizione di insostenibile, devastante impotenza oggettiva rispetto alle inflessibili forze della natura, da una parte, e una risposta di allucinata onnipotenza dall’altra.
Pensiamo anche, in chiave di aggregazione sociale del diverso, ai riti che, nella Roma arcaica, attuavano il trasferimento della sposa dall’aura magica dei numi della famiglia del padre a quella della famiglia dello sposo: detestatio sacrorum e confarreatio. Pensiamo, sempre in ambito romano, al rito della excantatio deorum, con cui i sacerdoti romani distoglievano gli dei delle città da conquistare da quelle medesime città per trasferirli in Roma e integrarli nel pantheon romano
I credi, il pensiero e le risposte magiche alle esigenze esistenziali, di rassicurazione della bisognosa materialità umana (rispetto all’angoscia della morte, alla paura dell’ignoto, all’inesplicabilità del mondo, del divenire, all’impotenza di regolarli), si precipitano in posizioni ‘magiche’, di negazione, scotomizzazione o distorsione della realtà (negazione della morte, affermazioni di rapporti salvifici con esseri superiori, allucinazioni di potenza, etc.), che urtano con i limiti e i capisaldi di questa medesima realtà. Una realtà che continua a produrre morte, vecchia, malattia, ingiustizia, a dispetto e smentita di tutte le promesse e rassicurazioni delle varie religioni.
Per controbilanciare queste smentite continue che vengono dalla realtà oggettiva e mantenere viva e rinforzare la ‘realtà’ soggettiva della fede e delle sue risposte all’ansia esistenziale gli uomini da sempre si organizzano, si congregano, in modo da eseguire riti collettivi di affermazione, rinforzo e condivisione della fede attraverso l’agire collettivo.
E’ molto difficile, per un singolo, vivere una fede contrastante con la realtà oggettiva e pratica, se sta in una condizione di isolamento culturale, o in una società di persone che condividono un’altra fede. E’ molto più facile, meno conflittuogeno e psicologicamente più efficace viverla in un contesto sociale che la condivide, soprattutto se questo contesto è fatto di persone a cui si è emotivamente legati.
Riassumendo, la magia, nel senso sinora esaminato, attraverso l’elaborazione di una “scienza” e di una “tecnica” mitico-magiche di esplicazione, previsione e gestione della realtà, del divenire, risponde al bisogno di preservare, l’esistenza, la coesione e un certo grado di efficacia obiettiva del gruppo sociale e del singolo di fronte all’impatto di fattori esogeni ed endogeni potenzialmente distruttivi in relazione alle mancanti o carenti capacità di controllo scientifico-tecnologiche, organizzative e cognitivo-strutturali.
Ciò è facilmente riconoscibile grazie al contrasto tra le forme culturali odierne e quelle antiche; però l’uomo contemporaneo e la società contemporanea sono retti e organizzati dal pensiero magico in modo analogo ai primitivi. Poco è cambiato nella sostanza. La coesione e il funzionamento del nostro sistema sociale ed economico si basano, oggi come anticamente, sul fatto che le persone si danno o ricevono (da scuola e mass media, ma anche dalla famiglia e dai pari) una spiegazione magica e ingannevole di questo medesimo sistema, di ampi e determinanti settori della realtà e della vita pratica, individuale e collettiva. Principalmente, oggetto di spiegazione e fede magico-mitografiche è la realtà dei processi economici, politici, giurisdizionali. Una spiegazione che appaga il bisogno di ‘capire’ e ‘controllare’ (di evitare il vissuto di ignoranza e impotenza), come pure l’esigenza di coerenza interna e tra sé e la società, nonché di razionalità e, ancor più, di moralità e legalità, almeno potenziali, del potere, e sviluppa così le asimmetrie conoscitive che sostengono potere e profitto.
In base a vaste e conclamate acquisizioni della psicologia politica e della psicologia economica, nonché della macroeconomia (AAVV, Psicologia Politica, Cortina 1996; Richard Werner, New Paradigm in Macroeconomics, Palgrave 2005; Euroschiavi, Marco Della Luna, Arianna Macroedizioni 2005, 2006; Marco Della Luna, Le Chiavi del Potere, Koiné 2003), possiamo comprovatamente affermare che il nostro ordine socio-economico, la governabilità generale, non sarebbero possibili senza la sua incomprensione e il suo radicale fraintendimento (indotti, sistematizzati e ampliati top-down) da parte della quasi totalità delle persone, oltreché sulle caratteristiche irrazionali e abitudinarie del pensiero e del comportamento umani, che concorrono a costruire concezioni mitografiche e magiche della realtà. Quantitativamente almeno, il principale campo di ricerca e applicazione della psicologia è appunto questo, la produzione del consenso, o meglio della compliance, attraverso la manipolazione informativa e motivazionale dell’uomo lavoratore-consumatore-elettore. La democrazia non consiste nel popolo che governa sé stesso, ma nel governarlo producendo la sua compliance. Oggi l’uomo comune sa da dove viene la pioggia, ma non sa dove vanno le sue tasse, anche se crede di saperlo nella sua teoria della realtà, come il suo antenato credeva di sapere da dove veniva la pioggia.
Idee magiche di questo tipo sono le convinzioni dominanti circa la democrazia, la legalità, l’equilibrio di mercato, il debito pubblico, il credito, il denaro, lo sviluppo economico – prevalentemente derivate da un modello economico costruito in modo dogmatico-deduttivistico anziché in base all’esame dei dati fattuali (la c.d. teoria neoclassica), privo di basi empiriche (anzi, confutato dall’evidenza), cieco al variabili decisive della dinamica economica. Idee tutte sostanzialmente false o fuorvianti, ma tutte necessarie per attuare e fare accettare ricette politico-economiche (globalizzazione, liberalizzazione, privatizzazione) calate dall’alto (BCE, UE, WTO, FED, IMF) e socialmente dolorose e fallimentari (cfr. crisi di Messico, Argentina, Giappone) – ricette che hanno fini diversi da quelli dichiarati e per i quali vengono accettate. Fini diversi, quali la concentrazione verticistica del reddito, che sono stati raggiunti, a differenza di quelli dichiarati. La letteratura in questo campo è vastissima. Nel mio saggio Euroschiavi, ho dato un’approfondita spiegazione di questa realtà, dimostrando tra l’altro che, per quanto suoni assurdo, quasi nessuno sa che cosa siano e come funzionino il denaro,il credito e la loro creazione.
La società contemporanea, in cui il mondo e la realtà sono sempre meno percepiti personalmente e sempre più costruiti o inculcati mediaticamente, diffonde e rinforza, quindi, i propri credi in un modo diverso, ma non meno magico, della società primitiva. Non più tanto attraverso gli agiti rituali collettivi e le professioni di fede collettive o pubbliche, ma top-down, attraverso i mass media, gli esperti ‘embedded’, rivolgendosi alle centinaia di milioni di individui che siedono davanti ai monitor: ognuno, attraverso il monitor, riceve una comunicazione, preparata da una corporation commerciale, che gli rappresenta il mondo, gli altri (ossia, il collettivo), il loro pensiero, i loro valori, i pericoli, etc., in modi finalizzati, selezionando e assemblando ad arte gli inputs. L’agito, il rito collettivo sussiste ancora, ma non più partecipato direttamente dal soggetto, bensì artefatto (o magi-fatto) e calato dall’altro mediante tecniche di comunicazione e persuasione: il produttore della trasmissione televisiva convince i singoli, ciascun singolo, che ‘gli altri’, la società, la nazione, o il suo gruppo (effettivo o ideale) di appartenenza, effettivamente condividano una certa convinzione o valore, oppure che esigano, per accettarlo, un certo comportamento o status symbol. Anche se, su un dato tema (ad es., una certa traumatica operazione fiscale o militare, giustificata da un certo pericolo), il singolo ha un’opinione (ad es., che quel pericolo non esista e che la reazione sia sbagliata) condivisa dalla maggioranza degli altri singoli (quindi teoricamente prevalente, in democrazia), i mass media gli trasmettono solo, o quasi solo, l’opinione opposta, sostenuta dall’establishment, rappresentandogliela come eticamente doverosa, patriottica, condivisa da tutte le persone illustri, avversata solo dai traditori o dagli evasori fiscali. Alla fine, il singolo si sentirà in errore o in colpa a cagione delle sue opinioni ‘devianti’ e sarà inibito dal manifestare la sua opinione contraria. Questo tipo di società si definisce come individualismo di massa. Individualismo, perché basato su multa ricezione passiva individuale e poca partecipazione o confronto sociale in forma attiva. Di massa, perché i suoi valori, le sue realtà, le sue mode sono, appunto, massificanti. Si tratta di costruire ciò che per l’opinione pubblica è la realtà, il mondo, onde governare la democrazia, le libertà e i comportamenti economicamente rilevanti. John Dewey, Edward Bernays, Walter Lippmann, sono tra i primi professi teorizzatori e realizzatori di tale “regimentation” (come essi stessi la chiamavano) per conto del governo USA dal 1920 in poi (Committee on Public Information).
La psicoanalisi vive e lavora in contiguità col pensiero magico. Ovviamente, è ben consapevole del ruolo del magico nell’inconscio. Essa quindi, sin dal suo esordio, introducendo l’analisi didattica, il setting, la supervisione (di cui troveremo i corrispondenti magici nel cerchio e nel triangolo dell’Arte), ha inteso strutturarsi in modo idoneo a riconoscere, circoscrivere, analizzare tale pensiero, così da poter lavorare con esso senza scivolare in esso – nel che è simile a Odisseo, che, per ascoltare il canto delle sirene e viverne l’effetto, senza cadere nella sua malia, tura le orecchie dei suoi compagni e si fa legare all’albero della nave.
Le sirene cui si espone lo psicoanalista sono, anche, certi seducenti strumenti della sua arte: la posizione (ruolo) di interpretatore dell’inconscio, la possibilità di liquidare le controargomentazioni del paziente come resistenze o transfert negativo, le tentazioni di giocare coi piani semantici, ossia di negare/modificare autoreferenzialmente la valenza di realtà del comportamento e delle dichiarazioni altrui – (s)qualificando l’uno e le altre da espressioni di un autentico desiderio, di un giudizio ragionato, di un atto intenzionale, a sintomi involontari, i quali, se ‘propriamente’ analizzati e interpretati, disvelano un significato diverso da quello inteso dal soggetto analizzato o riconoscibile all’osservatore comune, ossia non ‘iniziato’: “Ciò che dici o fai o vuoi, non è realmente ciò che intendi; ciò che intendi realmente, può essere accertato solo attraverso l’interpretazione (e io sono l’interprete).”
Seduzioni, quindi, ad abbandonare il metodo induttivo delle scienze naturali per scivolare verso un deduttivismo dottrinale, fantastico, autoreferenziale.
Con questa introduzione, però, siamo partiti molto male, rispetto al fine di capire la magia come magia. Siamo partiti molto male perché, volendo basarci su concetti correnti di magia come essi sono reperibili nel prontuario concettuale per gli psicologi, inquadriamo la magia attraverso lo stereotipo popolare, lo schema o la lente del sintomo ossessivo o paranoide, o attraverso l’antropologia culturale dei primitivi, pregiudicando e limitando la nostra capacità di conoscerla per ciò che essa è nella realtà. Sembra che stiamo parlando della magia, mentre in realtà stiamo parlando di come diverse forme di pensiero usano le loro diverse rispettive idee di “magia” per qualificare e incasellare determinate altre forme di pensiero e azione.
Se finalmente usciamo dal prontuario concettuale della psicologia corrente, e consideriamo, sia pure sommariamente, il corpus magicum o hermeticum dell’Occidente[1][1], nella sua obiettività contenutistica, quindi la magia in senso stretto – ossia, se, differendo percosidire il momento della gratificazione, prima di metterci a interpretare e teorizzare, abbiamo la pazienza di leggere, con attenzione e prospettiva psicologica non solo psicodinamica, alcuni trattati e manuali di magia (e non sulla magia) di varie epoche, ci accorgeremo che tra gli autori di questi testi, nel corso dei secoli, vi sono pensatori molto raffinati e colti, tutt’altro che primitivi o pazzi o privi di mezzi critici o deboli in fatto di esame di realtà (anzi, gente che conosce bene Platone, Aristotele, le scienze naturali, etc.).
Inoltre, è improbabile che ci sfugga un tratto caratterizzante dell’insegnamento magico: la formazione del mago si prefigge di riorganizzare la sua psiche a un superiore livello di funzionamento, e consiste in un percorso di esercizi mentali e psicofisici, in cui l’apprendista mago apprende a osservare il flusso dei pensieri, focalizzare l’attenzione, risalire nella memoria, visualizzare simboli, situazioni e persone, visualizzare sé medesimo in determinati ruoli e atti, evocare (far emergere) dall’inconscio determinate dinamiche o imagines, bandirle, indurre stati mentali alterati, etc. etc. – operando una serie di trasformazioni pianificate della propria (ed altrui, in certi casi) psiche, soprattutto di quella subconscia.
In questo senso, la magia è ingegneristica. Insegna a fare della propria psiche un cantiere di lavoro o atanor del laboratorio alchemico.
La magia, inoltre, riconosce, esplicitamente, l’esistenza dell’inconscio, quale sede di immagini, tensioni, dinamismi, fantasmi, mostri, tesori.
H. C. Agrippa, nel suo De Occulta Philosophia, III, 3, enuncia che le capacità magiche derivano dalla purificazione e dal potenziamento dell’intelletto e dell’anima, i quali hanno da gestire i daimones dell’uomo.
La religiosità ingenua si illude che l’uomo naturale, dalla sua condizione di profondo, se non totale, ottenebramento, possa, nello slancio emotivo della devozione, trascendere il suo orizzonte e la forza di gravità del suo psichismo empirico per attingere al piano divino: di fatti, molti devoti che ritengono di essere riusciti ad elevarsi al divino, hanno invece ben evitato di porsi in discussione e al contrario portato il divino al pian terreno. Per contro, il mago dice: Sono in basso e dalla mia posizione intravedo alcune vette; ma, così come sono, non posso scalarle; per raggiungerle, devo attrezzarmi e addestrarmi. Similmente ammonisce in versi Goethe nel Faust:
“Von der Gewalt, die alle Wesen bindet,
befreit der Mensch sich, der sich überwindet.”:
“Dalla forza che lega tutti gli esseri,
si libera colui, che sé stesso supera.”
Superarsi significa sostituire al sistema di funzionamento naturale e animale della psiche un sistema più evoluto, capace di maggiori prestazioni e migliori esperienze nell’esistere. L’evoluzione psichica del mago ha da essere progressiva e metodica, come ancora Goethe ribadisce per bocca di Mefistofele all’impaziente Faust:
“Nicht Kunst und Wissenschaft allein,
Geduld soll bei dem Werke sein.”:
“Non l’arte soltanto e la scienza,
per l’opra è d’uopo pazienza.”
Pazienza, appunto. Applicazione. Metodo.
La magia appare oggettivamente, in buona parte, come un deliberato, consapevole, progettuale lavoro della mente su sé stessa, o meglio di funzioni psichiche gestite dall’io sulla psiche complessiva. Un lavoro finalizzato a sviluppare o risvegliare capacità che sono innanzitutto mentali, seppure in parte concepite come idonee ad influenzare la materia, il mondo oggettivo – mondo che però, per il mago, oggettivo non è, perché “la mente caratterizza l’intero universo. Per lui l’universo è esattamente ciò che la parola ‘universo’ implica: un’unità.” (David Conway, Magic, an Occult Primer, Mayflower 1974, pag. 31). Ma anche a esplorare l’inconscio personale e collettivo, segnatamente attraverso l’induzione di stati alterati di coscienza, il sogno lucido, il trance, etc.: l’anima “percorre numerose regioni salendo la scala” (Zohar, I, 83b). Scopo è arrivare a vedere il volto del Re, di Dio (il Sé integrato?), e a reggerne il confronto, senza soccombere a tale esperienza (Genesi, XXXII, 24-30).
Queste capacità sono le più disparate: dal controllo fisiologico, a quello emotivo; dal potenziamento della memorizzazione e della rammemorazione, alla gestione dei conflitti e, ancor di più, alla liquidazione degli automatismi mentali ‘naturali’ (de-ipnosi) e alla loro sostituzione con automatismi mentali ‘intenzionali’ e finalizzati. In magia, “e-vocare” è “chiamare fuori”, ossia operare rivolgendosi verso il proprio interno, per farne uscire… ciò che presto diremo.
E’ facile riconoscere in siffatte pratiche un lavoro di espansione volontaria della coscienza e di integrazione di contenuti, dinamismi e simbolismi altrimenti inconsci.
L’idea, il proposito, il progetto stesso di agire con la psiche sulla psiche per l’educazione e il miglioramento della psiche stessa, è in sé un’importante conquista. Non sono molte, nemmeno oggi, le scuole di psicologia che insegnano a coltivare le proprie funzioni cognitive e mentali in generale – le scuole di educazione della mente.
Già nell’esecuzione di un rito magico complesso, con più celebranti, si attua (al di là del merito contenutistico) un esercizio molto impegnativo e utile di addestramento all’attenzione guidata e sostenuta, nonché alla comunicazione, al coordinamento/assunzione dei ruoli. Il valore di simili pratiche magiche si può ancora meglio comprendere, in prospettiva storica, se si considera che, nell’antichità in cui la magia nasce, la psiche umana non era come noi oggi la conosciamo, non aveva cioè l’odierno grado di autocoscienza, di introspezione, etc. (Cfr. Julian Jaynes, The Origin of Consciousness in the Breakdown of the Bicameral Mind, Penguin 1976). Era ampiamente opaca a sé stessa. In quello stadio primitivo di sviluppo, l’esistenza di tecniche magiche, di autosviluppo della mente, di risveglio iniziatico (ossia, di sviluppo di capacità introspettive e di ‘autogoverno mentale’) ha sicuramente avuto un ruolo evolutivo rilevantissimo, come attesta l’alta considerazione in cui le antiche civiltà tenevano la magia, i misteri.
Sorge anzi il sospetto che la principale prestazione del rito iniziatico, del rito misterico del risveglio, fosse proprio quello di svegliare nel soggetto la coscienza di sé, l’introspezione. E che proprio per questo le iniziazioni sono, oggi, così decadute e farsesche: perché non servono più. La persona, di solito, diventa più o meno autocosciente e introspettiva attraverso la crescita, l’educazione, l’istruzione, l’interazione affettiva con persone già autocoscienti e introspicienti. La società appronta, per contro, molti rimedi contro l’autocoscienza e l’introspezione – come molte droghe e molti divertimenti popolari.
Se pensiamo agli arcaici eroi dell’Iliade, che non sono nemmeno in grado (Jaynes, cit.) di percepire come endogene le proprie emozioni e passioni e intuizioni (lo dimostra il fatto che queste vengono, in questo epos, infuse in loro esternamente da dei e dee), non possiamo non ammirare l’alta e articolata capacità e tensione introspettiva espressa dalla ‘magia’ indiana nota col nome di yoga, sicuramente già esistente e ben sviluppata in tempi ampiamente preomerici.
Nel testo canonico dello yoga, ossia lo Yogasutra di Patanjali, la descrizione del lavoro ‘magico’, o esoterico, come lavoro del pensiero sulla mente (intesa in senso peraltro molto ampio) avviene nel modo più esplicito, analitico e solare che si possa desiderare. La mente è dispiegata, analizzata e trattata nelle sue articolazioni topologiche e processuali, nella distinzione tra conscio e inconscio, nella spiegazione di come il conscio può agire sull’inconscio, portandolo alla coscienza e modificandolo secondo un fine prestabilito – un fine che comprende il trascendimento dell’illusoria contrapposizione io-non io, psiche-materia, quindi il ‘dominio’ del divenire.
Nel più antico testo ‘magico’ dell’India e, forse, dell’umanità – il Rig Veda –troviamo un passaggio, definito “vedasara”, ossia essenza dei Veda, della conoscenza, e costituente il mantra più importante, il Gayatrimantra. Esso descrive in modo esplicito l’esercizio ‘magico’ (di visualizzazione) come essenzialmente rivolto ad ampliare la coscienza (o insight):
Tat savitur varenyam bhargo devasya dhihimahi
dhyo yoh nah prachodayat.
Ossia:
Contemplo quel celeste divino splendore del sole,
si espanda la nostra coscienza (dhi: insight, visione interiore).
Orbene, tutto quanto abbiamo sinora e detto e addotto, ci porta a una seconda osservazione fondamentale: la magia comprende un processo pianificato e consapevole di auto-trattamento della mente, ed è analoga, in questo, al metodo e al lavoro della psicoterapia cognitiva, e soprattutto di quella che si occupa del recupero o dello sviluppo di facoltà cognitive e metacognitive, incluso il monitoraggio e il mastering delle emozioni. Queste pratiche presentate dai testi magici sostanzialmente come sperimentali ed esperienziali, laiche; sussistono, possono essere coltivate, e probabilmente con efficacia, indipendentemente da qualsiasi referente religioso o ideologico o filosofico – anche se la magia ha una sua filosofia (non una Filosofia prima, ma una filosofia ancillare, seppur meno ancillare di quella della teologia). Per queste ragioni, anche se conosciamo e rispettiamo l’interpretazione junghiana della magia ermetica ed alchemica come processo di trasformazione, qui preferiamo considerare, in modo più aderente a un’obiettività constatabile, il lavoro della magia e dello yoga come in buona parte un lavoro metacognitivo, direttamente rivolto all’apertura o elevazione del soggetto al piano delle funzioni metacognitive. Un metodo di lavoro assai strettamente analogo, come dicevamo, al metodo psicoterapeutico proprio di una pregevole scuola cognitivo-comportamentale, ben rappresentata in Italia dal Terzo Centro di Psicoterapia Cognitiva in Roma[2][2], la quale si definisce “una clinica del deficit”, ed approccia il disturbo mentale mediante una ‘mappatura’ delle carenze funzionali in relazione ai sintomi, indi progetta e attua un piano per sviluppare o vicariale le funzioni carenti attraverso l’apertura e l’accesso al piano metacognitivo, per lavorare attraverso di esso e insegnare al paziente a gestire le proprie risorse attraverso di esso. Ovviamente, il risveglio e il potenziamento delle capacità introspettive e di self-monitoring sono il primo passo, per poi arrivare all’autoregolazione e alla mobilitazione delle varie risorse, a un miglioramento generale delle capacità e dell’adattamento del soggetto.
La magia non si propone come fine specifico di curare la malattia mentale – si propone di allenare e ampliare le capacità della mente, di costruire la personalità del mago, ossia una psiche funzionalmente arricchita e stabilizzata, capace di eseguire l’opus magicum. Ma questo fine non costituisce un tratto di “minore psicologicità” della magia – anzi, si tratta di un fine che dovrebbe occupare gli psicologi più di quanto li occupa la terapia. D’altronde, moltissimi disturbi mentali sono dipendenti o codipendenti da deficit e distorsioni funzionali., e le pratiche psicoterapeutiche summenzionate. non sono inquadrabili come solamente terapeutiche, perché esse in realtà costituiscono esercizi ‘pedagogici’ da cui quasi tutte le persone trarrebbero giovamento – il livello di competenze metacognitive della popolazione generale è, infatti, piuttosto basso – mentre indurne un buono sviluppo avrebbe un forte effetto di contrasto e prevenzione del disturbo mentale.
Le funzioni metacognitive si raggruppano usualmente in tre rami (ognuno dei quali ha più livelli, che qui non stiamo ad esporre):
-introspezione (capacità di riconoscere che emozioni, pensieri etc. stanno ‘nella’ mente e non fuori di essa; monitoraggio dei propri processi cognitivi ed emotivi);
-decentramento (capacità di concepire la mente altrui, la diversa visuale, la diversa sensibilità degli altri rispetto alle proprie);
-mastery (capacità di influenzare i propri processi psichici: dirigere l’attenzione, entrare e uscire dagli stati d’animo e dalle identificazioni, prevenire tentazioni, eseguire esercizi di potenziamento psichico, liberarsi da automatismi cognitivi, emotivi e ideo-motori).
Questi obiettivo, tecnicamente non difficoltosi da perseguire, dovrebbero essere il fulcro della pedagogia, anche perché il perseguirli conferisce all’individuo indipendenza, libertà e capacità critica, sia in sé stesso che verso l’ambiente e la società. Lo rende meno manipolabile. Proprio perciò, non è sorprendente, realisticamente, che la scuola di massa non si preoccupi di stimolare nei fanciulli lo sviluppo sistematico di queste funzioni, nei loro progressivi livelli. Tale sviluppo era invece il fulcro dell’educazione nella scuola elitaria, ossia per la formazione della classe dirigente (ne è un esempio il famoso testo di studio di Quintiliano, le Institutiones Oratoriae); ed è certamente il fulcro della formazione del mago.
I vari esercizi per apprendisti maghi e per maghi si possono perlopiù facilmente collocare su uno o più dei tre suddetti rami. La strutturazione degli esercizi, molto articolata e complessa, anche nelle tappe e negli scopi, può essere definita adeguatamente come un approccio ingegneristico alla mente e alla sua ‘coltivazione’: analizzare, prendere coscienza, riorganizzare, potenziare, raggiungere, trasformare. Descriviamo sommariamente solo alcuni di essi, facendo sempre presente che la pratica magica si dirige a varcare la barriera endopsichica tra conscio e inconscio per lavorare col primo sul secondo e nel secondo.
Innanzitutto, dobbiamo citare l’Otz Chiim, o Albero della Vita, glifo (o mandala) fondamentale della Qabbala e di tutta la magia occidentale, che mostra una sorta di mappa dinamica con le dieci ‘stazioni’(rappresentate da sephirot, ossia sfere, contenenti ciascuna un determinato simbolismo e significato) della progressiva emanazione dell’universo dall’Immanifesto, scendendo di livello in livello sino al mondo materiale. Le dieci stazioni sono collegate tra loro da ventidue percorsi, corrispondenti agli Arcani Maggiori del Tarot. Uno dei principali esercizi magici è meditare calandosi entro il simbolismo di una di queste sfere e di quanto le è associato, assumendo l’identità e il ruolo di ciò che essa raffigura – ad es., un re antico e saggio, che regna sul formarsi del mondo, per poi passare all’identificarsi col suo contrappasso femminile, la Madre universale, l’Oceano primevo, etc. Creare storie sulle figure simboliche delle sephirot. Esercizi imperniati sull’assumere, dismettere, cambiare, confrontare identità, valori, punti di vista. Contemplare una Sephirah dal punto di vista di un’altra. Allenare la psiche a entrare ed uscire dagli stati affettivi e a svincolarsi da identificazioni limitanti. Avviarla all’identificazione col macrocosmo. Il tutto, privilegiando l’autoinduzione di emozioni, la visualizzazione, l’uso delle immagini colorate, meglio se vivacizzate e potenziate dall’effusione di aromi, dall’esecuzione di gesti e dall’emissione coordinata di suoni – insomma, dall’agire e dall’attivare combinatamente vari canali effettori e sensorii (come si fa nella croce cabbalistica), o anche materialmente costruendo oggetti ‘dell’arte’, rispetto ai concetti astratti, all’uso delle nude parole. Conway (cit., pag. 71 ss.) espone un programma di allenamento alla visualizzazione dinamica davvero impressionante e, del tutto verosimilmente, capace di produrre risultati. La meditazione profonda sul simbolismo sephirotico è ritenuta in grado di attivare gli archetipi della mente collettiva e di consentire un vissuto conscio di essi – superando così l’assunto junghiano della natura noumenica, quindi inaccessibile alla cognizione, delle forme archetipiche.
Un altro esercizio mentale dell’apprendista mago è la meditazione retrograda: ripensare i fatti della giornata, o della vita, all’indietro, focalizzando i rapporti causali tra fatti e fatti, fatti e emozioni, emozioni e atti, così da accrescere, da un lato, la consapevolezza dei processi causativi; e da acquisire libertà, dall’altro, dall’unidirezionalismo della ‘freccia del tempo’, guadagnando distanza prospettico-decisionale rispetto agli stimoli ambientali ed endogeni.
Ancora, possiamo citare quella pratica che chiameremmo la purgazione dei fantasmi: rilassarsi, visualizzare intorno a sé un muro circolare, invalicabile, di luce ruotante in senso orario; lasciare che al suo interno ‘emergano’ immagini, esseri, pensieri, suoni, osservarli con distacco, e trasferirli al di là del muro, con pazienza, fintantoché non cessino di affiorarne e appaiano le matrici, o schemi, ad essi sottostanti.
Quando si evoca, al fine di prenderne coscienza, studiarle e lavorarci su, ma in modo di circoscriverle ed essere protetti dalla loro destabilizzante influenza, le potenze oscure e squilibrate del microcosmo e del macrocosmo (le Qliphot, ossia “donnacce”, nella Qabbala), quelle che oggi potremmo chiamare le proprie “parti folli” o i propri conflitti, gli stati problematici, gli oggetti fobici, o gli alter di DID, ci si pone nel suddescritto muro o cerchio magico, si traccia – per terra e nella visualizzazione – a est del cerchio, un triangolo dell’Arte, e in esso si induce l’apparizione della ‘potenza oscura’, o del daimon, o del dio inferiore. Si incomincia dai livelli più bassi, dalla Sephirah terrena, Malkut (il Regno) e dal genio in essa insito. Postisi in stato di rilassamento, scelta l’immagine o il nome di dio o di dea o di altro essere spirituale, che più si sente emotivamente carica (personificando così il relativo ‘complesso’ inconscio), lo si evoca (ossia, lo si fa emergere dal proprio subconscio), lo si elabora, si stabilisce un rapporto con esso, si assimila il suo contenuto o portato o punto di vista; indi si congeda in pace (“andate in pace, la messa è conclusa”, dice il sacerdote, rivolto agli angeli) l’ente evocato, lasciandolo riassorbirsi nella sfera subconscia di sé. Il rito magico, talora assai complesso e ricco, è essenzialmente un ausilio per questa opera.
Il complesso inconscio viene così estratto, portato alla luce, proiettato temporaneamente all’esterno, fatto oggetto di cognizione e insieme reso partner di una relazione, soggetto di drammatizzazione. Il fine è quello di espandere la consapevolezza e creare l’ordine interiore a tutti i livelli della psiche. Ma non l’ordine dell’io di partenza, bensì l’ordine che risulterà dalla integrazione di questo medesimo coi contenuti evocati e integrati.
Alcuni esercizi per l’apprendista mago sono rivolti alla sua liberazione e protezione dalla pressione e dalla gravità esercitate dalla sua appartenenza sociale. La prescrizione di osservare il segreto sulla iniziazione e sulle operazioni sia individuali che di gruppo, nonché i periodi di isolamento e di silenzio, hanno palesemente la funzione di indurre e rafforzare un processo di differenziazione e individuazione del singolo adepto e del suo gruppo rispetto alle identificazioni e ai legami con la società e dai suoi costrutti collettivamente condivisi, che tendono a trattenere l’adepto negli schemi e negli abiti mentali da cui deve liberarsi.
Da ultimo citiamo un esempio di tecnica magica per l’induzione di stati alterati di coscienza ed evocazione (e di cromoterapia!), è quella dei colori lampeggianti. Tutti sanno che se si fissa per mezzo minuto un oggetto rosso e poi si guarda una superficie bianca, su di questa si vedrà una sagoma del colore complementare al rosso, ossia verde. Orbene, se si prende un disco di cartone e lo si dipinge con forme geometriche uniformi ed eguali tra loro, di colore rosso, ciascuna con al centro un dischetto verde brillante, e poi ci mettiamo a fissarlo, con l’attenzione sul rosso, dopo un poco i muscoli degli occhi si allentano e perdiamo il fuoco. Allora, al posto del rosso lampeggia il verde, mentre i dischetti verdi lampeggiano di rosso. In questo modo, si ottiene la massima influenza del colore rosso su tutti i livelli della psiche, quindi la massima esperienza del ‘rosso’ (che corrisponde a una particolare ‘stazione’ dell’Albero della Vita) e del suo potere evocativo.
Dobbiamo però ricordare che la magia, ovviamente, non è solo psicologia, non è solo opera sul piano soggettivo; essa intende essere teurgica, ossia un processo di unificazione tra microcosmo e macrocosmo, tra umano e divino; e intende pure conferire alla volontà potere sul mondo, ossia superare la distinzione tra pensiero e materia, a favore del primo. La sua concezione filosofica è, in fondo, immaterialista (assonante con le vedute di Berkeley, oserei dire): la differenza tra pensiero e materia è reale ma come vissuto del pensiero, è essa stessa interna al pensiero, alla psiche. La mente magica (che, ovviamente, non è l’io empirico individuale) è l’universo.
Superfluo additare le pericolose seduzioni che possono aleggiare intorno a simili concezioni e proponimenti. E’ invece il caso di ricordare quanti diversi filoni di pensiero oggi, molto tempo dopo i primi filosofi immaterialisti e idealisti, riscuotono successo editoriale e seguito non solo popolare, col negare o relativizzare il dualismo ontologico tra psiche e materia (o mondo), in base ad argomenti tratti sia dalla psicologica junghiana che dalla fisica quantistica e da sue supposte e sorprendenti analogie con certe antiche scritture mistiche soprattutto hinduiste e yogiche – scuole di pensiero tutte attraversate da un’idea di fondo, ossia che se la coscienza, attraverso un radicale processo evolutivo universalizzante, riesce a penetrare abissalmente nella psiche, prima individuale poi collettiva, possa alfine davvero riassorbire in sé il dualismo col mondo materiale ‘esterno’ e cessare così di essere la hegeliana “coscienza infelice”.
Mantova, 9 Novembre 2006 Marco Della Luna
[1][1] Esiste un corpus magicum occidentale, che consiste in libri esponenti un’ars originata da una tradizione caldea ed egizia, elaborata e trasmessa all’Europa sia da pensatori greci (quali Pitagora, Empedocle, Platone, Porfirio, etc.) che dall’esoterismo ebraico, la Qabbala; in Europa fiorisce poi con l’alchimia (nel cui linguaggio oggettivo e naturalistico diversi studiosi successivi, tra cui C.G. Jung, hanno ravvisato una metafora di realtà e operazioni psichiche, che gli alchimisti nascondevano nella terminologia dell’ars metallica), i Rosacroce, una molteplicità di scuole magiche, e continua fino ad oggi.
[2][2] Da Giovanni Liotti, Antonio Semerari, Antonino Carcione e altri; vedi Psicoterapia del Paziente Grave, a cura di A. Temerari, Cortina 1999; Giovanni Liotti, Le Opere della Coscienza, Cortina, 2001).