MAGISTRATI, INDAGATI, DIMISSIONI
MAGISTRATI, INDAGATI, DIMISSIONI
Se fossi il sindaco di Parma o Livorno o Lodi, o un qualsiasi altro amministratore cui si chiede di dimettersi perché indagato, imputato, rinviato a giudizio oppure condannato non definitivamente, risponderei: «I magistrati stessi, quando si ritrovano indagati, imputati o condannati, talvolta si dimettono, ma di solito non si dimettono; quindi perché dovrei dimettermi io, tanto più che, a differenza dei magistrati, ho una legittimazione popolare, e che mi ritengo innocente? La democrazia non lascia ai PM di decidere chi può rappresentare la gente, altrimenti i PM diventano organi politici. »
Personalmente, conosco qualche magistrato che, accusato di un reato piuttosto grave, con prove piuttosto evidenti, si è semplicemente trasferito nella città più vicina, senza che alcuno chiedesse le sue dimissioni, e continua tranquillamente a giudicare o inquisire ed accusare, tra colleghi e avvocati che sanno della sua situazione. La stampa tace. Dov’è il problema? Se lo standard generale di sensibilità nel Paese è questo, va bene così.
Sapendo che nell’apparato pubblico l’illegalità e l’affarismo sono molto diffusi, è pure irrazionale credere che una parte specifica di esso, cioè il settore giudiziario, sia diversa e immune da quelle caratteristiche anziché simile al resto dell’apparato, che possa certificare la moralità delle liste, tanto più che si conoscono molti casi di magistrati autori di gravi illeciti, e che quindi è evidente che la qualità di magistrato non è affatto garanzia di legalità o moralità. Non esiste, nello Stato italiano, un organo credibile nel dare patenti di correttezza. Certo, sapere quanto è corrotto l’apparato pubblico suscita il forte bisogno emotivo di credere in un potere superiore e immune da questi vizi e in grado di colpire la corruzione e risanare il sistema. Questo bisogno alimenta il prestigio popolare della magistratura, con la sua mitologia televisiva da prima serata.
Vengo a un terzo punto, ancora più importante, che devo spiegare, come avvocato e giurista. Si tratta del rapporto tra processo e ricerca della verità. Comunemente si pensa che la verità debba essere accertata dal processo e dai giudici, perché accertarla sarebbe la funzione del giudizio, massimo strumento per questo scopo.
Così non è, come ogni avvocato sa, e per molte ragioni; e non mi riferisco banalmente ai magistrati politicizzati o corrotti, bensì alla natura del processo. Nella ricerca scientifica o storica o sociologica,
a)la verità è ricercata senza limiti formalistici e senza vincoli di scopo, liberamente;
b) qualora non si riesca ad accertare se una tesi sia vera o falsa, si sospende il giudizio e si lascia aperto il dubbio;
c)ogni accertamento può e deve essere rimesso in discussione quando emerga qualche dato di fatto che smentisca l’accertamento già acquisito: le conclusioni della scienza sono sempre provvisorie e aperte.
Questo è il modo di ricercare la verità come tale.
La ricerca della verità, nel processo giudiziario, è invece
a) finalizzata non alla conoscenza ma a chiudere un caso prendendo una decisione;
b) finisce sempre con la presa di una decisione, anche quando non è possibile accertare la fondatezza della tesi in contestazione; ed è
c) sottoposta a forme, limiti, scadenze che spesso portano a risultati molto diversi rispetto alla verità. Il processo deve adattarsi al principio del contraddittorio e al principio dell’onere della prova, che non si applicano all’indagine scientifica.
La sentenza può dichiarare come vera una tesi falsa solo perché un avvocato o il pubblico ministero non chiede per tempo l’audizione del testimone chiave oppure non riesce a produrre in tempo un documento importante o perché non rispetta qualche formalità nell’assunzione di una prova, per esempio di un’analisi chimica o di un’intercettazione telefonica. Avviene che un colpevole non venga nemmeno giudicato o sia prosciolto perché interviene la prescrizione o perché la querela viene rimessa o perché cambia la legge. O che sia assolto per insufficienza di prove, cioè con una sentenza che lo dichiara innocente perché non è stato possibile provare la colpevolezza. O che qualcuno sia indagato e arrestato e magari condannato perché alcuni magistrati vogliono neutralizzarlo per ragioni di politica o di affari, oppure, al contrario, può darsi che gli diano copertura e protezione, sicché neppure viene indagato. La ricerca scientifica e storica o investigativa spesso porta ad accertare, dopo molti anni, l’erroneità di sentenze oramai eseguite in casi che non possono più essere riaperti.
Per queste ragioni, è errato pensare che le sentenze accertino e certifichino la verità dei fatti e delle eventuali colpe in modo autorevole, appagante e definitivo, e che si possano sostituire alla libera indagine. Non è il sigillo dell’autorità statale a rendere certa e indiscutibile un’affermazione dal punto di vista della verità. E’ da stupidi o ignoranti od opportunisti dire: “non so quale sia la verità; aspettiamo che i giudici accertino se i fatti di cui Tizio è accusato o no”, “i giudici accerteranno la verità e noi potremmo e dovremmo attenerci alle loro verifiche come accertamenti definitivi e indiscutibili per decidere se Tizio o Caio sia degno o indegno di fare il sindaco, il ministro, il presidente di un ente pubblico.” Talvolta neppure una condanna o un’assoluzione definitiva risolve i dubbi.
Sarebbe comodo e rassicurante che le cose stessero così, ma così non stanno, e il principio di realtà esige che ci rassegniamo a non avere un metodo automatico per risolvere questi dubbi. Dobbiamo esaminare caso per caso e concretamente la vicenda, e, se non lo possiamo fare, in mancanza di prove evidenti, dobbiamo sospendere il giudizio e tenerci il dubbio. Conclusione questa molto frustrante per il sentire popolare, che invece è avido di giudizi chiari, semplici, forti, definitivi, e possibilmente che producano una scarica emotiva.
Un partito coltivante l’ambizione di rivolgersi all’intelligenza e al realismo del suo elettorato, dovrebbe aver il coraggio di dirgli quanto sopra, e non l’ingenuità di imporsi una regola di dimissioni automatiche in caso di iscrizione nel registro degli indagati – una regola che invita i pm legati al partito e agli interessi avversari ad accusare ad arte i tuoi uomini migliori. Ma un leader, per prevenire la concorrenza interna, può anche volere che i suoi colonnelli più brillanti siano eliminati da un potere esterno.
11.05.16 Marco Della Luna