CRISI AI LIMITI DELLO SVILUPPO
Ministri, associazioni industriali, sindacalisti, banchieri centrali e internazionali parlano di “uscita dalla crisi” e di “ripresa”. Ma è solo illusione, makebelieve: non c’è un “dentro” e un “fuori” della crisi. Non c’è nemmeno una “crisi” come momento speciale, separato dalla normalità fisiologica – un momento che passa e poi si sta bene, si torna a produrre, a guadagnare e a consumare sempre di più. Le crisi monetarie-finanziarie ed economiche si susseguono da secoli e sono essenzialmente dovute al fatto (adeguatamente spiegato da Amato e Fantacci ne La fine della finanza e nel mio Euroschiavi) che il sistema finanziario è strutturalmente squilibrato perché crea il denaro come credito produttivo di interesse composto e venduto come merce sotto varie forme derivate; e perché in tal modo, per effetto dell’interesse composto, l’indebitamento totale, e il suo costo in termini di interessi, cresce molto più rapidamente della disponibilità di denaro e dell’economia reale, quindi inevitabilmente la strangola, producendo ondate di insolvenza. Ma, anche se, mediante una teoricamente possibile riforma, si ponesse rimedio a ciò, il sistema economico-finanziario ha già iniziato a sbattere contro limiti esterni, di natura oggettiva: i limiti delle risorse naturali esauribili, i limiti della sostenibilità biologica ed ecologica dell’inquinamento, delle alterazioni climatiche – quelli di cui avvertiva il Club di Roma già negli anni ’70 del secolo scorso. Oggi la specie umana sta raggiungendo quei limiti: sta esaurendo materie prime non rinnovabili, ed estinguendo quelle rinnovabile (ad es., consuma più pesce di quanto ne rinasca), sta moltiplicandosi oltre la capacità del pianeta di mantenerla, sta avvelenandosi l’aria e l’acqua. Urtando contro i limiti esterni, lo sviluppo economico, necessariamente, cesserà e si volgerà in calo, o crollo – forse non in modo globale e simultaneo, forse avverrà per aree geografiche e per settori economici.
Dato questo orizzonte generale, quindi, non ha senso parlare di “uscire dalle crisi”, a meno che si intenda questa uscita come una drastica riduzione sia dei consumi che dei consumatori, auspicata già da decenni da vari pensatori e statisti, come H. Kissinger. Se il mondo crescesse alla media non dico di Cina e India, ma del solo 3,4 % l’anno, come la Germania, paese “virtuoso”, allora in capo a 15 anni circa il consumo di risorse sarebbe raddoppiato. Ovviamente, non si andrebbe avanti 15 anni, perché i limiti sarebbero raggiunti molto prima. La Terra può stabilmente sostenere uno sfruttamento pari a circa 1/10 dell’attuale, altrimenti l’ecosistema collassa. Ultimamente, quindi, l’impoverimento è imposto dalla sovrappopolazione, la quale, secondo le stime correnti, raggiungerà il suo picco tra gli 8,3 e i 9,3 miliardi. Una ripresa stabile rispetto ai livelli attuali potrà permettersi quando la popolazione sarà scesa sotto un miliardo. Fino ad allora avremo severe recessioni seguite da limitati rimbalzi. Le prospettive sono quindi pesantissime e sono non di crescita, ma di decrescita forzata – la “decrescita infelice” di cui tratta il mio recente saggio Oligarchia per popoli superflui. La politica è però costretta a sostenere credenze e proposte sviluppiste di questo tipo, perché la gente, ovviamente, non accetterebbe il discorso realistico. Non può fare a meno di una prospettiva di soluzione positiva, cioè della speranza. Del resto, tolta la Cina e pochi altri paesi, che governo mai ha a)la competenza e b)il potere di fare interventi efficaci? Che cosa altro fanno o possono fare i governi, se non tirare a campare e suggere nettare dalla spesa pubblica? Ce ne è forse uno, che abbia un nuovo modello socio-economico come proposta? O che parli, perlomeno, su scala di modelli macroeconomici? Direi di no – anzi, persino Fidel ha ritrattato il suo modello rivoluzionario, riconoscendolo inidoneo. E’ palese, oramai, che la guida del mondo è nelle mani di organismi senza controllo democratico o giudiziario (FMI, WTO, BCE, Trilateral, etc.); e che saranno questi, sopra la testa di governi e parlamenti, a gestire la ristrutturazione globale e la messa in sicurezza della biosfera. Prima ancora di essere corrotte e inefficienti, le istituzioni politiche sono impotenti, nel senso che non hanno le leve del potere economico, e innanzitutto quella monetaria, le quali sono passate ad enti sovrannazionali. Enti non soggetti a guida né controllo democratico ed esenti anche dal controllo giudiziario. Non possono fare politica economica un governo, uno stato privi di sovranità monetaria (ossia privi dello strumento di regolare il money supply), di regolare le importazioni, sottoposti a vincoli e direttive finanziari imposti da enti sopra ordinati, e persino a una legislazione e a una giurisdizione pure sopraordinati. Possono fare solo piccolo cabotaggio. Tamponare le crisi. Gestire l’ordinaria amministrazione. E prendersi le responsabilità per scelte macroeconomiche assunte da altri. Per questo è naturale e inevitabile che la politica, divenuta impotente come politica, si degradi ad affarismo, clientelismo e deboscia – a teatrino, insomma, dietro cui si nasconde il livello di potere effettivo, quello che “piscia sulla testa” dei politici, e cui accennava Arpisella nella famosa telefonata a Porro, ma di cui già da decenni parlano e scrivono sociologi ed economisti.
E l’Italia? In Italia abbiamo l’idea di un ministro Tremonti che, come un abile fisiatra, cura una persona sana e infortunata per farla ritornare abile, Ma le cose non stanno così. Tremonti non è un medico che cura un atleta infortunato per farlo ritornare a correre. E’ un geriatra che si dà da fare al capezzale di un vecchio, tamponando uno scompenso d’organo dopo l’altro per prolungare una vita che non può più tornare alla salute, ma che, se cessasse, lascerebbe la classe dirigente italiana priva del suo potere e dei suoi privilegi e redditi.
In effetti, da circa vent’anni l’Italia, mentre la sua classe dirigente si fa sempre più ricca e privilegiata, sta già perdendo quote di mercato estero e interno, nei settori di media e bassa tecnologia che le sono propri, contro la concorrenza cinese, indiana, pakistana, rumena… la Cina, con una popolazione molto più giovane, ha un esercito di un miliardo di lavoratori disciplinati ed efficienti, senza pretese, che competono con i nostri nelle medesime produzioni: non c’è gara. Inoltre, la Cina ha un sistema monetario che le consente di finanziare gli investimenti senza indebitarsi. Quindi è certo che ci sottrarrà quote dopo quote di mercato e di reddito. In Italia abbiamo i salari tra i più bassi, e il costo unitario di produzione tra i più alti: una condizione gravissima, indice di disfunzione radicale, e che determina un calo comparativo certo, stabile, strutturale, duraturo. Ai loro iscritti, le organizzazioni imprenditoriali lo stanno dicendo da mesi: la crisi (recessione) vera inizia adesso e durerà almeno tre anni. I commercialisti, ultimamente, segnalano la cessazione di oltre un terzo delle attività. Negli ultimi 12 mesi gli studi legali e commercialistici hanno perso il 46% delle entrate e il 20% di essi ha chiuso. E non possiamo contare, come la Germania, per recuperare competitività, su scuola, ricerche e infrastrutture – i fattori di medio-lungo termine – perché in Italia esse sono a livelli di terzo mondo, così come il servizio giudiziario, il quale è tanto credibile ed efficiente (156° posto al mondo), che tiene lontani gli investimenti stranieri e spinge all’estero quelli italiani.
Pertanto quelle dei politici in generale, della Confindustria, dei sindacalisti, quando parlano di crisi ormai alle spalle o di prospettiva di ripresa o di difesa dei redditi e dei diritti dei lavoratori, sono frottole, pie frottole, per tener tranquillo e gestibile il popolo. Il futuro dell’Italia è un piano inclinato di crescente impoverimento e di crescente ingestibilità del debito pubblico e della spesa pubblica in generale, che prepara nuove, impopolari tassazioni, tensioni sociali, e – specificamente – tensioni separatiste del Nord, che, con quel che ha dovuto dare del suo reddito per mantenere il Sud e Roma, non ha potuto fare gli investimenti produttivi necessari per mantenere se stesso competitivo, e che quindi presto non solo non sarà più materialmente in grado di sovvenzionare il Meridione, ma scivolerà con esso verso il terzo mondo. Il prof. Luca Ricolfi, col suo celebre saggio Il Sacco del Nord, ha dimostrato che tutti i soldi del Nord trasferiti in sessant’anni al Sud per sollevare il Sud hanno in realtà aumentato l’arretratezza del Sud – perché hanno premiato e incentivato le sue anomalie e foraggiato la classe dirigente che le produceva e manteneva, dandole anzi più potere sul governo del paese, più potere per estendere e imporre i suoi metodi feudali e paralizzanti.
L’Italia è un sistema non riformabile. Praticamente da decenni non si fanno riforme, se non per dare più rendite e potere politico al sistema bancario, interno e internazionale, sulla società sull’economia, sulle istituzioni. Più potere politico al sistema bancario (mi riferisco soprattutto alle riforme della Banca d’Italia e del suo ruolo, al suo c.d. divorzio dal Ministero del Tesoro) comporta, ha comportato, più debito pubblico e più interessi passivi da pagare. Ma questo assetto non è riformabile, perché si andrebbe contro ai detentori del vero potere politico, cioè il cartello dei banchieri. Ci provò con una legge Berlusconi nel dicembre 2005 e nel 2006 perse le elezioni, e il nuovo governo di “sinistra” legalizzò subito la privatizzazione della Banca d’Italia, riformandone lo statuto. Ritornato al potere, Berlusconi non ha più nemmeno menzionato quella legge: ha imparato la lezione: chi tocca i fili, muore.
Un federalismo fiscale “responsabilizzante” potrebbe essere una valida riforma, una riforma idonea a risanare e correggere cattive abitudini allo spreco e alle ruberie, tipiche degli amministratori del Sud (ma non rare nemmeno altrove), dove abbiamo importanti regioni che spendono per il personale, a parità di popolazione, dieci volte più della Lombardia; e, per i medesimi servizi (ma molto peggiori), ben sei volte di più. E’ chiaro che quel 90 od 80% in più va in ruberie e sprechi, e che lo paghiamo noi. Ma è anche chiaro che, se non gli si dessero quei soldi, il Sud non ce la farebbe più. E siccome i suoi parlamentari sono indispensabili per qualsiasi maggioranza parlamentare e qualsiasi governo, e sono esponenti degli interessi forti di quelle regioni, una vera riforma di questo tipo non si potrà attuare finché rimane uno stato italiano unitario. Si farà una finzione o un compromesso che lasceranno inalterata la sostanza delle cose, pur avendo un valore simbolico.
Una riforma che darebbe fiato e slancio all’economia italiana – sempre però provvisoriamente, perché entro l’orizzonte di cui dicevamo prima, quello dei limiti esterni dello sviluppo – sarebbe separare il Nord dal Sud, così che il Nord, liberato dal tributo di circa 110 miliardi l’anno che oggi paga per il Sud e Roma, possa investire e ritrovare competitività; e che pure il Sud, uscendo dall’Euro e svalutando, recuperi competitività, capacità di esportare, di attrarre investimenti e turismo.
Una tale riforma non è molto verosimile che avvenga, e potrebbe risultare solo da un violento tracollo economico e funzionale del paese. Però sempre più persone e imprese dotate di capacità e di buona volontà non stanno ad aspettarla, e scelgono la “secessione individuale”, ossia l’emigrazione verso sistemi-paese più efficienti e con più diritto alla speranza.
14.10.10
Marco Della Luna