L’ITALIA E IL NEMICO CAROLINGIO
L’ITALIA E IL NEMICO CAROLINGIO
Non si tratta di nazionalismo, ma di legittima difesa dell’economia contro interessi opposti
Mentre scrivo queste righe, si scalda lo scontro sul deficit del bilancio 2019 (2,4% sul PIL) presentato dal governo italiano e la c.d. Europa, con impennate dello spread: Bruxelles, Moskovici, Dombrovskis lo cassano e minacciano una procedura di inflazione.
Oggi gran parte del mondo – USA, Cina, India, Russia… – ha ripreso con successo, più o meno vigorosamente, politiche espansive, di investimenti (a deficit), di riduzione fiscale e di crescita. I loro sistemi bancari fanno credito all’economia reale e non solo a quella finanziaria.
All’opposto, l’Unione Europea, con la BCE, resta stolidamente abbarbicata a un modello finanziario deflativo, incentrato su austerità e competizione nell’esportazione – cioè, non potendosi abbassare il corso dell’Euro, per recuperare competitività nell’export i paesi non dominanti abbassano salari. Di conseguenza, l’area comunitaria, e soprattutto l’Eurozona, è in coda ai paesi OCSE in quanto ad andamento economico. L’Italia è in coda a questa coda, per le ragioni che ora vedremo. Il sullodato modello finanziario deflativo non è frutto di masochismo, né incompetenza economica, né di ostinazione su dogmi smentiti dai fatti: esso è funzionale agli interessi del capitalismo tedesco e francese, e a ricaduta agli interessi degli elettorati tedesco e francese. Esso infatti, assieme all’Euro, serve al rastrellamento delle risorse dei paesi deboli e all’assunzione definitiva di un ruolo egemonico sull’Europa occidentale, da parte dell’Asse carolingio Berlino-Parigi. Il meccanismo è molto semplice, spiegato in tutti i testi di economia internazionale:
Se hai un paese (l’Italia, per esempio) con una produttività minore, ossia con costi di produzione maggiori, rispetto a un altro (la Germania, sempre per esempio), avrai che i consumatori del primo paese avranno interesse, perché risparmieranno, a comperare i prodotti del secondo paese – quindi il primo paese si indebiterà progressivamente verso il secondo; e gli imprenditori del primo paese avranno interesse a trasferirsi nel secondo paese, perché là i loro investimenti renderanno di più – quindi il primo paese perderà liquidità verso il secondo; e i migliori lavoratori del primo paese avranno interesse a emigrare nel secondo, perché avranno paghe e servizi migliori – quindi il primo paese perderà le sue migliori risorse umane a vantaggio del secondo. In conseguenza, il primo paese perderà i mezzi per fare investimenti necessari ad efficientarsi e ad aumentare la propria produttività, mentre il secondo paese ne avrà in abbondanza, e aumenterà il suo vantaggio competitivo sul primo.
Fortunatamente per il primo paese e per gli equilibri internazionali, i flussi di denaro suddetti dal primo paese al secondo, facendo aumentare l’offerta della moneta del primo paese e la domanda del secondo, producono una svalutazione della prima e una avvalutazione della seconda; ne consegue che i prodotti del primo paese costeranno meno rispetto a quelli del secondo, e viceversa; onde si ristabilirà un bilanciamento.
Se però introduci il blocco dei cambi, come si è fatto con l’Euro (e prima con altri due sistemi, lo SME e l’ECU, dimostratisi rovinosi), questo fisiologico aggiustamento e riequilibrio non potrà più avvenire, e le risorse del primo paese si travaseranno nel secondo paese, il quale potrà comperare per prezzi di realizzo i migliori assets (o ‘cespiti’, in lingua italiana) del primo paese, sfruttando la sua condizione di indebitamento, e finendo per impadronirsi di esso. Il primo paese potrà ritardare questo esito tagliando duramente i salari onde recuperare parzialmente la competitività (che non può più recuperare lasciando svalutare la moneta e investendo in innovazione) e realizzare così saldi attivi di bilancia commerciale; ma perderà gradualmente efficienza e resterà indietro – ed è questo che sta avvenendo all’Italia sotto la regia della BCE e dell’UE.
Il processo di travaso può essere accelerato e forzato introducendo vincoli di bilancio che costringano il primo paese a realizzare permanentemente attivi primari del bilancio pubblico (ossia lo Stato preleva più soldi con le tasse dal sistema, di quanto gliene restituisca con la spesa pubblica): ciò determinerà insolvenze per carenza sistemica e crescente di liquidità, calo della domanda, interna, degli investimenti. Questo è lo scopo delle regole di finanza europee.
L’Euro è concepito sul modello del Franco Coloniale Francese, o CFA, oggi Franc Communauté Financière Africaine (valuta comune di 14 (o 15) stati africani e 155 milioni di persone), con cui la Francia si è presa la sovranità monetaria di buona parte del Continente Nero, una parte ricca di petrolio, e la esercita -si badi bene- attraverso il suo governo, non avendola ceduta alla BCE né alla Banca di Francia. La Francia, che impose il Franco Coloniale nel 1945 e tuttora lo emette, lo rende convertibile in Euro al cambio fisso di 1:1, ma i paesi della Comunità devono lasciare in deposito il 65% delle loro riserve valutarie in un conto di transazione della Banque de France a Parigi, cioè devono lasciare alla Francia il 65% di ciò che incassano dalle loro esportazioni, anche se così facendo devono lasciar morire di fame la loro popolazione e rinunciare agli investimenti per lo sviluppo. Le politiche delle due banche di emissione del Franco Coloniale sono decise insieme a rappresentanti francesi, formalmente in modo paritario, sostanzialmente dalla sola Parigi, che, attraverso il controllo della moneta e delle riserve (oltreché attraverso le sue forze armate), mantiene il suo potere coloniale senza però le responsabilità del rapporto coloniale dichiarato. La guerra contro la Libia aveva tra i suoi scopi quello di fermare l’iniziativa di Gheddafi per una moneta africana garantita con oro e che avrebbe spodestato il Franco Coloniale. Il Franco coloniale non permette ai paesi africani della Comunità di fare una libera politica di interesse nazionale, e li relega a serbatoio di materie e manovalanza, dato che, come già detto, devono lasciare alla Francia il 65% del loro attivo commerciale, quindi non possono investire per il loro sviluppo e devono pertanto svendere le loro risorse per tirare avanti. L’aggancio prima al Franco francese, ora all’Euro, tiene alto il corso del Franco Coloniale, quindi deprime le esportazioni, scoraggia gli investimenti mentre incentiva le importazioni (come avviene per l’Italia). Per giunta, la libera circolazione e la convertibilità in Euro del Franco Coloniale favorisce l’esportazione di capitali da questi sfortunati paesi: i leaders africani (sostenuti e pagati per servire il Paese esagonale) vanno a Parigi con le valigie piene di franchi coloniali che scambiano contro franchi o in dollari, e le banche centrali africane sono obbligate a riscattare questi CFA che i leaders hanno lasciato in Francia e che la Francia non vuole tenere. E devono farlo attingendo dal 65% dell’attivo commerciale che devono lasciare in Francia. Non vi è da stupirsi se tutto ciò induce milioni di africani di questa Comunità ad andarsene. Sono migranti economici, profughi non della guerra ma del colonialismo finanziario francese (e di quello cinese, e del land grabbing delle multinazionali…) – un colonialismo simile a quello che viene applicato all’Italia1.
L’Euro sta portando l’Italia in Africa, assieme alla Grecia e ad altri. La Francia non è una potenza democratica, umanitaria, amica: è una potenza coloniale, durissima, pericolosissima, fortemente nazionalista, che vive sullo sfruttamento scientifico, sistematico e sanguinoso dei più deboli che riesce a tener sotto di sé – così come generalmente avviene nei rapporti tra Stati, che la gente comune immagina e vuole simili ai rapporti tra le persone, ossia guidati dai sentimenti e dalla morale, ma che nella realtà sono guidati dall’interesse e regolati dai rapporti di forza. L’elettorato francese trae benefici dal suddetto sfruttamento, quindi si trova in obiettivo contrasto di interessi con i paesi sfruttati della Comunità Africana, e con quelli della Comunità Europea. Inoltre complessivamente , proprio come i tedeschi, disprezza gli italiani, che considera traditori nella II GM. Certo, la Francia non prende dall’Italia materie prime: prende aziende, mercati, infrastrutture. E non ci illudano gli abbracci tra Matteo Salvini e Marine Le Pen: questo conflitto non si può conciliare all’insegna del comune sovranismo tra Front National da una parte e sovranisti italiani dall’altra, perché è un conflitto non ideologico ma di interessi economici pratici. Per superarlo, bisognerebbe realizzare un’alleanza di interessi, offrire alla Francia qualcosa di più vantaggioso in cambio del suo progetto sull’Italia e sugli altri paesi europei deboli – exempli gratia, un’alleanza per far fronte comune contro la concorrenza colonialista cinese in Africa. Altrimenti si avrà come esito o lo schiacciamento finale dell’Italia, oppure la rottura dell’ordinamento UE o quantomeno dell’eurosistema.
Proseguendo nella lettura, si vedrà come il modello “estrattivo” del Franco Coloniale francese si combina col modello del Piano Funk tedesco nella strategia monetaria e finanziaria dell’Euro per la ristrutturazione politico-economica dell’Europa a vantaggio dell’Asse Carolingio franco-tedesco; e si capirà così che cosa era realmente l’idea alla base della costruzione europea, cioè porre fine ai conflitti tra Francia e Germania: era il progetto di allearle in un’impresa di sottomissione e sfruttamento degli altri paesi europei. Per questa ragione l’UE e l’Euro non possono essere corretti in quel loro difetto suddetto, che tanto ci danneggia, perché non è un difetto, bensì la loro ragion d’essere.
Ovviamente, per realizzare cosiffatti travasi neocoloniali è indispensabile acquistare o conquistare la collaborazione dei vertici istituzionali e dei mass media del paese da svuotare, soprattutto quando gli squilibri così generati generano tensioni socialmente laceranti nel paese vittima. E, se un governo si ribella, se cerca di fare investimenti a deficit per lo sviluppo nazionale, viene attaccato e delegittimato dall’esterno e dall’interno, e sostituito col Quisling di turno.
Questa è sostanzialmente la storia dell’Italia e del direttorio franco-tedesco nella Unione Europea, con la Germania in prima fila ad insistere affinché il governo prendesse il risparmio degli italiani per ridurre il debito pubblico – ossia affinché lo consegnasse ai soliti banchieri-predoni franco-tedeschi, come è avvenuto nel ‘salvataggio’ della Grecia nell’anno 2011. Corrispondentemente, abbiamo la seguente asimmetria tra la giurisprudenza della corte costituzionale italiana e la corte costituzionale tedesca: la nostra dice che, salvi (a parole) i principi fondamentali, le norme europee prevalgono sulla nostra costituzione; quella tedesca dice che le norme europee e in generale le cessioni di sovranità agli organismi comunitari sono ammissibili in quanto rispettino l’identità costituzionale tedesca (compreso l’ambito economico).
Abbiamo quindi una giurisprudenza per servi, e una giurisprudenza per padroni (Herrenvolk), in contrasto con l’art. 11 Cost., che prescrive condizioni di parità nella limitazione della sovranità.
L’aspettativa popolare, dominante in passato soprattutto in Italia, che vi sarebbe stata un’integrazione europea ispirata da uno spirito di solidarietà e apportatrice di efficienza, benessere, sicurezza, si è infranta contro l’evidenza dei fatti: le politiche europee, decise sempre più unilateralmente da Germania e Francia, sono state intenzionalmente e ab initio progettate al fine di trasferire risorse economiche e professionali dai paesi periferici alla Germania e, secondariamente, alla Francia – dalla politica agricola comune alla politica monetaria e fiscale.
Sono venute alla luce, soprattutto per merito dell’economista Antonino Galloni (che tentò di contrastarle) le articolate e protratte azioni di boicottaggio, condotte dalla Germania, e soprattutto dal cancelliere Kohl, contro l’Italia, finalizzate a bloccare le riforme utili all’efficienza e alla stabilità del sistema-paese, e a boicottarlo, allo scopo di porlo in condizioni tali da poterne rastrellare le risorse.
Le successive operazioni di Ciampi, Prodi e Monti al servizio di Berlino e Parigi sono state fasi avanzate, di quella strategia, la fase della mietitura; mentre l’operazione Mani Pulite, la farsa di risanamento giudiziario del Paese, servì da copertura alle manovre più proditorie di cessione di assets e di sovranità ai capitali stranieri. Alla luce di tali dati storici, le parole dell’Inno europeo, cioè dell’Inno alla Gioia di Schiller, “seid umschlungen, Millionen” (“state abbracciati, o milioni”), suonano ora irridenti proprio come quelle della scritta “Arbeit macht frei” che dava il benvenuto al Lager di Auschwitz.
Il sistema-paese Italia, entro la struttura europea, ha proseguito sul suo cammino di degenerazione e decadimento economico, civile, tecnologico, culturale, giuridico, politico. La sua cricca dirigente si mantiene sulla poltrona, nonostante il generale male andare del Paese, grazie agli accordi quislinghiani con potentati economici stranieri, ai quali, in cambio di appoggio politico e mediatico, consente di prendersi ampie porzioni della liquidità nazionale, le migliori industrie, i migliori mercati. Indebitarsi ed essere svenduto a pezzi ai creditori-finanziatori è però il destino di ogni paese decadente e che rimane indietro in fatto di efficienza produttiva. L’Unione Europea e l’euro si sono rivelati come gli strumenti per questa operazione di smantellamento e cannibalizzazione dell’Italia (di questa materia mi sono occupato principalmente in Euroschiavi, Cimiteuro, Polli da spennare, Traditori al Governo, Oligarchia per popoli superflui).
Mentre scrivo, da un lato il governo Lega-Stelle preavvisa la cricca di Bruxelles che presto verrà mandata a casa dalla prevedibile vittoria sovranista alle elezioni europee del maggio 2019 (cosa tutt’altro che certa), mentre dall’altro lato la medesima cricca, appoggiata dai mass media, manda minacce e preavvisi di colpi di spread e colpi di Stato, e gli opinionisti discettano sul se, come e quando il golpe sarà eseguito, o perlomeno tentato. Tutti concordano che il ruolo pivotale spetterà al Quirinale, in quanto supremo garante della sottomissione dell’Italia (nella costituzione reale) alle potenze egemoni.
Il dato forte, incombente e ineludibile, è che, per i prossimi 25 anni, la produttività (efficienza produttiva) italiana è prevista in costante declino; il che implica il passaggio dell’Italia al Terzo Mondo (molto prima di 25 anni), perché l’Italia continuerà a perdere competitività, quindi a dover ridurre i salari e le prestazioni sociali per compensare tale perdita, non potendo lasciar svalutare la sua moneta dato che l’euro blocca l’aggiustamento fisiologico dei cambi. Continueranno il calo della domanda interna, la crescita delle insolvenze, il calo e/o lo scadimento dell’occupazione, la fuga di aziende, capitali e cervelli, il take-over da parte dei capitali stranieri.
Per uscire da questa traiettoria di declino, l’Italia dovrebbe innanzitutto (ma non solo) fare investimenti infrastrutturali di lungo termine, cioè almeno ventennali, e idonei a far risalire la produttività: ricerca, tecnologie, ammodernamento, formazione del personale, infrastrutture, sistemazione idrogeologica. Però per fare tali investimenti si dovrebbe vincere la resistenza e i vincoli europei, che sono stati formulati proprio per mantenere l’Italia (e gli altri paesi poco efficienti) in uno stato di crisi e involuzione controllate permanenti, onde poterne rastrellare fino al fondo le risorse finanziarie, aziendali, professionali al fine di trasferirle in Germania e Francia (questo è il piano della c.d. integrazione europea: l‘opinione pubblica pensa e sente i rapporti tra diversi paesi come se fossero rapporti tra individui, cioè in termini di amicizia e inimicizia, solidarietà, invidia, eccetera; e questa sua tendenza e cognitiva viene sfruttata per vendergli una narrazione antropomorfica, ingannevole della politica internazionale ed estera, compresa quella comunitaria). E bisognerebbe vincerli non solo per il prossimo anno né per un anno alla volta né per tre alla volta, bensì per un programma di almeno vent’anni, concordato e accettato con Bruxelles. Con un programma ventennale di investimenti, gli imprenditori privati, potendo contare su lunghi e grossi appalti pubblici, investiranno i loro soldi in attrezzature e assunzioni, facendo partire un grande circolo virtuoso ed espansivo anche di domanda interna.
Il permesso per finanziare un tale piano è alquanto difficile da conseguire, perché gli interessi e il piano europeisti sono nel senso che l’Italia debba continuare il suo declino e la cessione di aziende, capitali, professionisti ai paesi egemoni; e i garanti interni di questo piano europeista – Quirinale, magistrati interventisti (anche nella Corte Costituzionale), apparati ministeriali, mass media – sono già stati mobilitati, e dovranno organizzare qualcosa per fermare l’attuale governo tra qui e le elezioni europee, cioè prima che i partiti sovranisti possano vincere. Per fermare un governo sostenuto da oltre il 60% degli italiani, e con moltissimi osservatori già contro-mobilitati per denunciare ogni tentativo di nuovo golpe ordito sia dall’interno che dall’estero. Una bella partita. Una partita in cui entrano anche gli USA, l’unica potenza che abbia la forza necessaria per cambiare le regole del gioco e alleviare, se non spezzare, il giogo franco-tedesco che grava sull’Italia, e lo fanno, tra l’altro, attraverso una grande banca di investimenti che compera i BTP italiani per sostenerli calmierando i rendimenti. Ovviamente non è un intervento disinteressato, ma ciò non toglie che possa essere molto benefico. D’altronde, all’Italia conviene essere sottomessa direttamente al re, cioè a Washington, piuttosto che ai suoi vassalli, Berlino e Parigi.
Dei predetti garanti dell’europeismo sono possibili due valutazioni alternative: la valutazione moralistica e la valutazione realistica. La lettura moralistica dice: i presidenti della Repubblica e i sullodati magistrati sono traditori della patria e del giuramento di fedeltà ad essa, in combutta con gli stranieri; sicché sono colpevoli di alto tradimento. La lettura realistica (la mia) dice, per contro: l’Italia è collocata, per ragioni storiche di sconfitte militari, in una posizione di sudditanza rispetto ad certe potenze straniere e ai loro interessi (lo dimostra il fatto che, a 73 anni dalla II Guerra Mondiale, è ancora occupata da circa 130 basi militari statunitensi), cioè si trova in posizione subordinata entro la gerarchia degli Stati, e deve obbedire entro un foedus iniquum, per dirla nel latino giuridico. Si sa che, per Italia e Germania, esistono in tal senso protocolli aggiunti al trattato di pace con gli Alleati, il cui contenuto non è pubblico, e che vengono fatti sottoscrivere ai capi del governo. I suoi presidenti della Repubblica e i predetti magistrati sono garanti di questa obbedienza agli interessi stranieri e non fanno altro che impedire che i governi vadano contro tale condizione di sottomissione esponendo il Paese a ritorsioni che sarebbero peggiori della sottomissione stessa. Non hanno quindi alcuna colpa. La soluzione non è fucilarli alla schiena per alto tradimento, ma emigrare verso paesi che non siano in una condizione svantaggiata di sudditanza. Molte tra le persone più intelligenti e qualificate hanno preso questa via.
In ogni caso, bisogna anche fare un’opera di divulgazione-ufficializzazione dei trattati e dei protocolli riservati che vincolano e sottomettono l’Italia a comandi e interessi stranieri, altrimenti ogni ragionamento politico ed economico rimane minato dalla grande incognita costituita da tali obblighi, e di importanti atti politici contrari agli interessi nazionali rimarrà sempre il dubbio se siano stati compiuti per costrizione, per tradimento o per incompetenza.