STORIA, UTOPIA E CONSENSO POLITICO
STORIA, UTOPIA E CONSENSO POLITICO
Salva la possibilità che stia astutamente destabilizzando il Paese per creare le condizioni per farlo uscire dall’Euro (ipotesi da me favorita), il Governo “del cambiamento”, col suo dilettantismo sul piano macroeconomico, con i suoi insuccessi in quanto al PIL e con la destabilizzazione critica cui ha spinto i conti pubblici, sembra proprio che sia stato messo su allo scopo di dimostrare al popolo bue che non vi può essere cambiamento, che sottrarsi alle regole dell’Unione Europea, ai suoi vincoli e ai suoi modelli economici, è impossibile e nocivo, che bisogna rassegnarsi, e che i governanti sovranisti-populisti che ardiscono tentarlo attirano il disastro e la punizione sul paese che stupidamente li ha votati. Sembra proprio un governo il cui principale scopo sia quello di convincere la gente che bisogna sottomettersi: learned (taught) helplessness.
Lo scopo è che presto il popolo stesso invochi il ritorno di un tecnico ortodosso salvatore-castigatore, portatore di nuovi sacrifici, alla guida dell’esecutivo, di un Monti, di un Draghi, di un Cottarelli, di qualche altro Fedele della dottrina liberal finanziaria europeista e degli interessi che essa porta avanti.
Da secoli, il consenso politico viene perlopiù raccolto lanciando una proposta di un’ampia riforma più o meno rivoluzionaria, migliorativa e di rapida attuazione: “Votateci: abbiamo la ricetta per risolvere i problemi mediante questa riforma.” Quindi è importantissimo salvaguardare la propensione dell’elettorato e del ceto intellettuale a credere nella possibilità di riforme efficaci (cioè che producano e mantengano nel tempo gli effetti per cui vengono proposte anziché effetti diversi o contrari o solo momentanei). Svuotare, fino a eliminare, l’insegnamento della storia, e infondere nel pensiero corrente l’idea che la storia non conti e conti solo conoscere il presente, produce proprio quel risultato: far sì che, nonostante gli attuali, ripetuti e clamorosi insuccessi delle riforme promesse come benefiche e risolutive, la gente la gente continui a credere che sia possibile realizzare riforme complessive dell’economia e dell’ordinamento giuridico, cioè riforme secondo il modello proposto dall’alto, che producano benessere, sicurezza, stabilità. Se per contro si guarda concretamente alla storia, si vede che le grandi riforme e rivoluzioni politico-economiche, concepite ed eseguite anche da grandissimi statisti come Silla, Augusto, Diocleziano, Costantino, per citare solo alcuni grandi e lontani (e non scomodare i moderni Lenin, Peron, Chavez, Castro e gli Europeisti), sono praticamente tutte fallite, hanno mancato gli obiettivi, hanno fatto milioni di morti di fame, hanno avuto vita breve, sebbene sulla carta fossero razionali ed efficienti. E hanno prodotto effetti lontani da quelli che dovevano produrre. Inoltre la storia ci mostra che non esiste un ordine politico ed economico che sia durato a lungo: tutti gli equilibri sono dinamici e precari, tutti i grandi sistemi statali e, anche quelli che più di tutti sembrano essere stati stabili nel tempo, se studiati nel loro divenire, appaiono aver avuto continue trasformazioni, anno per anno o lustro per lustro a dispetto di tutti i tentativi di grandi statisti di fare una riforma che producesse un sistema stabile e duraturo. Sono flussi cangianti, non stati ortogonali.
Nonostante queste due chiare evidenze storiche, le genti, persino gli intellettuali (grazie all’impronta illuminista-positivista), restano propense all’utopismo, disposte a credere a qualche leader che proclami: ho la ricetta per una società (un’Europa, un mondo) migliore e stabile. A credere che, come si può ristrutturare una casa, così si possa ristrutturare e pianificare anche una società o un suo settore (soprattutto quello economico), mentre palesemente non è così, perché il corpo sociale non è un edificio inerte e immobile, ma è simile a un organismo vivente estremamente reattivo, complesso e delicato, interagente con altri. E soprattutto vivente di vita endogena, di spontaneità, non sostituibile con un modello calato dall’alto.
In parole semplici: poiché tutti (uomini, aziende, enti pubblici e privati) per vivere devono scambiare beni e servizi, e siccome per farlo necessitano di moneta, chi conquista il monopolio della produzione e dell’assegnazione della moneta con interesse, si impadronisce di tutto il valore scambiato e, attraverso l’indebitamento a interesse composto, anche di quello futuro, quindi pure del potere politico e giudiziario. Se si statalizza la produzione-assegnazione di denaro, allora questo potere finisce nelle mani di chi si impadronisce dello Stato. Gli esseri che hanno bisogno di moneta non escono da questa condizione.
A dire il vero, vi è però una struttura portante, stabile, che rimane da secoli oramai alla base delle società moderne, vincolandone le forme giuridico-politiche, e rendendole simili tra loro nel funzionamento di fondo. La società è fatta di tante persone ciascuna delle quali, esclusi i bambini e gli invalidi, da un lato produce qualcosa di utile dagli altri, e l’altro ha bisogno di cose prodotte dagli altri per vivere. Quindi scambiano. Questa produzione e questo scambio sono l’economia reale. Più beni e servizi vengono prodotti, scambiati, goduti, più la società è ricca. Poiché gli scambi non sono simultanei e non avvengono direttamente tra i soggetti, ma quasi interamente attraverso un mercato, per realizzarli i soggetti necessitano di simboli monetari accettati. In questo contesto, si sono costituiti monopoli di operatori economici (banchieri) che producono semplicemente simboli monetari e li impongono come mezzi obbligati che ciascuno soggetto deve usare per i suddetti scambi, procurandoseli dai monopolisti alle condizioni stabilite da questi, col dare parte della sua produzione a chi gli mette a disposizione questi simboli monetari. In tal modo, potendo imporre le loro condizioni senza resistenza (la società non sa fare a meno dei loro simboli), i monopolisti della produzione-distribuzione dei simboli in parola hanno acquisito il potere di prendersi (indebitando cittadini-imprese-stato, caricandoli di interessi passivi, comperando direttamente o indirettamente i beni dei debitori) quote crescenti del totale della produzione di beni e servizi reali prodotti dalla società in cambio dei simboli, e ancora di più il potere di dosare la disponibilità dei simboli, così da regolare la capacità delle persone di produrre e soddisfare i propri bisogni, cioè di indurre crescita o recessione, tanto che abbiamo una situazione in cui quei monopolisti, sottraendo o negando la disponibilità dei simboli alla gente, producono e mantengono il soffocamento della capacità produttiva col rendere impossibili molti scambi e pagamenti (investimenti, assunzioni). Lo scopo è chiaramente la concentrazione nelle loro mani del reddito e della ricchezza, l’acquisizione del dominio politico sui popoli e il mantenere alta la domanda dei loro simboli, quindi alta la propensione a piegarsi ad ogni condizione per ottenerne. Questo è l’essenza del sistema economico-politico nelle società moderne, che scambiano usando il denaro.
Per perfezionare, legalizzare e far credere come naturale e giusto tale dominio, bisogna realizzare molte riforme, spesso impopolari; e per realizzarle è necessario far credere la gente nel riformismo, anzi in un riformismo che vada in una certa direzione, indicata via via dai “liberi mercati della finanza” attraverso i loro profeti accademici e istituzionali.
23.05.19 Marco Della Luna