ATTIVISMO CIARLATANO E RIFORMISMO CRIMINALE
ATTIVISMO CIARLATANO E RIFORMISMO CRIMINALE
UNA NUOVA NORIMBERGA PER I RIFORMATORI DI MALA FEDE
La recente, nuova flessione del pil e dell’export, assieme alla continua salita del debito pubblico e della disoccupazione, non tanto annuncia il fallimento dell’attivismo ciarlatano dei tre bussolotti oggi proposto o propinato al Paese da Coloro che possono e dai mass media come ultima risposta all’emergenza, quanto piuttosto conferma il già accertato effetto controproducente, alla prova dei fatti, ottenuto dalla campagna di “riforme” da vent’anni in corso nell’area OCSE. Quelle riforme che tanto ci chiedono l’Europa, il FMI, il Colle. Quelle riforme che oggi proclamiamo di voler portare avanti a testa bassa e tambur battente.
Le riforme per rendere la società market-friendly, marktkonform, ossia amica del mercato (finanziario), sono state socialmente costose, e insieme controproducenti rispetto al fine di rilanciare l’economia e l’occupazione, come pure di dare solidità alle banche – anzi, la crisi bancaria del 2008 è diretta conseguenza delle riforme-liberalizzazioni degli anni precedenti, soprattutto dal 1999 in poi; ciononostante, si insiste nel continuarle, evidentemente perché il loro scopo non è il rilancio economico e occupazionale, ma la concentrazione dei redditi e del potere.
Non sarebbe quindi ora di sollecitare l’incolpazione per crimini contro l’umanità dei loro fautori, promotori, esecutori, di fronte al sangue di chi è morto e di chi morirà per i loro effetti, e alle lacrime di chi è e sarà disoccupato a causa di esse? Non sarebbe ora che qualcuno pagasse con la propria pelle anziché con quella degli altri? Perché qui stiamo parlando di migliaia di morti, di milioni di vite rovinate.
Nel 1999 l’Ocse tracciava una sintesi delle riforme economiche attuate in numerosi paesi nel decennio che si stava chiudendo (Ocse, 1999a, pp. 26 sgg.). In breve, le linee lungo le quali si era sviluppata l’azione di politica economica in quel decennio e lungo le quali si sarebbe sviluppata negli anni seguenti sono queste:
i) Ampliamento degli strumenti finanziari e riduzione della regolamentazione dei sistemi finanziari
ii) Riduzione delle aliquote per i redditi più alti
iii) Liberalizzazione dei movimenti dei capitali e ulteriore liberalizzazione del commercio
internazionale
iv) Deregolamentazione e privatizzazione nei settori delle utilities
v) Restrizioni all’utilizzo delle politiche industriali
vi) Flessibilizzazione dei mercati del lavoro e irrigidimento dei criteri di fruizione del welfare state
vii) Riduzione dell’area dell’intervento pubblico nell’economia
viii) Riduzione degli oneri, legali ed economici, allo svolgimento dell’attività d’impresa.
Non trovate che siano proposte criminali, alla luce dei loro effetti?
Da Siena, città vittima della criminalità bankster, ma anche delle riforme bancarie che l’hanno resa possibile, Maurizio Zenezini, in Riforme economiche e crescita: una discussione critica, Quaderni del dipartimento di economia politica e statistica dell’Università di Siena, n.696 – Aprile 2014, studiando come, negli ultimi vent’anni, i paesi europei hanno introdotto numerose riforme economiche orientate a rendere le istituzioni economiche più “favorevoli ai mercati”, nella convinzione che l’ambiente regolativo costituisca un fondamentale fattore di crescita economica. In base ai dati empirici, ossia sottoponendo queste riforme alla prova dei fatti, gli effetti sulla crescita e l’occupazione dei più recenti interventi di riforma in Italia appaiono virtualmente nulli nel breve periodo e modesti, nel migliore dei casi, nel lungo periodo. O meglio, risultano nettamente negativi: le riforme flessibilizzanti del mercato del lavoro hanno peggiorato l’occupazione, le riforme bancarie hanno destabilizzato il sistema bancario, etc.
Di fronte agli insuccessi delle riforme che ha imposto, l’OCSE le difende con gli argomenti più arbitrari, chiaramente in mala fede – quindi confermanti la possibile imputazione per crimini contro l’umanità – come il dire che, se non le si fosse fatte, ora le cose andrebbero molto peggio. Conclude Zenezini:
“Se le riforme non mantengono le loro promesse, potremo dichiarare che l’efficacia di una riforma
già effettuata dipende da qualche altra riforma ancora da effettuare che, a sua volta, richiederà quasi
certamente riforme in nuove direzioni: le riforme del mercato del lavoro non funzionano se i mercati dei prodotti restano rigidi, le riforme delle utilities non rfunzionano se il commercio al dettaglio resta impantanato nelle regolamentazioni comunali, se le lavanderie restano chiuse il sabato pomeriggio, se i giudici non compilano il “calendario udienze” (Ocse, 2013a, p. 86).
In alternativa, si potrà affermare che le riforme agiscono nei tempi lunghi, mentre gli effetti di breve termine sono difficili da modellare, e potrebbero anche essere negativi: “le riforme […] dovrebbero aumentare il prodotto potenziale di lungo periodo, ma la grandezza di questo effetto, specialmente nel breve periodo, è difficile da stimare con qualsiasi grado di precisione” (Ocse, 2013a, p. 84).
Potremmo, infine, puntare il dito contro gli indici “formali” di deregolamentazione. Gli organismi economici internazionali hanno misurato le numerose riforme fatta in Italia, su questa base esperti e responsabili della politica economica hanno regolarmente tracciato bilanci di tale attivismo riformatore, ma, dato che il paese si è infilato in una traiettoria di declino economico, “si può sospettare che i principi legali della regolamentazione delle attività economiche divergano dalla pratica, o dalla loro percezione, in Italia più che in altri paesi” (Ocse, 2013a, pp. 82 sgg.): se le riforme non funzionano, dovremo rivedere gli indici delle regolamentazioni.
Sarebbe impossibile fornire un’immagine più sconcertante della irresponsabilità che costituisce la cifra latente della politica economica degli ultimi decenni. Nessun riesame delle riforme effettuate è permesso, è impedita la discussione su politiche economiche alternative: se le riforme non funzionano, si può sempre dire che senza di esse le cose sarebbero andate peggio, se gli indici di deregolamentazione non sono correlati con la desiderata performance potremo denunciare l’insufficienza degli indici, se le riforme hanno effetti trascurabili, si chiederà comunque di rafforzarle e di aumentare la flessibilità, se una riforma mirata ad un particolare obiettivo non ha successo, si modificherà l’obiettivo o si punterà in qualche altra direzione.
E’ la stessa irresponsabilità che Keynes denunciava nel 1925 esaminando le conseguenze della politica economica del governo Churchill (Keynes, 1925): Poiché il pubblico afferra sempre meglio le cause particolari che le cause generali, la depressione verrà attribuita alle tensioni industriali che l’accompagneranno, al piano Dawes, alla Cina, alle inevitabili conseguenze della grande guerra, ai dazi, alle tasse, a qualunque cosa al mondo fuorché alla politica monetaria generale, che è stata il motore di tutto.”
16.05.14 Marco Della Luna