LA SENTENZA DI SILENO
LA SENTENZA DI SILENO
La Corte Costituzionale, supplendo alla solita inerzia del legislatore incurante dei cittadini e della morale, ha formulato, in materia di eutanasia, una decisione ponderata ed equilibrata, che da un lato esclude la punibilità di chi aiuta a liberarsi un malato di malattia fisica, tormentosa e insanabile; ma dall’altro lato pone un insieme di precise e restrittive condizioni, da verificarsi caso per caso con una procedura seria, in modo che non si possa ricorrere al suicidio assistito senza ponderazione e sorveglianza indipendente, magari in un momento di sconforto, oppure sotto pressione interessata di eredi impazienti. Una sentenza di compromesso, che tiene conto della realtà, insomma, ma pure della sensibilità etica ed emotiva.
Eppure questa sentenza, come tutti i pronunciamenti e le argomentazioni sulle condizioni a cui l’eutanasia può considerarsi legittima, risveglia un insopprimibile disagio – non solo e non tanto perché suggerisce che, sinistramente, lo Stato, stretto da vincoli finanziari, possa presto arrivare a decidere di eliminare, con la giustificazione della misericordia, coloro che risultano essere “bocche inutili” (nutzlose Fresser, useless eaters, come li chiamavano rispettivamente Hitler e Kissinger) – non solo per questa ragione, ma anche per un motivo più profondo:
Inquieta la idea stessa di mettersi a valutare se la vita, o una data vita, sia più conveniente o meno conveniente della morte. Inquieta cioè l’idea, in sé razionale, di chiedersi se, dato il mio stato di salute, mi convenga continuare a vivere oppure uccidermi o farmi uccidere. Disturba, insomma, l’idea che la vita non sia sempre desiderabile in sé stessa, come tale, ma che la sua preferibilità alla morte dipenda dalla sua qualità.
Infatti, se si apre la mente a questa idea, a questa valutazione, non si sa dove si arriverà. Anzi, vi dico io dove si arriverà; si arriverà a udire il suono della risposta del satiro immortale Sileno, che, forzato da re Mida a rivelare quale sia la cosa più desiderabile per l’uomo, sentenziò: “Stirpe miserabile ed effimera, figlia del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te sarebbe assai meglio non udire? Il meglio è per te assolutamente irrealizzabile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto”. La vita umana, tirate le somme, è sempre peggiore della morte: questo vuol dire Sileno. Sempre, e non solo quando ti tormenta una malattia incurabile, perché le sue sofferenze, nel complesso, superano sempre le gioie, nell’arco dell’esistenza. Perciò la vita umana non ha senso. Una saggezza, questa, superficiale e fasulla, ma devastante e letale per le nazioni occidentali. culturalmente e spiritualmente svuotate e traviate dall’insegnamento e dall’esempio del clero cristiano, soprattutto di quello moderno.
In molti già sapevamo che i cristiani, e in particolare i cattolici, coi loro vescovi in testa, sono in realtà atei materialisti e nichilisti; ma ora le loro scomposte reazioni alla sentenza costituzionale di ieri sul suicidio assistito hanno reso questa paradossale realtà manifesta anche agli increduli. Esponenti dell’episcopato, quindi autorevoli rappresentanti della Chiesa Romana, hanno esecrato questa sentenza come mostruosa, foriera di una cultura di morte, contraria al cristianesimo perché -attenzione: questo è l’argomento cardine- essa tratta la vita, e insegna a trattarla, come se appartenesse all’uomo, mentre essa è stata creata da Dio, dunque a Dio appartiene, e solo Dio può disporne.
Questo argomento è interessante per due aspetti.
Il primo: a tenerlo per buono, si deve riconosce che, siccome Dio ha creato la vita non solo dell’uomo, ma anche di ogni altro essere vivente, l’uomo non ha il diritto di uccidere gli animali né le piante.
Il secondo: questo argomento identifica la vita con la vita corporale, e, per il principio qui dicit de uno negat de altero (chi afferma qualcosa di una di due cose, la nega con riferimento all’altra), implicitamente lancia questo messaggio: l’unica vita che Dio ha creato è la vita corporale – l’uomo non sopravvive alla morte del suo corpo. E questo messaggio è quello che sempre ritroviamo quando questi prelati del nichilismo materialista parlano di vita e di morte, vuoi che si tratti di eutanasia, o di aborto, o di pena capitale: la morte del corpo, la fine della vita del corpo, secondo loro, è male assoluto e irrimediabile per chi viene privato di essa (per alcuni di loro, non è lecito toglierla nemmeno per legittima difesa o in una guerra difensiva). Ma può essere tale soltanto se assumiamo che la vita materiale sia l’unica vita, e che non esista una vita spirituale, un’anima immortale.
Se tu sei, come in verità sei, un’anima immateriale e immortale, creata da Dio, da lui amata e garantita di ricevere la Sua Giustizia, è impossibile che l’uccisione da parte di altri del tuo corpo materiale possa costituire un male irrimediabile, nel tuo destino di sempiternità, cioè che Dio consenta che il fatto ingiusto altrui peggiori la tua condizione nell’aldilà. Piuttosto dovremmo temere ciò che ci corrompe nella nostra spiritualità, ciò che ci può allontanare da Dio, ciò che ci può indurre in perdizione, cioè nella vera ‘morte’, quella spirituale.
Invece questi prelati cristiani coi loro seguaci, questi becchini dello spirito, sono ossessionati dalla morte corporale e quasi non parlano della morte spirituale. Forse perché parlare di morte spirituale, di corruzione dell’anima, di peccato che ci guasta la vita sempiterna, è impopolare, in una società guidata dalla cultura dei desideri e dei piaceri. Forse perché questi prelati stessi sono materialisti ed edonisti, attaccati alle cose, alla carne, al denaro, al potere, al sesso, in modo abnorme e, molto spesso, anormale; quindi hanno motivo di temere la morte corporale per due ragioni: perché essa porrà fine ai loro piaceri ed attaccamenti materialistici, e perché presenterà loro il conto di una vita dedicata ad essi. Quanta cupidigia, quanta omosessualità, quanta pedofilia! E non solo oggi: lungo tutta la storia del clero.
La coscienza tende ad acquisire le proprietà e a condividere le sorti di ciò cui si attacca col desiderio e col pensiero fisso; per modo che, se si attacca ai beni e ai piaceri materiali, tenderà a condividere la loro sorte caduca; mentre, se, contemplando vita e mondo sub specie aeternitatis, si attacca al divino e al divino offre ogni suo azione, allora divino sarà il suo traguardo.
Perciò ai membri del predetto clero non conviene proprio pensare alla vita spirituale, dato che si sono chiusi ad essa per darsi ad altro, e perché in essa si aspettano di raccogliere la grama messe di ciò che vanno seminando nell’unica vita di cui si curano. Conviene loro piuttosto pensare al nulla, come destino post mortem, ovvero reprimere l’idea stessa della sopravvivenza al corpo: per gli impenitenti consapevoli di esser tali, il nichilismo è dopotutto l’unica salvezza dal pensiero di un castigo senza fine, quindi lo abbracciano e, più che possono, lo diffondono nelle loro greggi, affinché sia da tutti condiviso. Perdonatemi se ho predicato molto in una sola volta, ma la mia pastoralità doveva levare la sua voce contro le sirene di Sileno.
27.09.19 Marco Della Luna