OSSERVAZIONI CRITICHE SULL’ORIGINE E IL FONDAMENTO DELL’ORDINAMENTO POLITICO-GIURIDICO IN KANT (Relazione tenuta il 19.10.24 al Convegno Internazionale su I. Kant nel tricentenario della nascita presso l’Accademia Nazionale Virgiliana di Mantova)
INTRODUZIONE
L’approccio, o frame, di tipo kantiano al problema dello Stato, ossia del potere politico e del diritto, col suo postulato liberale del contratto sociale e la sua ingenua fiducia nell’efficacia della legislazione e in generale nel diritto positivo, è ancora oggi molto diffuso, una forma mentis radicata.
Scopo di questa relazione è dimostrare che tale frame, come metodo prima ancora che come contenuti, e come impostazione del problema prima ancora che come metodo, non soltanto è fallace, ma è anche fuorviante, in quanto ci allontana dalla stessa percezione della realtà, dai suoi conflitti e delle sue dinamiche storiche effettive, rinchiudendoci in un gioco o bozzolo intellettuale autoconsolatorio.
La dottrina politica e giuridica di Kant, nei nostri tempi, ha questa principale utilità: aiutarci a vedere e capire le fallacie, le illusioni, i meccanismi psicologici protettivi, in cui, di fronte ai temi sociopolitici e ai loro drammatici, conflittuali sviluppi, tendiamo a cadere per sottrarci alla frustrazione, all’insicurezza e ai conflitti cognitivi che la realtà empirica oggi sempre più fortemente suscita.
La dottrina del diritto[i]
Kant ha esposto la sua filosofia del diritto nella Metafisica dei costumi e nella seconda sezione del trattato Sopra il detto comune: (1793) e altresì nel progetto filosofico Per la pace perpetua (1795; 2a ed. 1796). Egli da un lato rifiuta la metafisica del diritto razionalista basata su pretese intuizioni evidenti circa la natura delle cose o circa contenuti della natura umana; e, al contempo, rifiuta la concezione empirista del diritto e dello Stato. Le spiegazioni empiriche, e in particolare sociologiche e psicologiche, dell’origine del diritto e dello Stato, non possono essere sufficienti; è necessario penetrare nei fondamenti etici della obbligatorietà delle leggi positive e dell’ordinamento giuridico in generale – principi rigorosamente universali. A differenza degli aderenti alla metafisica razionalista del diritto, egli fonda i principi della filosofia del diritto come postulati indispensabili per rendere razionale la dottrina del diritto, dello Stato, e del dovere di sottostare ad essi, come presto vedremo.
I principi della dottrina del diritto sono altrettanto formali dei principi dell’etica. Il diritto si riferisce alla “forma nel rapporto dell’arbitrio (scelta) reciproco” di persone interagenti (MSR Introd. § B; VI, 230), cioè deve essere giudicato indipendentemente da scopi determinati, basati sui bisogni. Tuttavia, la filosofia del diritto non ha un carattere puramente aprioristico, perché parte dal dato di fatto che diverse persone, influenzate da bisogni naturali e da condizioni sociali, si coalizzano e si relazionano tra loro entro determinati limiti spaziali. La filosofia del diritto non è quindi del tutto indipendente dall’esperienza, non più di quanto lo sia la metafisica della natura, che ha anch’essa un presupposto empirico nell’assunzione dell’esistenza delle cose materiali.
Kant ha applicato alla dottrina del diritto lo stesso medesimo approccio che aveva adottato per l’etica. Qui, come là, ha dapprima determinato uno stato di cose che necessita di spiegazione – nell’etica il dovere morale, nella giurisprudenza il dovere giuridico – e poi ha cercato di renderlo comprensibile riconducendolo alle condizioni, o postulati, della sua possibilità.
Il concetto di diritto
Premetto che la norma giuridica si differenzia dalla norma naturalistica perché la seconda è descrittiva, mentre la norma giuridica, tanto che venga dal legislatore che da un contratto che da una sentenza, è prescrittiva, ossia ordina che si tengano o si omettano determinati comportamenti, prescrivendo una sanzione, cioè una conseguenza sfavorevole (non necessariamente una punizione, potendo consistere nella invalidità o nullità di un atto formulato irritualmente, o nella decadenza da un diritto esercitato oltre il termine di legge) per il caso di inottemperanza. La natura invece non è mai prescrittiva, non ha sanzioni, dunque non esiste un diritto naturale. Ma basta forse che vi sia un comando associato alla minaccia di una sanzione, per differenziare la qualità giuridica da quella fattuale? Che cosa differenzia il diritto dall’imposizione di fatto?
Il ragionamento kantiano circa l’origine del diritto presuppone che esista il diritto, che esista qualcosa di obiettivamente e qualitativamente diverso dalla forza materiale, dal canettiano ruggito del leone[ii], cioè dalla minaccia del potente. Una tale distinzione oggettiva tra potentia e potestas non esiste. Anche se le esigenze della vita pratica portano ad agire e ragionare come se essa esistesse, a postularla, in realtà non vi è distinzione oggettiva tra fatto e diritto, tra un ambito della realtà giuridico e uno fattuale, tra la norma e la minaccia fisica. Ad originare il diritto, cioè a creare la differenza rispetto al fatto, non può essere, sul piano oggettivo, un atto giuridico, ovviamente, né un atto non giuridico, a meno che questo fosse un comandamento divino. Il diritto si differenzia dal fatto solo sul piano soggettivo, cioè quando e per il fatto stesso che un governante o un suo precetto viene sentito come legittimo. Il diritto nasce dal rispetto del fatto, diceva giustamente un giurista tedesco dell’800, Otto Lenel. Il diritto, le leggi, come ordinamento, possono essere imposti solo da chi ha la forza di imporli, e quegli le impone nel suo proprio interesse, come razionalizzazione e consolidamento della sua posizione di forza e vantaggio, non certo degli interessi collettivi, ossia diffusi, che sono sempre soccombenti, tranne che sulla carta, dove invece sono sempre esaltati e garantiti.
Secondo Kant, il diritto ha la funzione di garantire le pretese di libertà di persone coesistenti. A tal fine, le sfere di azione libera (“arbitraria”) devono essere reciprocamente limitate in modo tale che nessuno espanda la propria sfera di influenza a scapito della libertà degli altri. La restrizione del libero arbitrio è ammissibile a condizione che tutti siano interessati allo stesso modo.
Che dire, entro tale premessa, della nostra attuale situazione, in cui la ratio liberale del mercato e del profitto, legittimata dal darwinismo socioeconomico imperante, cioè dalle supposte leggi di mercato, e accettata dallo Stato, porta, ad esempio, ad espellere definitivamente dal mercato del lavoro decine di milioni di persone per effetto dell’IA e dell’automazione, nell’interesse dell’efficienza imposta dai mercati? Quid juris? Quid moris? E gli espulsi a questo modo sono ancora tenuti a qualche obbedienza verso lo Stato che attua ciò?
Secondo Kant, l’unico mezzo moralmente giustificato per limitare l’arbitrio è la legge, identica per tutti e conciliante le reciproche libertà (MSR Introd.. § B; VI, 230). La limitazione reciproca della libertà esterna da parte delle leggi, tuttavia, non è solo ammissibile, ma anche moralmente necessaria: gli esseri umani sono tenuti ad abbandonare lo stato privo di legge e ad entrare nello stato legale o civile. Il dovere di sottomettersi a un ordine giuridico corrisponde al diritto di ogni essere umano a non subire la coercizione extra-legale da parte di altri.
Obiezione ovvia: non appare, nella storia personale né in quella della specie, uno stato originario senza legge. Ognuno nasce in un ordinamento giuridico precostituito. Gli antropologi hanno ampiamente descritto come le tribù “selvagge” sono rette da ordinamenti normativi molto dettagliati e cogenti. Anzi, noi positivamente sappiamo che l’ordinamento giuridico non ha origine pattizia, ma piuttosto in parte consuetudinaria, in parte imposta. Ce lo mostra pure la storia del diritto romano, del diritto greco, nonché l’antropologia culturale. E l’etologia ci mostra che esistono complessi ordinamenti di regole anche in molte specie animali, persino inferiori, come le api e le formiche. Dato dunque che l’uomo non è mai stato in una condizione pre-giuridica, che utilità ha parlare di un dovere di passare da una tale condizione a una di sottomissione all’ordinamento giuridico? Perché non prendere atto che l’ipotesi di una stato di natura senza leggi risulta fallace, e pertanto abbandonarla, come si farebbe in qualsiasi ambito scientifico? Lo dirò presto.
Continua Kant affermando che il diritto di avvalersi della possibilità di agire liberamente, nella misura in cui il corrispondente diritto altrui non venga tolto (MSR Introd., Appendice; VI, 237), è l’”unico diritto originario che spetti a ogni essere umano in virtù della sua umanità” (VI, 237). In questo senso, e non nel senso dell’innatismo razionalista o naturalista, esso è “innato” (angeboren).
Affermazione sensata ma indeterminata, proprio come i famosi tria juris praecepta: honeste vivere, neminem laedere, suum cuique tribuere: che cosa è onesto, e dove sta il confine tra la mia sfera e la tua, che non devo violare? Come si determina che cosa è suum e che cosa no? Sono definizioni che rinviano ad altre definizioni, presupposte ma non date. Esse hanno un senso solo se si esplicita il loro fondo soggettivo: vivere come comunemente si sente che sia onesto vivere, non commettere atti che ledano ciò che comunemente si sente che deve essere rispettato, dare a ciascuno ciò che comunemente si sente spettargli. Il momento empirico-soggettivo è perciò determinante e imprescindibile.
I principi della dottrina del diritto kantiana, dal punto di vista contenutistico, superficialmente sembrano basarsi sullo stesso concetto di libertà dei principi etici. In realtà, però, come ha fatto notare il prof. Jori in un suo intervento, il concetto di libertà che sta alla base della kantiana dottrina del diritto è diverso da quello dell’etica. Il concetto di libertà mediante il quale viene definito il concetto di diritto non è la libertà intelligibile che è al centro dell’etica, quale dimensione noumenica-metafisica sottratta al principio di causazione, cioè la capacità di iniziare spontaneamente, non necessitatamente, una serie di cause; bensì è la libertà esterna, che consiste nella capacità di agire a proprio arbitrio (= volontariamente).
La legge dello Stato deve essere una legge coercitiva, perché solo la minaccia della coercizione da parte dello Stato assicura la legalità dell’agire. La molla dell’azione conforme alla legge morale è immanente alla morale, mentre i principi del diritto non contengono la molla dell’azione conforme alla legge.
La visione positiva, secondo la quale le azioni, per essere legittime, basta che siano conformi alla legge in vigore o alla costituzione, e non anche a principi di giustizia super-positivi, è insufficiente dal punto di vista di Kant: le singole leggi sono bensì vincolanti in base alla minaccia della sanzione, ma l’obbedienza in generale alla legge, come principio, è richiesta dall’etica.
La dottrina dello Stato e del contratto sociale
Secondo Kant, la società naturale è quella tra uomo e donna finalizzata alla procreazione e all’allevamento della prole.
In realtà, la società naturale, naturalmente necessitata, è quella tra madre e prole, senza la quale non vi sarebbe sopravvivenza della specie. L’unione maschio-femmina, ai fini riproduttivi, può essere, e spesso è, nella storia della specie umana, momentanea. In natura troviamo anche la società delle madri, con i maschi che stanno esterni e nessun definito rapporto di paternità.
Kant ha costruito il concetto di Stato civile con l’aiuto dell’idea di un contratto originante, atto a costituire lo Stato, seguendo le opinioni di Hobbes, Locke e altri. Nel far questo, egli vedeva il contratto costitutivo dello Stato soprattutto come un mezzo per garantire il diritto alla libertà e i diritti di proprietà. Nel contratto sociale si rinuncia alla “libertà selvaggia e senza legge” dello stato di natura e si acquisisce la libertà giuridica dello Stato civile (MSR §47; VI, 315 sq.).
Tale libertà dello stato di natura è un postulato ideale contrario alla realtà, come abbiamo già visto. Questa idea di una origine pattizia dell’ordinamento sociale nasce non da una necessità logica né da un’osservazione empirica, ma dall’ideologia liberale individualista, dai suoi presupposti impliciti, dal suo bisogno di darsi una legittimazione immanente. Il carattere opzionale, seppure doveroso, della costituzione dell’ordinamento sociale, di esseri umani isolati, ontogeneticamente non legati tra loro, ciascuno dei quali opta se entrare o non entrare in una società civile, si continua oggi nell’ideologia dell’opzionabilità del sesso, della razza e di ogni altro elemento identitario: “io mi identifico come… – come mi pare e piace”: relativismo e soggettivismo.
Il contratto sociale, in termini tecnico-giuridici, sarebbe un contratto multilaterale, associativo, con ammissione di chi via via sopravviene come membro della società, vuoi perché in essa nasce, vuoi perché in essa immigra.
Però un vero contratto costitutivo dell’ordinamento giuridico, cioè un contratto destinato a costituire quell’autorità sovrana, la quale produrrà tutta la massa sterminata dell’ulteriore diritto non contrattuale (leggi, atti di imperio, decisioni giudiziarie) – un vero contratto costitutivo, come tutti i contratti, per essere qualificabile come “contratto”, oltre alla libera volontà dei contraenti, esige un insieme di altri elementi necessari. Esige un corrispettivo, un sinallagma, cioè una reciprocità di prestazioni, definito o definibile; esige un dovere di adempimento reciproco; esige che siano predisposte e praticabili sanzioni in caso di inadempimento di sue norme (anche contro lo Stato), sanzioni quali il diritto di recesso e di risoluzione. Esige un giudice terzo che le imponga. Dovrebbe comprendere la regola inadimplenti non est adimplendum. Ma Kant non mi risulta che parli di tutto ciò, anzi egli nega il diritto di resistenza agli atti illegittimi dell’autorità. Il suo concetto di contratto sociale non corrisponde allo schema del contratto, bensì è un consegnarsi di tutti e ciascuno alla volontà della Stato, quale massa dei contraenti, alle sue decisioni future, quali che siano, o alle decisioni dell’istituzione statuale che nascerà da quel patto sociale. E’ un azzardo, un accordo aleatorio. Se si nega il diritto al recesso o alla risoluzione del singolo rispetto al contratto sociale, allora questo Stato è un Leviatano, sciolto da ogni dovere, perlomeno all’atto pratico, e il c.d. contratto è l’atto di sottomissione ad esso. Manca persino la legittimità, implicita nella concezione hobbesiana, dell’abbattere il Leviatano. Il diritto di sciogliersi da uno Stato inadempiente al contratto sociale e ai doveri fondamentali, sarebbe il presupposto per potere iniziare a lavorare alla costituzione di un nuovo Stato, che sia adempiente alle funzioni per le quali viene costituito.
Kant non si curava di ricostruire il processo storico della nascita dello Stato, bensì di costruire un concetto di Stato che quadrasse logicamente. A tal fine, egli considerava lo Stato come se fosse nato da un contratto di ciascuno con ciascun altro. Solo un ordinamento giuridico che possa essere concepito come il risultato di un tale contratto è, secondo lui, conforme alla ragione; pertanto, la ragione impone di passare dalla condizione anteriore al diritto a quella della costituzione civile. Questo è un postulato fondamentale del diritto pubblico, che deriva dal concetto di diritto (MSR § 42; VI, 307).
Qui ravviso una contraddizione nel metodo: prima dice di non volere ricostruire l’origine dello Stato nel tempo, ma fare come se…; poi però presuppone una condizione prisca e originaria nel tempo, e un passaggio storico da essa all’ordinamento giuridico, per dar conto della situazione presente. In questi ragionamenti, apparentemente incoerenti e anche giuridicamente fallaci, io ravviso la prepotente esigenza psicologica di evitare una dissonanza cognitiva (nel senso di Leon Festinger, di conflitto tra due convincimenti o sentimenti tra loro incompatibili, come ad es. attaccamento alla Chiesa cattolica e disgusto per il comportamento del Papa in carica): è possibile che il potere politico compia atti ingiusti, e gli uomini possono bensì trovare ingiusto l’intero sistema giuridico statuale in cui vivono, ma non pensino per questo di avere il diritto di ripudiarlo, o di poter dissociarsi da esso, di rendersi indipendenti o liberi, perché fare parte di esso, accettarlo, è un dovere assoluto per tutti loro, onde ognuno deve simulare che esso sia invece sempre nel giusto, perché espressione della volontà di tutti. Insomma, Kant fa una teodicea dello Stato, del potere politico, ossia una poleodicea, o kratodicea, da “tò kratos”, “lo stato” in Greco moderno.
Ognuno è autorizzato, secondo Kant, a costringere altri a entrare nello Stato, perché il diritto di proprietà spetta a ciascuno per natura e perché il dovere di rispettare i diritti di proprietà diventa pienamente effettivo solo nel quadro dell’ordinamento giuridico dello Stato. Al medesimo modo del diritto di proprietà, anche gli altri elementi del diritto privato discussi nella prima parte della “Dottrina del diritto” diventano effettivi solo nello Stato – l’«unione di una moltitudine di persone sotto leggi del diritto”» (MSR §45; VI, 313).
Qui troviamo una indimostrata affermazione che il diritto di proprietà sia innato, come se esso risultasse da un’evidenza naturale o da una disposizione divina. Si potrebbe dire, all’opposto, che, data la natura acquisitiva o predatoria dell’uomo, ciascuno ha il diritto naturale di lottare per prendersi i beni degli altri, in modo che la selezione del più forte avvantaggi la specie. E si potrebbe precisare che lo Stato ha la funzione di disciplinare tale lotta, affinché non diventi distruttiva per l’ordine pubblico. Ciò è del resto quel che succede nel mondo reale, quel che lo Stato fa, soprattutto da quando ha sposato la teoria della competizione secondo il darwinismo economico di mercato.
La dimostrazione, o la fondazione razionale, del diritto di proprietà in Kant, per toglierlo dallo status di postulato gratuito, è oggetto di sofisticate interpretazioni. Tommaso Gazzolo, sostiene[iii], in sintesi: l’appropriabilità degli oggetti, ossia la loro caratteristica che li rende idonei, come res nullius e insieme come bona (cose utili a noi), a subire l’appropriazione a titolo originario, non è una caratteristica oggettiva da dimostrare empiricamente o razionalmente, bensì un postulato giuridico della ragion pratica, una condizione di esistibilità della norma ricognitiva del diritto dominicale. Esso fa sì che il diritto non sia fondato sul mero fatto – una fondazione contraddittoria e impossibile. E’ un postulato, e la prova di esso non è una prova nel senso comune, bensì in senso circolare: se è certo che qualcosa debba accadere, e tuttavia essa può accadere solo a determinate condizioni, allora tali condizioni devono essere postulate (per thesin): “poiché ci sono leggi pratiche che sono assolutamente necessarie (quelle morali), se queste presuppongono necessariamente l’esistenza di qualcosa come condizione della possibilità della loro forza obbligatoria, questa esistenza deve esser postulata”. Un postulato non può essere dimostrato, perché il procedimento che esso richiede è proprio quello mediante il quale noi produciamo il concetto di ciò che esso rende possibile. Ma il fatto che non possa essere dimostrato, non significa che non possa essere altrimenti provato. Piuttosto, la “prova” è qui tutta particolare, perché implica una logica circolare: i postulati, cioè, rendono possibile ciò a partire da cui devono essere provati. È questo, del resto, il movimento proprio di ogni logica trascendentale. La verità di una proposizione sintetica a priori non è riducibile alla semplice “corrispondenza” di quel che essa afferma a partire dall’esperienza. E ciò perché tali proposizioni rendono esse stesse possibile l’esperienza che le comprova, che le “dimostra”.
Come già ho detto, sappiamo per un verso che la sfera del diritto si differenzia da quella del fatto solo soggettivamente; per l’altro verso sappiamo positivamente che il consorzio sociale non è stato fondato attraverso un contratto originario. Sappiamo che il supposto stato di natura privo di norme non è mai esistito. Sappiamo che le comunità di molte specie animali sono disciplinate da regole anche complesse, funzionali all’interesse della specie o del branco. Noi nasciamo e cresciamo entro una cultura preesistente e preformata, con le sue regole, i suoi costumi, i suoi gusti, la sua lingua, e ci radichiamo anche giuridicamente in essa ancor prima di avere sviluppato consapevolezza, volizione e ragione. Nessuno fa patti di adesione allo Sato.
A dire il vero, un contratto sociale esiste, volontario, negoziato, opzionabile, consapevole, è realtà, ma è un’altra cosa da quello immaginato dai nostri filosofi: è il patto tra i membri della classe dominante, che ha acquisito il potere su un territorio e la sua popolazione, per sfruttare quel territorio e quella popolazione. Il popolo è dunque non il soggetto, ma l’oggetto del contratto sociale – sebbene, per renderlo più gestibile, esso venga solitamente illuso di esserne soggetto e il protagonista. Nel mondo reale, l’ordinamento sociopolitico è analogo a quello aziendale, non a quello familiare, e ha come scopo il razionale sfruttamento delle risorse, compresa tra esse la risorsa umana, cioè la popolazione. Ovvero, lo Stato è uno strumento per servirsi del popolo, non del popolo per servire se stesso.
Secondo Kant, il presupposto di un contratto che costituisce lo Stato è necessario anche perché esso solo consente di pensare il potere statuale in modo tale che non ne possa derivare alcuna ingiustizia.
Tale conclusione conferma la mia interpretazione della incoerente teoria kantiana del diritto come finalizzata a prevenire o rimuovere una dissonanza cognitiva circa le ingiustizie, cioè la percepita illegittimità, del potere statuale. Kant elaborò la sua teoria del diritto per far salvo dalla critica politica, giuridica e morale lo Stato dei suoi tempi, e credo che abbia elaborato la sua teoria della conoscenza (intuizioni, categorie, schemi) per far salva la validità della scienza dei suoi tempi. Ma questo è un tema ultroneo.
La predetta condizione, riprende la teoria kantiana, è soddisfatta solo in una repubblica in cui il sovrano non si contrappone al popolo dello Stato, ma è identico ad esso, così che i cittadini dello Stato dispongono di se stessi e quindi non è possibile che si faccia loro torto da parte del sovrano (volenti non fit iniuria). Kant trovava la visione hobbesiana «spaventosa» (erschrecklich) (Sopra il detto comune, II; VIII, 304). Secondo Kant, “solo la volontà concorde e unificata di tutti, nella misura in cui ciascuno decide la stessa cosa riguardo a tutti e tutti decidono la stessa cosa riguardo a ciascuno, di conseguenza solo la volontà del popolo universalmente unificata, può essere legislatrice» (MSR §46; VI, 313 s.).
Ma come tradurre in realtà pratica tale principio? Bisogna postulare e dare per scontato che lo Stato legislatore, una volta costituito attraverso il patto sociale fondativo, checché deliberi, agisca sempre come volontà universalmente unificata del popolo? Con questo punto di vista, Kant solo apparentemente si contrappone a Hobbes, secondo il quale il sovrano non è obbligato contrattualmente verso il popolo, ma, col postulato dell’identità popolo-sovrano, Kant preclude la stessa presa di coscienza del conflitto di classe; e con l’esclusione del diritto di resistenza e l’assenza di qualsiasi rimedio alle possibili trasgressioni da parte dello Stato; pertanto, in realtà, non si contrappone al Leviatano, bensì lo estremizza.
Kant fu convinto sostenitore del repubblicanesimo, anche dopo il periodo del Terrore del 1793-94.
Purtroppo però la possibilità di una res publica è oggi venuta meno con la sua espropriazione per debiti: Colin Crouch, un sociologo britannico, nel suo saggio Postdemocrazia, 2005, ha fatto notare che, stanti i livelli di sovra-indebitamento e la rigida dipendenza dello Stato e delle sue istituzioni dal finanziamento privato, dei mercati, per la loro vita, noi abbiamo oramai uno Stato con le sue pubbliche istituzioni ancora formalmente intatti, ma funzionalmente rispondenti e obbedienti ai moneygivers privati, non al popolo. Oggi tutti i poteri sono a direzione privata. Pochi gruppi privati, familiari, hanno in mano l’economia e l’informazione di quello che essi stessi, attraverso i mass media da loro controllati, definiscono “mondo libero e democratico.” Uno stato fortemente indebitato in una moneta che non controlla, e che per andare avanti dipende dai finanziamenti di un sistema bancario mondiale a guida privata, non ha autonomia rispetto a questo sistema, dunque non può tutelare la libertà, la dignità, il lavoro dei suoi cittadini se quel sistema gli pone come condizione – conditionality – di sacrificarli. Se gli chiede di ridurre l’occupazione, tagliare i servizi, imporre un controllo sociale di tipo orwelliano, lo Stato obbedisce. Lo Stato infatti può funzionare senza tutelare lavoro, libertà e dignità, ma non può funzionare senza finanziamenti. Inoltre, il fatto che il potere politico, nel modo suddetto, si è trasferito dagli Stati ad organismi finanziari privati, fa sì che gli Stati non siano più i veri soggetti, gli agenti, della politica internazionale.
Kant sostenne il sistema rappresentativo e rifiutò la democrazia diretta (MSR § 52; VI, 341) perché vedeva nel “democratismo” (Demokratismus) una forma di dispotismo (Per la pace perpetua; VIII, 352).
In effetti la storia ha dimostrato che la democrazia diretta non funziona, se non in ambiti limitati e su questioni semplici, perché il popolo è miope, incompetente e irrazionale. Però non funziona nemmeno se è di tipo elitario come quella ateniese: si pensi al fatale voto dell’Ecclesia sulla proposta di Alcibiade di una spedizione di 20.000 uomini contro Siracusa. Ma egualmente irrazionale e smentita dai fatti è la credenza nella democrazia rappresentativa o delegata, perché gli eletti, una volta eletti, fanno gli interessi loro, quelli di chi li può fare rieleggere, e quelli di chi gli ha pagato la campagna elettorale. Gli eletti vengono prima scelti e messi in condizione di essere eletti dall’alto, oppure vengono cooptati, e in ogni caso sviluppano interessi propri e comuni della loro categoria, contrapposti a quelli della base. Non esiste un possibile assetto democratico reale. Esiste una partecipazione, un’influenza dalla base sociale verso l’alto, ma non una rappresentanza.
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I poteri supremi – legislativo, giudiziario ed esecutivo del sovrano (MSR § 45; VI, 313) – devono, secondo il Nostro, essere rigorosamente separati (MSR §§ 48-49; VI, 316 sq.). All’atto pratico, tale divisione può essere realizzata solo in parte nelle costituzioni: i tre poteri sono distribuiti tra governo, parlamento e apparato giudiziario. Il governo ha poteri legislativi quale è il decreto legge, ad esempio, e il parlamento ha poteri giudiziari, quale è la commissione di inchiesta o il sistema di messa in stato di accusa.
Un diritto di resistenza, crede Kant, non spetta ai cittadini dello Stato nemmeno se colui che regge lo Stato – in quanto organo del “sovrano” o del “capo dello Stato” (cioè, secondo VI, 315, del popolo unito) – viola le leggi (MSR, IIa parte, nota generale; VI, 319). Se un cittadino ritiene di aver subito un torto dal sovrano, ha il diritto di esprimere la propria opinione sulla presunta ingiustizia per convincere il suo autore a desistere.
Questa irrealistica tesi è un’ulteriore conferma della mia interpretazione psicologica della teoria kantiana del diritto come ideata per prevenire o ricomporre una dissonanza cognitiva circa il potere politico. Irrealistica è infatti la presupposizione della buona fede dei governanti che, se fanno qualcosa di ingiusto, non lo fanno accidentalmente, ma per il loro proprio interesse a spese dei cittadini, quindi sono beneficiari e non saranno certo disposti a rinunciare al loro sopruso.
Diritto di cittadinanza internazionale e mondiale
Nella seconda sezione dei Primi principi metafisici della dottrina del diritto e, in modo più dettagliato, nel progetto filosofico Per la pace perpetua (1795, 17962), Kant discute il rapporto tra gli Stati come “persone morali”, e in questo si occupa principalmente dei fondamenti filosofici del diritto delle nazioni – Kant preferisce il termine “diritto degli stati”. Il rapporto tra gli Stati è determinato per analogia con il rapporto tra gli individui.
Oggi però lo Stato “sovrano” non è più l’attore e non è più sovrano. Gli Stati sono altamente interdipendenti e condizionati dalla finanza; fungono ampiamente piattaforme militari, finanziarie, annonarie. Oggi non è più chiaro chi siano gli attori sovrani. Grandi società di capitali come Vanguard, BlackRock e State Street, peraltro riconducibili a proprietà di grandi famiglie bancarie, sono i centri di potere politico effettivo più chiaramente riconoscibili.
Anche il rapporto tra gli Stati, secondo Kant, deve essere pensato come una sorta di stato di natura, quindi come uno stato di guerra almeno potenziale, in cui si applica il “diritto” del più forte.
Si sostiene, altrettanto bene, anche l’inverso: l’ordinamento internazionale, o l’interazione internazionale, è la matrice dei singoli Stati. Così avviene con il riconoscimento dei novelli Stati da parte di quelli già esistenti e stabilizzati. Di nuovo: che senso ha il dire “deve essere pensato” in un modo, che è smentito dai dati di fatto? Far quadrare i postulati?
Gli Stati pure devono abbandonare la condizione priva di leggi a favore di un ordine giuridico internazionale. L’ordine pacifico tra le nazioni, come l’ordine giuridico statuale, può essere considerato come se fosse basato su un trattato. Anche ogni Stato, per la sua sicurezza, può esigere che tutti gli altri Stati “stipulino con esso una costituzione simile a quella civile, in cui a ciascuno possa essere garantito il suo diritto” (Per la pace; VIII, 354). Quindi, secondo Kant, così come l’ordine giuridico statuale, parimenti è richiesto l’ordine pacifico internazionale, basato su un trattato (o su trattati) (Per la pace; VIII, 356).
La pace
Il modo migliore per stabilire un ordine pacifico internazionale sembra essere l’istituzione di uno Stato di nazioni sulla base di leggi pubbliche coercitive (Per la pace; VIII, 385). Questa soluzione è contraddittoria perché i singoli Stati perderebbero lo status di soggetti di diritto internazionale, cosa che Kant non considerava auspicabile (Per la pace; VIII, 367). Egli temeva che in uno Stato di nazioni potessero prevalere condizioni dispotiche e raccomandava quindi di accontentarsi di una Lega delle nazioni, purché fosse in grado di garantire la pace. La Lega delle nazioni sarebbe una struttura federale (MSR § 54; VI, 344) e quindi non potrebbe essere governata in modo centralistico. Un tale assetto ha un aut aut: un potere centrale coercitivo o c’è, e allora è il sovrano, oppure non c’è. Qui finisce l’analogia individui-Stati.
Kant descrisse i passi che avrebbero dovuto portare alla realizzazione di una Lega delle nazioni garante della pace in una serie di Articoli. Gli Articoli preliminari hanno lo scopo di impedire che i trattati di pace vengano conclusi con l’ulteriore scopo di una nuova guerra, che uno Stato annetta altri Stati, che mantenga eserciti permanenti, che gli Stati contraggano debiti per finanziare azioni di politica estera, che vengano intrapresi interventi politici con l’intento di influenzare gli affari della costituzione e del governo di altri Stati, e che vengano intraprese guerre che rendano impossibile una pace basata sulla fiducia reciproca (Pace; VIII, 343 ss.).
I trattati, però, nel corso della storia, sono stati denunciati, cioè disdetti, ogniqualvolta c’era interesse a farlo. Le esigenze obiettive e impersonali di economia e finanza escludono la possibilità di una tale rinuncia, o la ammettono solo come enunciazione di facciata. E oggi gli attori effettivi della dimensione internazionale, come già detto, non sono Stati, ma gruppi privati, che non fanno trattati visibili, e che in generale operano dietro porte chiuse, nella segretezza.
Dieci anni prima – nel saggio Idee per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784) – aveva presentato lo Stato cosmopolitico come la realizzazione di un piano di natura, dopo molti travagli. (VIII, 28).
“Che lo si voglia o no, avremo un governo mondiale, o col consenso, o con la forza”, promise il banchiere Paul Warburg, nel 1950. Oggi percepiamo il pericolo del governo mondiale orwelliano in via di costituzione attraverso il pensiero unico, il modello socioeconomico unico, il passaporto vaccinale unico. Esso avrebbe il monopolio del potere e nella narrazione. Sarebbe la fine della giusdiversità, quella che ha consentito a tanti intellettuali e artisti e attivisti, nel corso dei secoli, di portare avanti la loro opera trovando paesi più liberi che glielo consentissero. Il mondo sarebbe un’azienda unica in cui i popoli sarebbero non solo schiavi intercambiabili, ma superflui, anzi, già lo sono.
Solo l’obiettivo – una pace universale e duratura – può essere determinato a priori; i mezzi adatti a raggiungerlo, invece, non possono essere trovati se non sulla base dell’esperienza.
Segnalo che esiste una branca della logica matematica, la Game Theory o Teoria dei giochi, la quale offre la possibilità di individuare per via logica alcune strategie per evitare, smorzare e risolvere i conflitti tra attori razionali, e facilitare equilibri di cooperazione e pace condivisibili da ambo le parti. Anche se i loro risultati possono essere eticamente apprezzabili, non si tratta di applicazioni dell’etica in senso kantiano, bensì del calcolo utilitario.
Nel suo Beschluß, cioè nelle conclusioni, Kant scrive: “Ora la ragione morale-pratica in noi pronuncia il suo veto irresistibile: Non ci deve essere guerra, né tra me e te nello stato di natura, né tra noi come Stati, che, pur essendo internamente in uno stato di diritto, sono esternamente (in relazione l’uno all’altro) in uno stato di non diritto” – perché non è questo il modo in cui qualcuno dovrebbe cercare il suo diritto. Quindi la questione non è più se la pace eterna sia una cosa reale o no…, ma dobbiamo agire come se la cosa fosse reale mentre forse non lo è…” : ancora la circolarità del postulato.
Rispetto a queste tesi, vorrei porre solo alcuni spunti di riflessione e dubbio: E’ la pace davvero un’esigenza morale? O un’esigenza di qualsivoglia tipo? O tale è invece l’alternanza della pace con la guerra, della collaborazione col conflitto, nella competizione selettiva e migliorativa?
[i] Ringrazio il prof. Alberto Jori, che mi ha indicato le fonti della teoria del diritto e dello Stato in Kant; mi servirò di alcuni passaggi di un suo scritto per richiamare e criticare i concetti principali.
[ii] Mi riferisco al saggio Massa e potere
[iii] Prendere possesso. Kant e il problema dell’atto giuridico “originario” file:///C:/Users/Marco/Downloads/Dialnet-PrenderePossessoKantEIlProblemaDellattoGiuridicoOr-9111480.pdf