DALLA QUESTIONE EVOLUZIONISTA A QUELLA ONTOLOGICA
DALLA QUESTIONE EVOLUZIONISTA A QUELLA ONTOLOGICA
A MONTE DELL’ORIGINE DELLE SPECIE
La teoria darwinistica dell’evoluzione e dell’origine delle specie afferma che gli organismi viventi, riproducendosi, sviluppino mutazioni casuali, e che la lotta per la sopravvivenza e la procreazione selezioni le mutazioni migliorative e deselezioni quelle peggiorative, sicché si ha un’evoluzione adattativa che produce specie nuove e continuo progresso delle specie.
Essa viene applicata anche all’uomo, alla società, al lavoro, all’impresa, e giustifica ideologicamente certe scelte politiche, soprattutto l’ incentivare la competizione, la concorrenza libera – penso soprattutto all’Eurozona, trasformata in un’arena finanziaria nazi-darwinistica, in cui i paesi più forti, santificati dal dogma della virtuosità di bilancio, sbranano il reddito, il risparmio e l’industrializzazione dei più deboli. Una moderna ordalia.
Sul piano biologico, mi pare persuasivo e sufficiente l’insieme di prove fornite – mi riferisco al saggio Genetic Entropy di John Sanford – per dimostrare l’infondatezza-impossibilità oggettiva, biologica, della predetta teoria evoluzionistica; ne accenno alcune più salienti e chiare :
-le mutazioni sono numerose e frequenti (producono l’invecchiamento, le malattie degenerative e altro) e praticamente tutte peggiorative (in base al principio entropico);
-la selezione del più forte opererebbe solo sui fenotipi, quindi non direttamente sui geni, sicché non potrebbe selezionarli.
Da tale dimostrazione risulta che non abbiamo una spiegazione per l’origine e la trasformazione delle molte specie viventi.
Ma non l’abbiamo nemmeno per l’origine della vita, del DNA, delle proteine: la questione rimane aperta, non siamo in grado di spiegarci l’origine di questi sistemi molto complessi e molto ordinati, anche perché il principio entropico – ossia la tendenza di ogni sistema dinamico a perdere il proprio livello iniziale di ordine la pratica impossibilità di recuperarlo – pone una freccia temporale di ordine calante, sicché il livello di ordine attuale pare poter necessariamente essere il risultato del decadimento di un ordine più elevato e anteriore.
Rimane aperta anche una questione più profonda, a monte: quella dell’origine dei diversi elementi chimici.
E, più a monte ancora, quella sull’origine delle diverse particelle subatomiche.
Questa catena di domande, che porta al quesito centrale della filosofia greca, cioè quello circa le cause-origine (aitìai-archè) delle cose (tà onta) in generale, arriva alla sua formulazione più radicale e generale possibile, ontologica, con Leibniz, in questi termini: “Perché c’è l’essere e non il nulla”, “Perché c’è qualcosa anziché il nulla?”
L’esistenza di qualcosa, cioè della totalità dell’esistente (di me, quantomeno: cogito ergo sum) è constatabile, non è dubbia. Ma può avere una spiegazione, cioè si può dimostrare che sia cagionata o necessitata da un qualcosa?
Certo non da un qualcos’altro da essa, da un qualcosa fuori di quel medesimo qualcosa, perché questo qualcosa esterno esisterebbe, quindi farebbe parte dell’esistente, sicché anche di esso si porrebbe il medesimo quesito: perché questo qualcosa- bis c’è?
Certo non si può fornire la spiegazione (peraltro limitata a quell’ente speciale che è il dio abramita) nemmeno attraverso l’argomento ontologico anselmiano del Deus est ens cujus essentiam implicat existentiam, ossia del concetto di Dio che, implicando la perfettezza, implica di necessità l’esistenza effettiva (senza la quale non vi sarebbe perfettezza) – ragionamento che confonde il piano della coerenza logica del concetto col piano ontologico, come smascherato da Kant con l’argomento dei 100 talleri immaginari.
La risposta va invece ricercata risalendo a monte della domanda di Leibniz: è logicamente possibile, ha senso logico, o è auto-contraddittorio (cioè si toglie da sé stesso) il quesito se possa non esserci un’esistenza, un esistente, in assoluto (überhaupt, at all) (che è ben diverso dal quesito se un determinato ente possa sia esistere che non esistere, prima o dopo).
Questa domanda presuppone surrettiziamente l’assunzione, inespressa, che vi sia – che esista – che possa esistere – una condizione di indifferenza, di “libertà”, precedente il bivio ontologico tra l’esistere dell’esistere, e il non esistere, il niente-esistere.
Precedente, nel senso che, in essa condizione, almeno in senso logico, “ancora” il bivio sia “davanti”, ancora non sia stata imboccata la strada dell’esistere dell’esistere (che sappiamo che è stata imboccata, perché qualcosa esiste senza dubbio) e non l’altra.
Ma dire che quella possibilità, quella “libertà”, quello stesso bivio tra esistere dell’esistere e non esistere, esistevano, o sono esistiti, realizza una contraddizione in adjecto, perché appunto presuppone il già-esistere dell’esistere überhaupt: infatti quel dire afferma l’esistere di quella possibilità, di quella condizione anteriore.
Quindi la domanda è errata, si toglie da sé: il porsela, presuppone necessariamente che il bivio non ci sia, perché presuppone che l’esistenza (di chi se la pone, del bivio), sia, cioè che l’alternativa, la bi-possibilità, del bivio non sia.
E’ analogo al dire a qualcuno: “Immagina di non esistere”: per immaginare, deve esistere; per immaginare sé stesso, deve porsi come esistente.
Ma può anche dirsi che Il fatto stesso che qualcosa esiste, e qualcosa esiste di certo, si pone come il punto di partenza, cominciamento ontologico, e non lascia spazio logico (non auto-contraddittorio) a monte di sé, per il quesito in esame né per ogni quesito che, per strutturarsi, ponga la possibilità della sua non esistenza, o della non esistenza dell’esistere.
11.04.14
Marco Della Luna