LUCIGNOLO IN CATTEDRA

Studenti, occhio a

LUCIGNOLO IN CATTEDRA

Riforme e ri-riforme della scuola – paradossi che incentivano a non studiare – negare le difficoltà impedisce di risolverle – come ottimizzare le risorse umane e materiali

 

di Marco Cammi

Insegnante di Filosofia e Storia

presso il Liceo Scientifico Statale “G.Bruno” di Albenga

 

Uno dei primi atti compiuti dal nuovo ministro dell’Istruzione, Carlo Fioroni, è stato quello di promettere una revisione dell’attuale Esame di Stato, quello che un tempo si chiamava “esame di maturità”.

Come molti ricorderanno, anche i predecessori dell’attuale ministro, e cioè Luigi Berlinguer e Letizia Moratti, si sono occupati della struttura di questa che viene considerata, dall’opinione pubblica e dai media, come la verifica per antonomasia.

Il primo, ha introdotto la cosiddetta Terza prova, più altre riforme meno note e sulle quali non è il caso di dilungarsi a causa della loro rilevanza soprattutto tecnica. La seconda, ha mutato la composizione delle commissioni d’esame, ora costituite esclusivamente dagli insegnanti stessi degli allievi, fatta eccezione per il Presidente, che però è solo un commissario ad acta.

C’è da domandarsi il perché di tanta attenzione verso l’atto conclusivo degli studi secondari.

Credo che i motivi siano sostanzialmente due: il primo è legato all’impatto che ogni intervento sulla struttura dell’esame ha sull’opinione pubblica, il secondo sembra più collegato alla speranza che queste modifiche possano influire, in modo tanto semplice quanto rapido, sugli attuali gravi problemi del nostro sistema scolastico.

Sul primo punto, osserviamo che esso riguarda la politica e non la scuola. Sul secondo, invece, credo che sia bene chiarire che si tratta solo di un’illusione.

Noi possiamo immaginare come vogliamo le commissioni d’esame: composte interamente di esaminatori esterni, con la presenza del solo “membro interno”, come si diceva una volta, oppure composte da tutti “membri interni”, con un solo presidente esterno. Oppure, ancora, possiamo ipotizzare commissioni miste, e qui la matematica soccorre con una serie ampia di possibilità, con la sola auspicabile esclusione delle percentuali frazionarie.

Ma a quale scopo tutto ciò?

L’idea che, a suo tempo, stava alla base del progetto di Benedetto Vertecchi, consigliere del ministro Berlinguer, era che, la riforma dell’esame, reso più severo di quello che andava a sostituire – ricordate? Le due materie scelte pariteticamente dalla Commissione e dall’esaminando – rendendo più dura la prova finale, favorisse una ripresa generale del livello degli studi.

L’idea, se ho ben capito l’intenzione, era quella di migliorare l’affidabilità della valutazione finale attraverso un più approfondito accertamento dei livelli raggiunti dagli esaminandi, inducendo così gli studenti a prepararsi meglio per affrontare una prova resa più, si può dire?, selettiva.

In altri termini, si sarebbe voluto demandare ad un meccanismo di verifica ciò che dovrebbe essere, invece, il prodotto di una scelta didattica chiara e dichiarata.

E qui sta l’illusione di cui si diceva.

Lo stesso Vertecchi, l’ho sentito dire da un Ispettore ministeriale in una riunione scolastica, giudicò insoddisfacenti i risultati ottenuti; ma in realtà questi esiti erano largamente prevedibili, perché una tale aspettativa verso l’esame contraddice totalmente all’intera esperienza scolastica dei nostri studenti, per i quali l’immagine che meglio esprime la percezione della vita scolastica è probabilmente quella dell’air bag.

Fin dai primi giorni di scuola, lo studente medio apprende che, qualsiasi cosa egli non sappia, alla fine verrà in suo soccorso una qualche mano benefica e consolatrice, ora sotto forma di corso di recupero, ora di sportello didattico, ora di corso IDEI (mi sia consentito sorvolare sulla multiforme natura di questi corsi).

Fin dai primi giorni di scuola, è chiaro allo studente poco disposto ad impegnarsi che, volendo, è possibile dedicarsi ad attività diverse dallo studio, perché, alla fine, non ci sarà comunque problema a passare l’anno.

Arrivato allo scrutinio finale con qualche quattro o cinque, egli vedrà, come per magia, le insufficienze trasformarsi in sei, scritti sul tabellone dei voti con a fianco un piccolo asterisco, che sta ad indicare la mirabile trasformazione avvenuta.

Chi non è pratico delle faccende scolastiche penserà che sto scherzando, ma non è così.

Non solo, ma il brutto rospo noto come “quattro”, trasformato nel bel principe “sei” dal bacio del Consiglio di Classe, entrerà a far parte della media finale come sei e non come quattro.

Sì, si tratta di un esito paradossale, avete capito bene (questa non è un’illusione): se un ragazzo decide, per qualsiasi motivo, di non studiare un paio di materie che gli stanno antipatiche e si dedica solo a quelle che gli aggradano, questa sua scelta sarà premiata, perché egli potrà avere, alla fine, una media migliore di chi, non essendo brillante, avrà cercato purtuttavia di portare alla sufficienza tutte le materie, disperdendo così le limitate forze di cui dispone.

 

Si può obiettare che l’asterisco obbligherà l’impreparato a seguire, durante l’anno scolastico successivo, gli appositi corsi di recupero. Questo è vero, ma per quale motivo, è lecito chiedersi, costui dovrebbe studiare, dopo che è stato promosso, se non l’ha fatto quando rischiava la “bocciatura”?

Perché potrebbe essere bocciato l’anno dopo, mi si dirà.

Potrebbe, appunto, potrebbe. Per quanto mi riguarda, non ricordo nessuno che sia stato “bocciato” perché l’anno successivo era ancora insufficiente nelle materie asteriscate, se mi si passa il termine.

Non voglio, sia chiaro, auspicare un aumento delle”bocciature” – con tutta evidenza non è questo il punto: il problema è piuttosto quello di sostituire al concetto di recupero qualcosa di meno difensivo, per esempio quello di valorizzazione.

Oggi la nostra attenzione è rivolta quasi esclusivamente a quelli che devono essere aspettati, e che non appartengono per forza ai ceti popolari; sono loro che determinano il passo della truppa, e il passo dei ritardatari, va da sé, è lento, molto lento.

 

Questa complessiva situazione si è formata nell’arco di decenni ed è l’espressione di un modo di sentire, prima ancora che di pensare, molto diffuso, trasversale alla nostra società e che contribuisce potentemente a mantenere i nostri figli nella condizione di bambini per il maggior tempo possibile.

Per medicare questa situazione, non credo che, nell’immediato, ci sia molto da fare, anche perché questa mentalità è penetrata profondamente nello stesso corpo insegnante, che si è maternizzato – e ciò non solo perché è costituito per lo più da appartenenti al genere femminile.

Definendolo maternizzato, voglio riferirmi ad un’atmosfera di rapporti docente-discente che mira soprattutto a scoprire perché l’allievo non studia o, comunque, non sta nella situazione scolastica come dovrebbe. L’idea è che costui abbia comunque qualcosa che gli impedisce di esprimersi al meglio e che questo qualcosa dipenda sempre dagli altri: dalla famiglia che non lo capisce, che lo coccola troppo o non lo coccola affatto; dalla nascita del fratellino, dal motorino nuovo o dalla ragazza che gli preferisce un altro.

Invece di insegnargli che la vita non è tenuta a compiacerlo, gli passiamo, spesso involontariamente, il messaggio che sia suo diritto avere (nel senso che qualcuno gliela deve procurare) una situazione favorevole e lui finisce, chi non lo farebbe?, per crederci.

Tanto per dire, ogni volta che si torna dalla gita di istruzione (la cara vecchia gita scolastica) da parte dei genitori è tutto un lamentar disagi per il viaggio scomodo, l’albergo non all’altezza, il cibo immangiabile -son diventati tutti allergici, salvo ingozzarsi di certe schifezze da fast food che ammazzerebbero un coccodrillo – e nessuno che si scusi per l’orribile casino che questi nostri rampolli piantano in tutti gli alberghi d’Italia, quando non sfuggono al controllo e s’ubriacano, per non dir di peggio.

Grazie al cielo non è così per tutti, ma non illudiamoci che lo sia per pochi.

Escludendo che, su una tale mentalità, possa essere realmente reintrodotto il concetto di merito, che nel sentire di molti è inscindibilmente connesso alla sua forma spregevole detta meritocrazia, non rimane che accettare di allungare il gruppo: si portino pure tutti al traguardo, ma ognuno ci arrivi alla velocità che le sue gambe, o la sua voglia di pedalare, gli consentono.

Voglio dire che bisogna costruire non solo percorsi di recupero, ma anche piste di velocità.

In una parola, bisogna ripensare il concetto stesso di scuola di massa, perché non è detto che la si possa realizzare solo portando la cultura al livello della massa – forse è possibile anche portare la massa, cioè un numero ampio di persone (ché altro significato non mi sento di dare a questo termine), alla cultura.

Conosco l’obiezione, che non è di ordine scolastico, ma di ordine socio-politico: chi è svantaggiato, spesso deve le proprie difficoltà alla situazione nella quale vive e che lo grava di un peso che altri non deve portare.

E’ vero, ma bisogna osservare due cose: in primo luogo che la scuola può contribuire a superare le disparità non nei tempi brevi e soprattutto non negandole, ma giocando un ruolo efficace nella formazione di una classe dirigente migliore; e, secondariamente,  che, con le risorse che già ora ci sono, si potrebbero costruire percorsi scolastici capaci di diminuire, e di molto, il peso delle disparità socio-culturali di partenza. Spesso basterebbe indirizzare i mezzi, che non sono così scarsi come si dice, verso obiettivi concreti, eliminando gli sprechi, a cominciare da una buona parte di quei progetti didattici, che spesso non si capisce veramente a cosa servano.

Se si pensa che la scuola sia in grado di fornire un’elevata preparazione a tutti, oltre a trascurare il fatto che non tutti la desiderano, si corre il rischio, realissimo come tutti possiamo constatare, di non dare una preparazione buona a nessuno, con la pessima conseguenza che, nella competizione sociale, saranno certamente ancor più rilevanti le condizioni ed il peso delle famiglie di appartenenza.

 

Ora che la sinistra è al governo del Paese, molti si aspettano un colpo d’ala nell’affrontare proprio questo tipo di situazioni, ma per far questo è necessario mettere da parte certi armamentari ideologici che, nati su condizioni storiche diverse, se applicati ad una società complessa come questa, rischiano di perpetuare semplicemente quella mentalità burocratico-teorica che sta alla base degli attuali gravi problemi.

Non bisogna ripensare l’esame, ma cosa dobbiamo esaminare.

 

 

 

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Avvocato, autore, scrittore
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