L’INCONSCIO DEI CRISTIANI

 

 

Siamo sicuri che il Cristianesimo non sia il frutto di un semplice malinteso? E quale dio adorano realmente i Cristiani? Un oscuro conflitto vive nell’inconscio della Fede…

 

Chiunque consideri un certo messaggio, un certo libro, come verità rivelata da dio, deve essere coerente e aderente al contenuto e alle prescrizioni di questa verità. Tale principio è basilare ed evidente. Il violarlo, equivarrebbe a contraddirsi e a negare la veridicità di dio. 

Ma, prima ancora di entrare nel merito di un messaggio e di una proposta, di una Legge, qualche che sia, è necessario chiedersi se quel messaggio, quella proposta, quella Legge, sia rivolta a noi, se noi possiamo considerarci suoi destinatari.

In questo senso, siamo sicuri che il messaggio che il messaggio, la Legge, dell’Antico e del Nuovo Testamento, sia rivolto a tutti?

E, in secondo luogo, quanto è compatibile con il contenuto esplicito di ciò che i Cristiani definiscono “Scrittura rivelata” con il contenuto esplicito dell’etica e del sentire morale dei Cristiani?

 

L’Antico Testamento, in modo esplicito e inequivocabile, si rivolge unicamente e selettivamente a Israel, il popolo eletto, esortandolo a dominare gli altri (Deut. 15,6, per esempio, insegna a praticare l’ imperialismo finanziario, nel senso che Jahvé prescrive al suo popolo eletto, Israel: “Tu presterai a interesse a molte nazioni, ma da nessuna prenderai a prestito; così dominerai molti e da nessuno sarai dominato.”) e a fare molte altre cose incompatibili con l’etica dei Cristiani e la dottrina morale della Chiesa Cattolica (come  talora il genocidio di alcuni popoli palestinesi, prescritto da Jahvé, cioè dal clero di Jahvé, a Gideon) a danno dei non-Ebrei, dei gentili, e la distruzione dei templi dei loro dei, perché Jahvé si definisce “un dio geloso”. Un dio, però, anche imperscrutabile, imprevedibile e sfuggente alla ragione, come nel caso di Hiob, perseguitato e sfidato da Jahvé senza che avesse colpa. Un dio soggetto a forti mutamenti di umore, che costano molte vite e sofferenze.

Ma Jahvé è soprattutto un dio fortemente etnico. L’Alleanza stipulata tra Jahvé e Israel è, in modo professo, l’alleanza tra un dio e un popolo, contro tutti gli altri popoli e i loro dei: Jahvé, cioè il clero di Jahvé, esorta continuamente Israel a conquistare le terre di altre nazioni e a distruggere i loro templi. E lo minaccia di disperderlo tra le altre nazioni o di sottometterlo ad esse, se non obbedisce. Quindi l’Antico Testamento, come la figura di Jahvé, è, per sua struttura, riservato a Israel. Ossia, non può essere esteso a tutti i popoli, perché esso è strutturato nella contrapposizione tra Israel e gli altri popoli. La certezza assoluta di tale contrapposizione essenziale, di tale antitesi etnica, è data dalle minacce di Jahvé al suo popolo eletto, di disperderlo tra gli altri popoli o di lasciare che altre nazioni lo asserviscano.

Ovviamente, tutto questo discorso si basa sul contenuto del messaggio biblico, si muove all’interno di esso, e non implica che io affermi (o neghi) che quel messaggio venga da un dio anziché da esseri umani e dalle loro mire di potere e ricchezza – come, fino a prova contraria, è logico ritenere.

 

L’Antico Testamento, anzi la Torah, ossia i suoi primi cinque libri (Péntateuco), era la base culturale, religiosa ed etica condivisa dal popolo ebraico al tempo della predicazione di Jeshua, ossia Jeshua. E da nessun altro popolo.

Dato ciò, se Jeshua, il (supposto) Masiach (Messia) (”masiach” significa “unto”, come il greco “christòs” – l’unto di Jahvé, ossia il re di Israel) e Re dei Giudei, avesse inteso rivolgere la Lieta Novella a tutti i popoli e non, selettivamente, a Israel, lo avrebbe enunciato molto chiaramente e preliminarmente, perlomeno agli apostoli.  Avrebbe detto: “Attenzione! Io sono ebreo e voi siete ebrei, ma sia ben chiaro che questo mio messaggio ha come destinatari tutti gli uomini, indifferentemente, dato che tutti sono fratelli e a tutti è dato chiamarsi figli di Dio; Dio non vuole (più) che agiate contro gli altri popoli in suo nome.” Infatti, chi ha un messaggio importante, innanzitutto dichiara a chi il messaggio è destinato – a maggior ragione, se il contesto in cui predica può creare impressioni diverse a questo riguardo. Se un ebreo, discendente di David, in odore di essere il Masiach, parlando ad altri ebrei in una società ebraica imbevuta di Pentateuco, di una Rivelazione rivolta specificamente, espressamente ed esclusivamente ad Israel – se questo ebreo, pur dichiarando di voler continuare, confermare, completare, attuare la Legge Mosaica e la Scrittura esistente, vuole che la sua chiamata soterica sia rivolta a tutti i popoli, e non solo a Israel,  necessariamente lo dice tra le prime cose e molto esplicitamente – anche perché questa ecumenismo sarebbe forse la principale innovazione che egli apporta.

Al contrario, nelle parole di Jeshua, riferite dai testi ufficiali dei Quattro Evangeli riconosciuti, non troviamo affatto una tale chiara e diretta affermazione. Troviamo commenti marginali, forse interpolati, come quello del centurione, dove Jeshua dice: “Molti Ebrei non ricevono il mio messaggio (sebbene siano quelli che dovrebbero per natura riceverlo), mentre persino qualche gentile (sorprendentemente) lo riceve, ha fede. A questi gentili fidenti sarà dato in premio di riposare con Abramo e gli altri patriarchi (provocazione terribile per gli Ebrei, l’idea che un gentile dorma tra loro accanto ai patriarchi – ma al contempo riaffermazione che la Rivelazione e la salvazione, anche nel messaggio di Jeshua, sono squisitamente incentrate su Israel, non affatto ecumeniche!), mentre gli Ebrei riottosi alla Novella rischiano di essere gettati fuori, dove c’è stridor di denti.” Quando Jeshua vuole ’scandalizzare’ i farisei, preferisce citare come esempi di persone buone e meritevoli di salvazione, a dispetto dello stereotipo negativo, il samaritano (ebreo), il publicano (ebreo), l’adultera (ebrea). Se avesse voluto dichiarare che era venuto anche per gli altri popoli, per tutti i popoli, avrebbe citato molti esempi di egiziani, greci, romani. E avrebbe avuto una rappresentanza di gentili tra i discepoli.

Sostanzialmente Jeshua formula una minaccia agli Ebrei che non gli accordano fede: “Ebrei, badate che, se non avrete fede (in me), non vi salverete, e magari al vostro posto si salveranno alcuni gentili.”

In ogni caso, ribadiamo, non vi è legittimazione scritturale a considerare l’Antico Testamento come avente destinatari fruitori diversi dagli Ebrei. Anzi, il testo stesso dell’Antico Testamento lo vieta, nel suo tenore esplicito. E come potrebbe, allora, considerarsi come destinato ai non-Ebrei il messaggio del Nuovo Testamento, che si basa, appunto, sull’Antico Testamento, e che si rifà al dio dell’Antico Testamento? Se Jeshua è il figlio o l’incarnazione del dio dell’Antico Testamento, come lo si può considerare il redentore anche dei non-Ebrei, senza contraddirsi?

 

Vi sono passi evangelici in cui i Cristiani vogliono ravvisare una chiamata a tutti i popoli, ma senza alcuna ragione. Così, ad es.,  Giovanni 4:21-26 :

 21 Jeshua le disse: Donna, credimi che l’ora viene, che voi non adorerete il Padre nè in questo monte, nè in Gerusalemme. 22 Voi adorate ciò che non conoscete; noi adoriamo ciò che noi conosciamo;
poichè la salute è dalla parte de’ Giudei. 23 Ma l’ora viene, e già al
presente è, che i veri adoratori adoreranno il Padre in ispirito e
verità; perciocchè anche il Padre domanda tali che l’adorino; 24 Iddio
è Spirito; perciò, conviene che coloro che l’adorano, l’adorino in
ispirito e verità. 25 La donna gli disse: Io so che il Messia, il
quale è chiamato Cristo, ha da venire; quando egli sarà venuto, ci
annunzierà ogni cosa. 26 Jeshua le disse: Io, che ti parlo, son desso.

Questo passo, oggettivamente, parla del COME adorare,
non di CHI adori…

Jeshua stesso chiarisce in modo esplicito che, perlomeno in questa sua incarnazione, è venuto specificamente per Israel:

“Ho ancora altre pecore, che non sono di questo ovile; anch’esse io
devo condurre ed ascolteranno la mia voce e diverranno un solo gregge
e un solo pastore” (Gv 10, 16).

Questo passo esprime chiaramente che Jeshua sta occupandosi di uno degli ovili, ossia di Israel. Esistono altri ovili, di cui pure si occuperà. Come, quando, con quale incarnazione e con quale messaggio, non lo dice. Ma chiaramente gli altri ovili riceveranno un intervento diverso, o perlomeno altro, da quello di questo ovile. L’intervento di Jeshua nella Palestina di 2000 anni fa non è diretto anche agli altri ovili.

 Il risultato degli altri e futuri interventi sarà che tutti si fonderanno, nel futuro, in un unico gregge. Per ora i greggi sono molti.

L’unico elemento di raccordo tra i non-ebrei, i gentili, e Jeshua-Jahvé è un paio di frasi che gli evangelisti attribuiscono a Jeshua risorto e apparso ai suoi discepoli nel cenacolo, nelle quali li esorta a predicare a tutti i popoli, a convertirli e a battezzarli, per la loro salvazione, estendendo ai gentili quanto aveva detto per gli Ebrei prima della sua morte. Poche parole, riferite dai soli evangelisti, i quali non avevano mai conosciuto Jeshua. Un raccordo, quindi, assai esile, troppo esile per sostenere la costruzione di una religione. Ma non solo esile. Non solo non provato, ma anche intrinsecamente inverosimile. E, se esso non regge, crolla l’intera costruzione del Cristianesimo dei gentili.

 

L’ecumenismo, il rivolgersi ad altri popoli, sembra al contempo: a)uno sviluppo tardo, successivo alla morte di Jeshua; b)uno sviluppo dovuto agli apostoli; c)un ripiego imposto dai fatti: poiché la mia/nostra Novella non è accolta da Israel, suo destinatario originario, rivolgetevi/rivolgiamoci ad altri auditorii o mercati; d)un restyling o reframing della Rivelazione per adattarla ai nuovi mercati – il mondo greco e romano, e poi germanico.

 

Infatti, è inverosimile e incongruo che Jeshua, se fosse venuto come portatore di un messaggio universale, per tutti i popoli, e non solo per Israel, non lo abbia mai fatto chiaro nei tre anni passati pubblicamente a predicare, a presentarsi, ad essere presentato, specificamente come Masiach (Messia), Re dei Giudei, discendente del re David (ad es., Mt 2,6), etc. etc.; e abbia aspettato di essere crocifisso, ucciso e resuscitato per dire, in privato agli apostoli, proprio mentre stava per ascendere in Cielo, che andassero ad evangelizzare e battezzare anche tutti i popoli (Matteo, 28, 19-20; Marco, 14, 15-16; 16, 15-16;  Luca, 24, 47-49), come se questa idea gli fosse venuta durante la sua discesa agli inferi.

Jeshua, a quanto si dice, qualche che sia stata la sua consistenza storica effettiva, di cui niente o quasi si sa, si presentò come un profeta di Israel, sia pur speciale, di fatto predicando valori e una sensibilità molto diversi dalla Torah, dalla legge mosaica, ma dichiarando (all’evidente scopo di agganciarsi al sistema di convinzioni imperante in Palestina e di rendersi accetto e non farsi ammazzare – non dimentichiamo che il Deuteronomio prescrive la uccisione per l’ebreo che si rivolga ad  un altro dio o che infranga la legge mosaica, analogamente a ciò che prescrive l’Islam per il mussulmano che cambia religione!) di basarsi su di esse pur volendole perfezionare – non poteva fare diversamente, anche se il suo insegnamento era sostanzialmente contrario a molti punti della legge mosaica. Ossia, era costretto a presentare il proprio messaggio con un’etichetta non corrispondente al contenuto, per non essere condannato a morte.

Secondo testi non controllabili nella loro veridicità storica, raccolse intorno a sé molti discepoli, tra cui un nucleo di dodici intimi che lo seguivano stabilmente. I suoi seguaci speravano in lui come figlio di Dio, Masiach, Re di Israel secondo il lignaggio di David, venuto a riportare Israel alla vittoria e alla gloria. Jeshua si mise in contrasto con gli interessi economici e di potere della chiesa israelitica, scacciando i mercanti dal tempio e condannando l’avarizia. Accusato dai sacerdoti presso il governatore romano di blasfemia e di spacciarsi per Re degli Ebrei, fu ucciso col metodo applicato dall’autorità romana ai sovversivi (crocifissione), non con quello della legge mosaica (lapidazione). I suoi discepoli si ritrovarono senza la loro guida, che era anche la loro fonte di reddito, disoccupati, minacciati di persecuzione, abbandonati dalla gente che fino a pochi giorni prima aveva osannato l’ingresso del loro Maestro in città. In questo stato, connotato da scoramento e perdita di fede (come gli Evangeli stessi riferiscono), essi ‘videro’ Jeshua risorto, che li confortò, li istruì ulteriormente, e prescrisse loro di andare a predicare agli altri popoli; indi, sparì in Cielo. Troppo tardi, per essere credibile!

La vicenda è spiegabile, psicologicamente, come altri casi simili, in cui una setta, quando l’evento costituente il nucleo della sua predicazione non si avvera, o quando la realtà lo smentisce in modo oggettivo, non si scioglie, non prende atto della sua fallacia, ma ristruttura la sua ‘rivelazione’ e la sua missione, per poter sopravvivere e conservare quel nucleo di fede, da cui dipendente, per i suoi componenti, l’autostima, il senso del valore della propria esistenza, la propria identità, la coesione stessa del gruppo. E si mette a predicare e convertire con rinnovata alacrità.

Lo stesso fatto che l’esortazione alla predicazione ecumenica compaia solo dopo la morte e l’asserita resurrezione, e che venga fatta in privato ai discepoli, non in pubblico, davanti a molti testimoni, come sarebbe stato logico, fa ritenere che la stessa riapparizione di Jeshua dopo la sua morte sia stata aggiunta agli evangeli al fine specifico di legittimare gli apostoli a cambiare il loro target di predicazione, rivolgendosi ai gentili, ai quali Jeshua non si era rivolto. E proprio per questo, per il fatto che Jeshua non aveva predicato se non agli Ebrei, era necessario farlo resuscitare: affinché venisse a legittimare il cambio di destinatario del messaggio. Ma non si poteva farlo apparire in pubblico, dopo morto, perché la sua resurrezione non era, evidentemente, abbastanza oggettiva, o reale. Così, si scrisse che egli apparve e parlò solamente a pochi ‘amici’, la cui testimonianza, anche sul supposto incarico di evangelizzare tutti i popoli, a questo punto, non può essere molto convincente. E lo è ancora meno se si tiene conto di un dato di fatto pesantissimo, del quale si preferisce non parlare, ossia che vi sono finali di Evangeli, per Matteo e Marco, che non parlano affatto di tale incarico.

Ma gli stessi tre Evangeli sinottici si contraddicono tra loro, formulando storie molto diverse e incompatbili tra loro (oltre che incontrollabili) sulla resurrezione e sul dopo resurrezione. E’ palese che sono storie costruite, inventate.

Come è chiaro che i discepoli, per superare il trauma e il fallimento dell’uccisione del loro Maestro, fino a poco prima osannato dagli Ebrei, si siano inventati, o allucinati, la sua risurrezione, la sua apparizione molto privata, il suo nuovo incarico di predicare a tutti i popoli, e la sua frettolosa ascensione in cielo.

Peraltro, grazie a questa allucinazione compensatoria, o innocente frode, dei discepoli, avviene qualcosa di molto costruttivo, evolutivo: i discepoli, ora apostoli, proprio attraverso il trauma della perdita del Maestro, ricevono i carismi dello Spirito Santo: si desta in loro il divino immanente, iniziano a compiere miracoli essi stessi – il miracolo inizia a venire dall’interno dell’uomo, dal suo spirito, non più da un dio esterno, incarnato o non. Essi ascendono dalla religiosità scritturale, legalistica, dogmatica dell’exoterismo ebraico, a una religiosità spirituale, mistica, esperienziale. Superano sia il dio trascendente, imperscrutabile e oltrante dell’Antico Testamento (analogo ad Allà, tranne che è etnico), che il logos fatto uomo, ma sempre esterno ai singoli uomini, ossia Joshua.

 

 

In conclusione, è contraddittorio da parte dei gentili assumere e usare come Rivelazione e Testamento un testo che esplicitamente si rivolge a una categoria di destinatari specifica e diversa da loro; è contraddittorio, cioè, per i gentili, considerare un testo come interamente rivelato e veritativo, ma non tener conto di quel suo contenuto dichiarativo, che esclude loro come destinatari.

I Cristiani, riconoscendo di essersi appropriati indebitamente di Rivelazioni non rivolte a loro, restano quindi senza Scritture, senza Rivelazione. Amenoché non si rifacciano ai messaggi dei mistici, al contatto personale diretto mistico col Divino e liberi di cercare altre vie e altri Maestri, se desiderano. Il che sarebbe pienamente conforme agli insegnamenti di Jeshua risorto. Infatti, dopo la resurrezione, l’insegnamento di Jeshua fa un palese salto di qualità: staccandosi dall’attaccamento univoco al popolo Ebraico, quindi esce dall’alleanza razziale e razzista Jahvé-Israel contro tutti gli altri dei e tutti gli altri popoli, che è un carattere essenziale ed esplicito dell’Antico Testamento, e finalmente si rivolge come redentore a tutti gli uomini di tutte le genti. E nel faro ciò, egli invita gli apostoli a predicare ai popoli e ad invocare lo Spirito Santo e i suoi doni, la sua illuminazione (già gli apostoli parlano in lingue), la sua ispirazione, è un aprirsi alla spiritualità autentica, che è universale rispetto ai popoli e alle terre, e superiore al tempo e alle contingenze, ai nomi, alle etichette, alle ortodossie codificate.

 

Ma i Cristiani non arrivano a quel riconoscimento, perché, nella loro vita, dapprima, nell’infanzia, imparano (cioè vengono condizionati dal processo di integrazione-socializzazione) a credere Dio Padre e Jeshua come il loro dio e il loro redentore, e l’Antico Testamento, nonché il Nuovo, come il loro libro sacro. Così che poi, quando incominciano a leggerli (e nel complesso ne leggono poche pagine, soprattutto dell’Antico Testamento, e soprattutto delle parti in cui maggiormente quel testo si dichiara diretto al solo Israel), partono dal preconcetto che quel Dio sia il loro dio, e che Jeshua sia venuto per loro; e sfugge loro, poiché non sono preparati a coglierlo ma semmai a censurarlo, tutto quell’insieme di elementi in senso contrario, ossia le continue, esplicite dichiarazioni di quello stesso dio, in cui egli enuncia agli Ebrei che essi sono il suo popolo eletto e che egli sta parlando solo a loro e per loro e sovente contro gli altri popoli. Come sfugge loro che pure lo stesso Jeshua, il loro Gesù o Jesus, si rivolgeva ai soli Ebrei.

Ancor peggio, è che, a causa del condizionamento suddetto, i Cristiani, non riescono a cogliere parecchi tratti pericolosi di Jahvé, dio etnico, selvaggio, dalle tendenze molto contraddittorie (tra la ferocia e la clemenza), proprie di una personalità (o di una cultura) non integrata, e delle sue leggi c.d. mosaiche: la sua volubilità e instabilità, le sue esortazioni alla guerra, al genocidio (vedi Gideon), all’uccisione degli apostati e delle adultere, all’intolleranza verso le altre religioni, alla distruzione dei loro templi e oggetti di culto, alla discriminazione etnica, alla sistematica pratica dell’usura in danno delle altre nazioni, per dominarle (Deuteronomio, 15.6, 23, 25). Quest’ultima pratica, certo non esclusiva degli Ebrei, è in contrasto col precetto evangelico secondo cui chi serve Mammona non serve Dio (ma chi è Mammona, se non lo stesso Jahvé?), ed è sicuramente e visibilmente, nel mondo, lo strumento, oggi soprattutto, di dominazione, oppressione e sfruttamento prevalente – causa di guerre, miserie., migrazioni forzate, insicurezza, attraverso sia l’indebitamento estero che l’indebitamento interno dei paesi. I Cristiani hanno maturato un’etica basata su amore, mitezza, universalità, eguaglianza, libertà, remissione dei debiti; eppure non colgono e non integrano questi gli opposti, atroci caratteri  del dio-demone Jahvé: ancora il 12.09.06 il Papa, contro ogni evidenza, ha sostenuto che il dio dell’Antico Testamento sarebbe un dio d’amore e non crudele. Quindi i Cristiani non riescono a difendersene e a difenderne gli altri. Anzi, proprio in quanto erroneamente identificano Jahvé come loro dio, e dio d’amore, essi, novelli cavalli di Troia, mascherano a sé e agli altri il suo vero volto, le sue vere tendenze, e finiscono per proteggere quelle medesime pratiche di dominazione, oppressione e sfruttamento, che, se potesse osservare obiettivamente, ogni cristiano condannerebbe e terrebbe in abominio. Jeshua, i suoi apostoli, i suoi Evangeli, il Cristianesimo, oggettivamente, sono quindi una sorta di cavallo di Troia dentro il quale il dio etnico, usuraio e sterminatore,  o meglio il suo clero, l’organizzazione religiosa che gli dà voce, cela la sua natura e si introduce tra i gentili, cioè tra popoli diversi da quello che egli definisce suo. In tal modo, servendosi della persona e delle caratteristiche di Joshua per rifilare se stesso come loro unico dio, il “dio” dell’usura (il suo clero) callidamente ha privato gli altri popoli della possibilità di avere un dio loro proprio, o dei loro propri, li ha indotti a credere che egli sia dio anche loro e che abbia caratteri opposti a quelli che il Pentateuco gli attribuisce.

Nell’inconscio dei Cristiani vive perciò questo oscuro conflitto, questa profonda contraddizione tra i caratteri reali del dio “Padre” (che, contrariamente a quanto assicura Jeshua, non è affatto “buono”, e che anzi non è nemmeno padre, ed è il dio esclusivo di Israel), da una parte; e, dall’altra, i valori, la sensibilità e i principi etici maturati sino ad oggi, rimane opaca, non visibile nell’inconscio dei Cristiani.

E allora questo conflitto inconscio, opaco all’introspezione del fedele, si manifesta al cristiano nel mondo esterno, sotto forma di ingiustizia, sfruttamento, povertà, guerre. Mali che è difficile combattere,  per coloro che rimangono figli di un dio, che è il dio dell’usura e dell’imperialismo finanziario.

Anche Jeshua pare vivere questo conflitto, il tormento insito nella contraddizione  di essere portatore di un messaggio di amore, mitezza, pace, perdono, e al contempo di legittimare la feroce legge mosaica;  di sentirsi figlio di un Padre terribile, ma che deve definire “buono” e per il cui volere deve morire. La croce pare un adeguato simbolo di questa condizione lacerante. E quando Jeshua afferma che non si può servire insieme Dio e Mammona, parla soprattutto a sé stesso, della sua  escruciante condizione. Perché chi altri è Mammona, se non Jahvé, il dio dell’usura di Deut. 15.6?

 

Per quanto sopra, un profondo ripensamento dell’Antico e del Nuovo Testamento, e una alternativa ricerca delle vere radici del Cristianesimo, ma anche del Giudaismo, nella spiritualità autentica e mistica, per sua natura non etnocentrica ma universale – quindi la scoperta delle autentiche radici vitali del Cristianesimo e del Giudaismo su basi altre dall’Antico Testamento,  e sulla comprensione del Nuovo Testamento come incentrato sulla resurrezione e sulle specifiche rivelazioni compiute dal Cristo risorto, oltre che sugli Atti degli Apostoli e sulle Epistole – è indispensabile e, soprattutto, è condizione preliminare e preparatoria, affinché le pratiche più ingiuste e dannose per l’umanità possano essere riconosciute, condannate e bandite alla loro radice, e affinché sia colto, finalmente e liberamente, il senso dell’Evangelo.

 

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4 risposte a L’INCONSCIO DEI CRISTIANI

  1. Girolamo scrive:

    La parola Israel significherebbe “Colui che lotta contro Dio”. Le sue sconcertanti osservazioni mi fanno pensare che effettivamente l’Unto del Signore sia venuto principalmente a riprendere i traditori di Dio, il popolo apostata, responsabile di avere abusato della condizione di “Popolo eletto”. Allo stesso tempo Yeshua verrebbe ad annunciare che, non avendo i Giudei accolto il convito di Dio, Egli dopo averli castigati avrebbe chiamato alla sua mensa gli altri, i Gentili, i non giudei.

    • admin scrive:

      Oppure è stato inventato per creare una religione artefatta (il Cristianesimo) che veicolase, con una cultura di mitezza e remissività, il potere usuraio dei seguaci di Jahvé.

  2. IMOSIMO scrive:

    Dissetazione veramente accattivante.

    Rimane ancora da comprendere la figura di Joshua, che rappresentando il Cristo ebraico, è per i Cristiani la figura al quale si legano sia in senso normativo-cognitivo che affettivo.

    Personalmente, come Cristiano posso accettare, e anzi in taluni casi condividere, la necessità di ripensare alla figura del controverso Jahvé: dio caratterizzato da ritualità spesso esasperate (vedi ad esempio il Levitico) e da strategica ferocia verso i popoli non ebrei.

    Risulta tuttavia più difficile (probabilmente per educazione morale e quindi anche affettiva), una volta rivista la figura di Jahvè, accettare un ripensamento di Joshua, della sua resurrezione e degli apostoli post crocifissione da lei proposta: con questo intendo dire che la sua dissertazione è sicuramente efficace a livello logico-cognitivo, ma sicuramente difficilmente accettabile a livello affettivo, livello che fin da piccoli i Cristiani imparano ad interiorizzare attraverso sacramenti come la comunione e pretiche di educazione morale come il catechismo.

    • admin scrive:

      Concordo. La fede e la’ttaccamtno, l’affezione, a questo o a quyel dio si sviluppa attraverso il processo di socializzazione, pre-razionalmente. Perciò la ragione non è una cura efficace. Cordiali saluti

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