UNIRSI ALL’ITALIA
UNIRSI ALL’ITALIA
Voi lo vedete, un valente e stimato imprenditore a fare società con un imprenditore di cattiva reputazione, pieno di debiti, in pericolo di insolvenza, che lavora con macchinari superati, tecnologie obsolete, e dipendenti infidi? Nel lungo corso della presente crisi finanziaria ed economica, da molte parti si indica l’integrazione politica dei paesi europei e la messa in comune dei debiti pubblici come cura dei mali odierni e prevenzione di quelli futuri. Ma solo un manipolatore può dire, e solo un merlo credere, che la Germania o paesi simili, a livello sia di ceti dominanti che di opinione pubblica, possano accettare l’idea dell’unione, dell’integrazione politica con paesi come l’Italia o la Grecia, soprattutto dopo le ultime prove di inefficienza, dissesto e degrado politico-istituzionale che hanno dato e stanno dando, senza posa, dal bilancio pubblico truccato al blocco camorrista dello smaltimento dei rifiuti, alle sceneggiate parlamentari. Chi mai vorrebbe sottoporsi a un parlamento europeo effettivamente legiferante in cui entrerebbero parlamentari eletti nelle regioni italiane a dominio mafioso? O parlamentari teleguidati dal Vaticano? O parlamentari avvezzi all’indecenza, abituati a drogarsi o a vendere il voto? Oppure nominati direttamente, e telecomandati, da un Berlusconi, che, a torto o a ragione, di fatto è bruciato in Europa? Chi vorrebbe associarsi un sistema tanto inefficiente e corrotto e impresentabile a un elettorato che non sia già altrettanto corrotto? I fatti del 2011 hanno definitivamente chiarito le idee ai popoli e ai governi dell’Europa sana e normale: nessuna integrazione col sistema-paese Italia. Si deve tenerlo sotto controllo e costringerlo a onorare i propri debiti, giusto per non farsi colpire dal suo default e per neutralizzarlo come potenziale competitore – poi, prenderne le distanze e dissociarsi. Altro che farsi carico dei debiti suoi e degli altri PIGS attraverso gli Eurobond. Agli europei è chiarissimo, oramai, che non si tratta semplicemente di un problema finanziario o economico, ma culturale, anzi etnico. L’Italia non si è minimamente corretta in tanti anni, quindi non lo farà nemmeno domani o dopodomani.
A questo punto, è suicida, per l’Italia, insistere in politiche giustificate da un progetto di integrazione che ben si sa oramai irrealizzabile, ossia che presuppongano un’integrazione che non ci potrà mai essere. E che impedisce di fare politiche diverse, ossia di spesa a debito per investimenti produttivi e innovativi. Occorrerebbe fare piani realistici, che tengano conto di ciò: di una graduale marginalizzazione dell’Italia, di un possibile default, di una possibile insostenibilità del cambio Lira-Marco (l’Euro non è una moneta unica, infatti, ma un sistema di parità bloccate, come il defunto SME, siccome i debiti pubblici restano divisi e pagano tassi diversi), in uno scenario in cui continua il declino economico e funzionale e aumenta l’instabilità politico-sociale. E’ necessario aver pronto un piano B per l’eventualità di uscita da Maastricht e per la riattivazione della moneta nazionale, in caso di necessità. Averlo, e far sapere agli altri che lo si ha. Ma per far ciò occorrerebbe un governo forte con una maggioranza sicura, quale non c’è né si potrebbe avere nemmeno andando a votare. E di una coesione nazionale che non si basi sul trasferimento di reddito da una parte produttiva del paese a una improduttiva, né sulla continua espansione della spesa pubblica assistenziale.
Ed è questo il punto di snodo di ogni analisi: il sistema-Italia da decenni è sottoposto a molteplici e gravi sollecitazioni e attacchi – soprattutto a sfide competitive derivanti dalla globalizzazione – ma di fatto non reagisce e continua a perdere posizioni rispetto all’estero e a perdere efficienza e credibilità all’interno. La sua classe dominante, ossia la Casta, si è curata, esclusivamente, di tutelare le proprie posizioni di privilegio e di intercettazione della spesa pubblica e delle risorse pubbliche, a spese della produttività, dell’efficienza e della legalità. Cioè si è curata di difendere le sue proprie rendite senza curarsi del funzionamento e della salute della società dal cui sfruttamento essa ricava queste sue rendite. E non dimostra alcuna tendenza a cambiare. Taglia la spesa che dovrebbe ampliare, ossia quella per investimenti, ricerca, formazione, servizi – mentre allarga quella corrente, clientelare, che invece dovrebbe tagliare: + 40% dal 2000 ad oggi. Manifesta dunque, oggettivamente, una natura, una mentalità e un funzionamento strettamente parassitari.
Un organismo unicellulare non ha bisogno di regole per coordinare il funzionamento delle sue cellule, appunto perché consiste di una sola cellula. Un organismo pluricellulare, come un lombrico, con organi specializzati per le varie funzioni, ha bisogno, per contro, di numerose regole. Un organismo ancora più complesso, come un uomo, capace di progettare il computer e di modificare il proprio genoma, ha bisogno di numerosi e sofisticati sistemi di regolazione a vari livelli – senza di cui non vive.
L’efficienza e la competitività dei sistemi sociali, come quella degli organismi viventi, dipende dalla loro capacità di strutturarsi in modo complesso, di coordinarsi nelle loro componenti, per sviluppare e svolgere funzioni sempre più specializzate, differenziate, evolute, e per coordinarle. Una tribù di trenta persone ha bisogno di meno coordinamento che un villaggio di mille. Una polis greca ha bisogno di meno coordinamento di un impero romano o cinese. L’incapacità dei greci di organizzarsi in una società panellenica ne ha determinato il tramonto e la sottomissione a Roma. La complessità, l’articolazione, può crescere solo di pari passo con la capacità di coordinamento, di cooperazione, ossia di produrre norme efficienti e di osservarle da parte della generalità: sovente si dimentica che non basta che le leggi siano rispettate, occorre anche che siano leggi funzionali e non disfunzionali al sistema e ai suoi componenti: se sono disfunzionali, illogiche, ingiuste, è meglio che siano, come spesso restano, disattese. L’incapacità italiana di organizzarsi in un sistema complesso, specializzato ed efficiente come quelli di altri popoli è palese e perdurante dalla c.d. unità d’Italia ad oggi, senza miglioramenti, anzi con tendenza al peggioramento. Si affermano e prevalgono, in Italia, soprattutto in politica e nelle istituzioni, i sistemi tribali, non evoluti, egoistici, parassitari, corporativi, miopi. I vertici dei partiti e dei sindacati sono divenuti orde di occupazione, saccheggio e spartizione, senza capacità tecniche di buona gestione e senza proposte strategiche per il paese nel suo complesso. Il palazzo della politica, per funzionamento assomiglia alla Tortuga, l’isola-base comune (bi-partisan), e porto sicuro, da cui i capitani-pirati salpano per compiere le loro predazioni.
L’efficienza di un sistema sociale è anche in mutua dipendenza con la pubblica fede, ossia con la fiducia reciproca tra cittadini e stato e tra cittadini e cittadini. La fiducia nello stato richiede che lo stato sappia sia governare bene ed equamente, sia legiferare bene ed equamente, sia applicare efficacemente le norme e le sanzioni. La mancanza di questi fattori corrisponde a una mancanza di pubblica fede, quindi a una società in cui prevalgono organizzazioni ristrette (di tipo familistico o tribale), che agiscono in base a un’ottica di saccheggio, a calcoli di breve termine, mordi e fuggi (perché non si possono fare programmi lunghi), a diretto scapito dei più deboli e della collettività, nonché delle generazioni venture, senza alcun interesse per il benessere e il futuro di questa stessa. I partiti politici italiani si evolvono in tribù od orde sostanzialmente secondo il modello dell’organizzazione mafiosa. Nessun progetto di lungo termine e di interesse collettivo fa presa o si afferma nel mondo reale (cioè fuori della propaganda e delle aspettative che essa, durante le campagne elettorali, suscita entro la soggettività delle persone che essa raggiunge). La pubblica amministrazione e la giurisdizione funzionano sempre peggio e costano sempre di più (con le ovvie conseguenze di improduttività economica, deficit pubblico, pressione fiscale, fuga dei capitali) perché chi le ha in mano le usa primariamente per sé e i suoi collegati e non per la loro funzione propria, e pretende di essere intangibile, ergendosi a valore morale intrinseco mentre manda in rovina il sistema. O forse che l’ANM si adopera per far sì che la “giustizia” italiana, che è centocinquantaseiesima al mondo per qualità, a livello di Africa nera, cessi di allontanare gli investitori con la sua sistemica inaffidabilità? No: la cosa non la interessa. Non è un problema suo. La Casta dominante vede la crisi come una minaccia non al paese ma al proprio potere e ai propri privilegi, quindi reagisce alla crisi aumentando la quota di risorse pubbliche destinata a comperare consensi mediante concessioni di privilegi, e diminuendo di conseguenza la quota di spesa destinata a servizi e investimenti utili (spende di più per fidelizzarsi Chiesa, magistrati, alti burocrati, monopolisti, capi-mafia, mentre per fidelizzarsi le categorie inferiori, non vitali, usa la paura: paura di perdere il lavoro, la pensione, i sussidi; paura di Berlusconi, del comunismo, delle tasse, degli immigrati, di Marchionne). Per effetto di queste contromisure, la crisi del paese si aggrava e minaccia ancora di più la Casta. Allora la Casta reagisce aumentando ulteriormente la quota di spesa pubblica destinata a propria tutela (ad es., si deliberano 100 miliardi per il feudo elettorale siculo e altri soldi per avere il sostegno vaticano) e aggiungendo misure di limitazione della libertà di protesta e dei mezzi di diffusione della informazione dissenziente (tagli ai sussidi all’editoria, restrizioni alla comunicazione pubblica via internet). Dato questo feedback positivo (ossia, di reciproco rinforzo) tra peggioramento della crisi e peggioramento della gestione politica, si va verso un punto di rottura, di system crash. Coloro che stanno portando avanti questo processo non è che non si rendano conto delle sue conseguenze e della sua insostenibilità, ma, analogamente al comportamento dei brokers che portavano e portano avanti i processi speculativi delle bolle finanziarie e immobiliari, finché il processo rende, nessuno lo ferma o ne esce. Il processo si arresta soltanto quando diventa insostenibile, e allora avviene l’implosione.
Il ruolo di un ministro delle finanze e dell’economia, in un simile sistema politico, è quello di far durare il gioco quanto più a lungo possibile, frenando gli eccessi di spesa pubblica cui alcuni gruppi politici ricorrerebbero per rafforzare o rappezzare la loro posizione di potere e conseguenti vantaggi, ma accentuando gli squilibri e anticipando così la fine del gioco, con conseguente danno per l’insieme della Casta e per il suo complessivo interesse. Interesse che in ciò converge coll’interesse dei paesi euroforti a costringere l’Italia a non fare default (a stringere la cinghia e ad alzare le tasse) finché quei medesimi paesi e i loro sistemi bancari non si saranno liberati dei bonds italiani nei loro bilanci. Questo ruolo del ministro in questione viene presentato come una politica di virtuosità, di convergenza europea, di risanamento, di ristrutturazione e rilancio, mentre ha tutt’altro scopo: prolungare il business della casta politica interna e dar tempo ai partners forti di mettersi al riparo dall’inevitabile tracollo italiano. A conferma di ciò sta il fatto che, in venti anni di declino, non è stato elaborato, discusso, e ancor meno attuato, alcun progetto economico strategico, alcun nuovo modello, alcuna riforma sistemica. Insomma, la politica economica dei governi italiani è una politica che, sotto il falso pretesto dell’integrazione europea, serve a due scopi: tirare avanti finché si può col business della Casta italiana e insieme obbedire gli interessi del padrone tedesco. Nel frattempo non si fa alcuna riforma (scuola, università, ricerca, pubblica amministrazione, trasporti, mentalità) per rendere il paese efficiente ed “europeo”, per prepararlo realmente all’integrazione che si dice di voler realizzare – ovviamente, mentendo, e solo per far accettare ai cittadini i “sacrifici”. La prospettiva cui si guarda dalle finestre dell’Hotel Bilderberg non è l’integrazione, bensì il system crash, la crisi “vera”, cioè tale da frantumare le attuali strutture di rendita, consenso e bloccaggio, quindi capace di aprire nuovi spazi di business, di investimento, di ristrutturazione del potere e da creare le condizioni politiche per una vera riforma – la quale probabilmente sarà basata su un take-over del sistema-Italia dall’estero, compiuto da capitali esteri, e che avvierà l’Italia a una gestione da parte di tali capitali, in stile Marchionne, ma senza più aver bisogno di negoziare. Il Belpaese troverà così la sua tanto agognata governabilità e modernizzazione.
25.12.10
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