AVVENTURE FUORI DALLA COSTITUZIONE
Ruini ha detto, e Casini recepito, che “l’Italia ha bisogno di stabilità” – ossia, tradotto dal linguaggio curiale, che la CEI vuole che per ora Berlusconi non cada. Per ora. Anche la Consulta gli ha dato spazio per tirare avanti verso la prescrizione dei processi sinora intentati contro di lui. Solito metodo italiano, di derivazione curiale, di mediare e tamponare i problemi senza risolverli, lasciandoli accumularsi irrisolti. Metodo non privo di vantaggi, ma che ha portato ad avere un sistema-paese bloccato e stagnante.
Che si può fare, con i mezzi predisposti dalla Costituzione, se Berlusconi viene sfiduciato e non si dimette? O se Napolitano non scioglie le Camere, ma nomina al suo posto uno della sua propria parte politica, cioè della sinistra, la parte che ha perso le elezioni e non ha quindi legittimazione popolare? E’ un golpe? Adiamo l’arbitrato della somma Corte Costituzionale sul conflitto tra i poteri dello Stato, oppure scendiamo in piazza per difendere la democrazia repubblicana, oppure ancora fuggiamo oltre confine, lasciando un liberatorio vaffa alla Repubblica delle Banane, nel Centocinquantesimo dell’Unità?
La recente, se non ancora pendente, crisi della maggioranza governativa ha dato vita e profondità a dibattiti giuridici e politologici su natura, ruolo e poteri (discrezionali, liberi o vincolati) del Capo dello Stato nelle crisi di governo, in ordine alla revoca del capo del governo sfiduciato, alla nomina di un nuovo capo del governo, alla legittimità di un governo del presidente della Repubblica (con fiducia delle camere) o puramente elettorale (senza fiducia delle camere), nominati dal Quirinale per cambiare la legge elettorale attraverso una maggioranza ad hoc e limitata, e poi andare al voto.
Il dibattito è anche o soprattutto in relazione alla possibilità che Berlusconi, se sfiduciato dalle camere e posto di fronte a un simile comportamento di Napolitano, resista obiettando che ciò sia un’eversione della Costituzione e un atto per mandare al governo quelli che han perso le elezioni, contro la sovranità popolare che ha indicato lui come capo del governo. Potrebbe dire: “Napolitano ha un passato antidemocratico: comunista dal 1948, cioè da quando il PCI era sottoposto a Stalin, nel ’56 giustificò l’occupazione sovietica dell’Ungheria e non ha mai fatto autocritica. Ora, di nuovo, antidemocraticamente, cerca di rovesciare la volontà popolare uscita dalle urne nel 2008 per mettere su uno della sua parte politica, pur sapendo che non ha legittimazione popolare. Se nomina un capo del governo che non ha la fiducia delle camere, al solo fine di sostituire il mio governo con uno gradito a lui, col quale andare alle elezioni.”
Queste tesi sarebbero giuridicamente fondate. Se il Presidente della Repubblica nomina un governo con l’intento di farlo governare senza fiducia delle camere, anche solo per un limitato periodo di tempo – cioè fino alle elezioni – trasforma la forma di governo da parlamentare a presidenziale, quindi commette il reato di alto tradimento, e dovrebbe essere arrestato immediatamente anche da semplici cittadini di buona volontà.
Per evitare di commettere tale reato, nel caso che una o ambo le camere sfiduciassero Berlusconi e questi si dimettesse, Napolitano, a norma degli artt. 88-94 Cost., deve, come minimo, astenersi dal sostituire il governo Berlusconi con un governo diverso che non abbia la fiducia delle camere. Cioè deve mandare il nuovo governa alle camere, e se queste non gli danno la fiducia, revocarlo, rinominare Berlusconi e i suoi ministri, rimandarlo davanti alle camere, e, in caso di nuova sfiducia, scioglierle, oppure sciogliere quella di esse che non gli abbia dato la fiducia.
Come minimo, dicevo: perché si può sostenere – anche se è opinabile – che la legge elettorale vigente, facendo esprimere agli elettori la scelta del capo della coalizione, ossia sostanzialmente del candidato premier, comporti una legittimazione-investitura democratica personale ed esclusiva del detto candidato alla carica di capo del governo, sicché egli non può essere sostituito se non attraverso un nuovo voto popolare. Se il Presidente della Repubblica nomina un altro al suo posto, viola l’art. 1, 2° Comma, della Costituzione, ossia il principio di sovranità popolare, e commette il reato di alto tradimento. Le obiezioni giuridiche a tale tesi sono le seguenti: a) La legge elettorale lascia agli elettori di indicare non il candidato premier, ma il capo della maggioranza; quindi non vi è investitura popolare al premierato; quindi il Presidente della Repubblica può legittimamente nominare premier una persona diversa; b)La legge elettorale è una legge ordinaria, di rango inferiore alla Costituzione; quindi non può istituire un vincolo al potere di scelta e nomina del premier, che gli assegna l’art. 92 Cost; c)Anche se è il popolo a indicare il futuro premier, e anche se è il popolo a detenere la sovranità in base all’art. 1 Cost., il popolo può esercitare la sovranità solamente “nelle forme e nei limiti della Costituzione”, quindi, anche se sceglie il premier e la maggioranza, è legittimo che il Presidente della Repubblica nomini premier un’altra persona, e il popolo deve accettarla.
A tali obiezioni si può facilmente replicare con semplici osservazioni, rispettivamente: a)Anche se la dizione della scheda elettorale parla di scelta del capo della maggioranza e non del capo del governo, è chiaro che l’elettore esprime la scelta del premier, e la volontà elettorale popolare è la volontà sovrana, per la Costituzione; b)Se la legge elettorale, quantunque ordinaria, fa emergere la volontà popolare, questa deve prevalere sui giochi di palazzo e sulle preferenze del Presidente della Repubblica, perché è la volontà del legittimo sovrano; e la norma che riconosce che il popolo sovrano prevale su ogni altra che la contraddica; c)Una volta che si è riconosciuto, come i costituenti riconobbero nell’art. 1 Cost., che la sovranità appartiene al popolo, porle limiti è contraddittorio: la volontà del popolo è il fondamento della legittimazione; del resto, quando mai il popolo, o noi popolo oggi vivente, ha accettato limitazioni alla propria sovranità, o autorizzato altri a imporgliele, irrevocabilmente?
Vediamo ora un diverso scenario: Berlusconi viene sfiduciato dalla Camera ma non dal Senato, non si dimette, e invita Napolitano a sciogliere la Camera e ad andare al voto solo per essa. Oppure viene sfiduciato da ambo i rami del parlamento, e si rifiuta di dimettersi dichiarando che lo fa per impedire a Napolitano di sovvertire la Costituzione mettendo su il governo dei non eletti anziché andare al voto. Cioè Berlusconi non si dimette per non avallare un colpo di stato. Alcuni costituzionalisti, erroneamente, ritengono che, in tale caso, la Costituzione, artt. 92, 93, 89, Napolitano potrebbe nominare un nuovo governo e far controfirmare al nuovo premier il decreto di revoca di Berlusconi dalla carica di presidente del consiglio dei ministri. Errano, o forse meglio cercano di spingere le cose in senso politicamente gradito alla loro parte, perché è ovvio che non vi possono, costituzionalmente, essere due premier in carica al medesimo tempo, e il nuovo premier non può entrare in carica, giurare, e controfirmare un decreto dfel vecchio premier, mentre questo stesso è ancora in carica. La sola via d’uscita costituzionale sarebbe lo scioglimento delle camere, col premier uscente che rimane in carica fino alla costituzione delle nuove camere. In realtà, la Costituzione non prevede e non regola questo e altri casi di conflitto tra organi costituzionali. Non prevede tutti i possibili scenari, sicché è possibile che si arrivi a qualche impasse, a uno stallo, a un deadlock, assai pericolosi se concomitanti a crisi economiche o di coesione politica, sociale, etnica del paese – cioè se concomitanti a una situazione come quella presente e ingravescente dell’Italia. In linea logico-giuridica, tali situazioni pongono fine al funzionamento costituzionale, ossia alla legittimazione del potere, quindi producono una crisi di sistema, cioè la morte dell’ordinamento giuridico, l’uscita in un territorio non costituzionalmente regolato, e l’apertura della possibilità della fondazione di un novello ordinamento: avventure extracostituzionali.
In effetti, di nessuna costituzione, come sistema di regole di legittimazione e regolamentazione del potere, si può pretendere che sia assoluta e perfetta, e che sia in grado di prevedere ogni possibile evenienza e di regolamentare la soluzione di ogni conflitto e disfunzione dei suoi organi. Si deve quindi riconoscere che un ordinamento costituzionale possa spezzarsi irrimediabilmente. Eppure questa idea sembra terrorizzare molti, o meglio è usata per indignare o allarmare o spaventare molti. “Con questa legge / con questo premier / con questa sentenza, siamo fuori dalla Costituzione”; “Chi discrimina gli omosessuali, è fuori dalla Costituzione”; etc.
Certi costituzionalisti però sostengono che da tali situazioni di stallo, nel sistema costituzionale italiano e in altri simili, si possa pur sempre uscire legittimamente mediante atti atipici, ossia passaggi non previsti né espressamente consentiti dalla Costituzione, ma nondimeno legittimi, grazie al fatto che la Costituzione prevede organi di potere “neutro”, super partes o non di parte, non politici, che come tali potrebbero compiere gli atti idonei a riportare il funzionamento dell’ordinamento entro le previsioni costituzionali. Questi organi sarebbero il Presidente della Repubblica, i presidenti delle camere e il potere giudiziario, soprattutto la Corte Costituzionale, che ha, tra gli altri, il potere di decidere sui conflitti di competenza tra i poteri dello Stato (art. 134 Cost.). Quindi il Presidente della Repubblica potrebbe, ad esempio, revocare il premier e, in caso di resistenza, farlo arrestare, e la Corte Costituzionale decidere sulla legittimità di tale atto. Il Presidente della Repubblica, come Capo dello Stato e personificazione dell’unità nazionale, in continuazione giuridico-funzionale della figura del re, e legittimatore di ultima istanza degli atti del potere. In effetti, nella rottura di sistema prodotta dalla caduta del Fascismo, il Re Vittorio Emanuele III funse da elemento di continuità dello Stato italiano, soprattutto verso l’estero, verso gli Alleati: infatti firmò la resa per tutti gli Italiani, oltre che per lo Stato.
Questo ragionamento è infondato per diverse ragioni. Innanzitutto, in Italia, oramai è divenuto palese che non vi sono poteri neutri e non di parte: Presidenti della Repubblica, delle camere, magistrati, CSM, e persino la Corte Costituzionale, fanno politica, si schierano, picconano, hanno interessi, partecipano al gioco delle parti, eliminano interi partiti politici, fanno guerra di bande, compiono ordinariamente forzature e talora abusi per favorire questa fazione o danneggiare quell’altra. La letteratura investigativa sulle caste della politica e della giustizia ha oramai dissolto l’illusione – almeno, per coloro che leggono. In secondo luogo, l’idea stessa di un organo continuatore dello Stato dopo la rottura della legittimazione costituzionale del potere, è incompatibile con una democrazia repubblicana (negli USA, ad esempio, il Presidente non è capo dello Stato, perché in democrazia Capo dello Stato può essere solo il popolo sovrano). Ma, ancor prima di questa considerazione, vale un’altra: se i costituenti avessero pensato a un simile meccanismo residuale, basato sui poteri neutri che assumono la direzione politica, quindi derogante ai principi fondamentali della forma di governo, se l’avessero voluto, l’avrebbero istituito e regolato in modo chiaro e definito, onde evitare abusi.
In quanto ai c.d. poteri neutri, se guardiamo più tecnicamente alla realtà del loro comportamento, vediamo che sono poteri soprattutto di interdizione, deterrenza e delegittimazione politiche, esercitati non di rado con logica e interesse di parte, mascherati come poteri di garanzia e protetti dal tabù delcriticare apertamente il modo in cui vengono usati, chiamando le cose col loro nome, e dal dovere di fingere che siano ciò che sulla carta dovrebbero essere: è pericoloso denunciare apertamente abusi e faziosità di presidenti della repubblica e di magistrati. Vi sono norme penali speciali a tutela della loro “reputazione”, che proteggono, in loro, la facciata di legittimità del sistema – quella facciata che costituisce la legittimazione di ultima istanza, quella a cui si ricorre per salvare l’apparenza di credibilità e decenza dello Stato quando il comportamento dei politici e delle istituzioni la mette in pericolo e il popolo inizia a non crederci più. Il presidente della repubblica italiano ha specifici strumenti di potere in tal senso, conferitigli dalla Costituzione, art. 87 e 88: egli, con le sue esternazioni e con i messaggi alle camere, può gettare discredito su personaggi politici sgraditi, su magistrati sgraditi, su inchieste giudiziarie sgradite e che lo riguardano, può istigare azioni politiche e giudiziarie contro vari obiettivi, può bloccare altre iniziative politiche. I suoi poteri di interdizione e delegittimazione comprendono anche la possibilità di rimandare le leggi alle camere, o di rifiutarsi – con critiche mirate – di promulgare un decreto legge. Può, in certe situazioni, mettere in crisi una maggioranza, o salvarla. Nel compiere tali atti di delegittimazione, è molto efficace, perché la sua parola appare cadere dall’alto, da un’altezza al di sopra delle repliche e delle parti, quasi un verbo divino. Ma non lo è, ovviamente, anche se il presidente della Repubblica è scelto tra persone di intelligenza e cultura molto superiori alla media dei politici, quindi solitamente dice cose spiccatamente più intelligenti. Il fatto stesso che nessuno gli ribatta, o quasi, indica però anche che i suoi poteri sono temuti. Egli dispone di un personale numeroso e costosissimo (circa 845 dipendenti) – cosa che non si giustifica con le sue funzioni costituzionalmente esplicitate. Il Quirinale ha compiti che vanno oltre il dichiarato, e non sono solo domestici, ma anche internazionali. Però la sua funzione principale è quella di difendere l’apparenza di legalità del sistema, ossia di intervenire con censure, appoggi, interferenze, minacce, per moderare la lotta politica tra le fazioni e i partiti in campo – inclusa la magistratura – in guisa che non trasmodino, non lascino cadere la maschera, e, nella foga delle loro interessate e spesso sconce contese, non travolgano le istituzioni al punto che il popolo volti loro le spalle e faccia loro fronte.
Chiusa la parentesi sui “poteri neutri”, ed escluso che si possa ricorrere a una loro azione “creativa” per evitare di uscire dalla legalità costituzionale, non resta che accettare la realtà, ossia che possono prodursi situazioni che rompono la legittimazione costituzionale, che le pongono fine e che si formi una nuova struttura di legittimazione del potere – così come storicamente è avvenuto con altre costituzioni e altri ordinamenti. E ci sono due buone ragioni, oltre al fatto che queste cose ogni tanto avvengono, per non temere la possibile uscita dalla legalità costituzionale, ossia: a) non siamo mai stati nella legalità costituzionale; b) essa non può esistere oggettivamente.
Vediamo la prima. Se confrontiamo l’ordinamento prescritto dalla Costituzione con l’ordinamento reale del potere in Italia, la c.d. costituzione reale, constatiamo che quest’ultimo non solo è molto lontano dal primo, ma che è in diretta opposizione, come potrebbe esserlo l’ordinamento fascista o sovietico. Se riteniamo che la Costituzione formale sia il criterio di legittimità, allora lo Stato italiano reale va combattuto e abbattuto, e possiamo legittimamente resistere al suo potere, perché è uno stato contrario ai principi di fondo della Costituzione del 1948 e successive modifiche. Innanzitutto, la sovranità monetaria, economica e finanziaria, strumento base per fare politica, è in mano a un cartello oligopolista mondiale di banchieri privati, che dettano le condizioni operative dei governi e per la loro sopravvivenza finanziaria (il rating).. Tale cartello, nelle sue varie articolazioni (BIS, BCE, FMI etc.) è addirittura sottratto ad ogni controllo politico e persino giudiziario. Quindi al popolo è tolta una parte essenziale di sovranità – una parte specificamente incidente sull’economia, sul lavoro: il monopolio privato delle moneta e del credito pone i lavoratori, dipendenti e autonomi, in una una posizione di soggezione ai banchieri monopolisti. Ciò è in diretta opposizione ai due principi essenziali, superiori a ogni altro, della Costituzione: la sovranità popolare e il fondamento sul lavoro della Repubblica. Abbiamo così una totale contrapposizione del sistema reale ai valori e ai principi della Costituzione, e nessun presidente della Repubblica, pur avendo giurato fedeltà alla Costituzione, lo denuncia. A questo punto sarebbe superfluo continuare. Diciamo solo che, in secondo luogo, anziché una democrazia rappresentativa con rappresentanti scelti dal popolo, abbiamo un parlamento nazionale di uomini nominati dai segreterai-proprietari dei partiti politici, i quali non hanno democrazia né trasparenza interne. Quindi non abbiamo una democrazia rappresentativa, non abbiamo uno Stato legittimato democraticamente. Vogliamo aggiungere che almeno ¼ dei parlamentari sono espressi da collegi a controllo mafioso e che quindi le maggioranze dipendono tutte da patti con le mafie? Che circa 1/3 dei parlamentari sono drogati e ricattabili? Che corruzione e clientelismo sono il metodo con cui si è eletti e nominati? Che la “giustizia” è tra le peggiori al mondo, a livello di Africa nera? Il ruolo del capo dello stato e dei suoi “magici” poteri è quindi, anche, quello di massimo ed estremo tutore di un’illusione di legalità, di conformità alla Costituzione formale e legittimante.
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Se siamo da sempre al di fuori della Costituzione formale e della sua legalità, e siamo ancora qui a teorizzare su di essa e le sue violazioni, vuol dire che possiamo resistere anche in questa apparentemente anomica condizione, comunque la vogliamo definire. Invero, uina costituzione reale c’è, ha le sue regole perlopiù non scritte o perlomeno non divulgate, e funziona – in modo distruttivo, nel lungo termine – ma funziona. Solo che, come tutte le costituzioni reali, è molto distante da quella formale, con cui si copre e camuffa come può. In fondo – e qui siamo al punto b) di cui sopra – che cos’è mai una costituzione, un ordinamento giuridico? Da dove nasce e in che consiste, se non dal rispetto popolare del fatto, della situazione di fatto, di rapporti di potere e sfruttamento preesistenti? La popolazione generale si persuade, o meglio si abitua a comportarsi conformemente a una situazione di rapporti di potere-potenza, fino a sentire tali comportamenti di conformazione, di compliance, come dovuti, moralmente e legalmente. La gente si abitua facilmente a considerare legittimo il potere da cui dipende e i suoi ordini, anche se dall’esterno questo può sembrare arbitrario o ingiusto: si pensi a come i cittadini degli stati totalitari sentono come legittimi ordini di torturare o di sterminare. O a come gli impiegati tendono a considerare come intrinsecamente legittimo ogni ordine del superiore che ha potere su di loro, o la prassi consolidata del loro ufficio, anche quando sono contrari alla legge. La gente associa la sanzione negativa ai comportamenti disobbedienti e la sanzione positiva a quelli obbedienti: in tal modo si attua un condizionamento del comportamento che porta a una condotta di rispetto delle regole poste, indipendentemente dal problema della loro legittimità. La fonte del diritto è l’abitudine e l’imitazione-imitazione degli altri, o meglio, la sensazione di legalità e doverosità che viene prodotta dall’abitudine, dalla pratica, di comportarsi secondo determinati schemi condivisi. Non è una (inesistente) diversa qualità del diritto rispetto al fatto. Non è una coerenza logico-giuridica del sistema formale, ma il grado di condizionamento e ottemperanza della condotta della popolazione. Come anche enuncia il celebre teorema di Goedel, nessun sistema di regole può fondare se stesso, può legittimarsi da sé: ha bisogno di un fatto, di una forza esterna, che non fa parte di esso, e che quindi non è regola, non è diritto, ma fatto. Il diritto non si distingue, quindi, e non può distinguersi, dal fatto. Il potere non può distinguersi oggettivamente dalla forza. La distinzione c’è, però è puramente soggettiva, ossia nella percezione (illusoria) della gente, nel suo credere o sentire che tale differenza sussista, nel conformarsi – e psicologicamente la percezione di legalità del sistema non è derivata dalla riflessione tecnico-giuridica sulla coerenza del suo modello normativo e sul rispetto di esso da parte del corpo sociale e dei poteri costituiti, bensì deriva dall’abitudine a conformarsi (il comportamento plasma la cognizione). La pretesa di una “aseità” del diritto – ossia, che il diritto, il potere “giuridico” si differenzi per qualità dal potere di fatto, dalla forza, e che quindi aggiunga – è una ingenuità, oppure una mistificazione per proteggere gli interessi costituiti della “legalità” al potere.
Che tale illusione cada, che la gente mangi la foglia, che perda il residuo rispetto verso le istituzioni, rendendo gli Italiani ingovernabili proprio mentre ci si prepara a colpirli nei risparmi con una tassa patrimoniale per sostenere la finanza pubblica contenendo il tasso sul debito pubblico mediante una politica fiscale più pesante, come raccomandato il 13.01.11 da Trichet, mentre al contempo si tasgliano servizi e “diritti” vari, e mentre i Tunisini danno l’esempio di come un popolo si può ribellare con successo al suo pianificato impoverimento, questo è il vero azzardo legato alla possibile rottura costituzionale nello scontro tra Berlusconi e i suoi avversari, neutri e non.
14.01.11
Marco Della Luna